di Agostino Bagnato

(gennaio 2016 - dal n. 1-2016 de l'Albatros)

Pier Paolo Pasolini si presenta al tavolo degli ospiti nel grande salone del Comune di Vibo Valentia vestito con semplicità, secondo il suo solito. Gli occhiali dalla montatura nera gli coprono parte del volto. E’ il mese di novembre del 1960. La sera è fredda, piovigginosa. Nonostante ciò, il salone è affollato da un pubblico di insegnanti, studenti, qualche impiegato. Pochi professionisti. C’è gente in piedi, tra cui il sottoscritto, che fa quadrato ai posti a sedere. Il poeta parla con voce pacata e si ascolta con difficoltà, perché non ci sono microfoni. Il suo ultimo romanzo Una vita violenta ha suscitato scalpore per la crudezza del linguaggio e la tragica storia dei protagonisti, i ragazzi di vita del suo precedente libro.

Si apre la discussione, ma non è facile interloquire con una figura come Pasolini. Mi faccio coraggio e gli chiedo perché la sua poesia ha abbandonato la strada dell’ermetismo. Mi risponde con la gentilezza che gli è propria, sostenendo che non si è mai riconosciuto nell’ermetismo perché la sua poesia deve parlare con il linguaggio chiaro del popolo, sulla scia della positiva esperienza del realismo. Ma io non sono convinto della sua risposta e replico, tra lo stupore dei presenti. Tiro in ballo il simbolismo e la poesia rivoluzionaria russa e sovietica. La mia presunzione è basata sul niente, a diciassette anni di età. La mia conoscenza della poesia contemporanea è legata a letture affrettate e confuse: Brecht, Majakovskij, Pasternak, Lorca, Neruda, Rilke. Eluard, Eliot, oltre agli italiani Montale, Quasimodo, Luzi, Sereni, Caproni. Cosa c’entra il simbolismo? A pensarci oggi, mi vergogno della giovanile impudenza e mi viene da ridere. Pasolini è paziente e spiega che quella corrente poetica è stata spazzata via dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale e che lo stesso ermetismo non risponde più alle ansie di verità e di trasformazione politico-sociale delle popolazioni dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale e gli orrori del nazifascismo. Altra storia è la poesia rivoluzionaria che non ha radici in Italia, se non nei canti di protesta e di lotta dei lavoratori.

Al termine della conferenza il poeta mi ha stretto la mano, incitandomi a proseguire gli studi, avendo compreso che ero uno studente. Ero contrariato, ma ho riflettuto molto sulla sua lezione di civiltà culturale e di pedagogia letteraria. Ho sempre pensato che quello fosse il giusto modo di comportarsi di un autentico artista.

Nei giorni successivi i locali dirigenti comunisti mi chiesero di frequentare la sezione per approfondire le tematiche affrontate da Pasolini, legate alla lotta di classe e alla trasformazione della società borghese e capitalistica. Ho declinato l’invito perché dovevo studiare. Frequentavo l’ultimo anno dell’Istituto Tecnico per Geometri e volevo superare l’esame di Stato con il massimo dei voti. Invece mi sono ammalato ed ho dovuto lasciare l’Istituto e trasferirmi in ospedale a Catanzaro per curare la tubercolosi. Ho studiato nel capoluogo calabrese e di Pasolini ho quasi dimenticato tutto, salvo qualche accenno nelle lettere che scambiavo con Nicola Siciliani de Cumis, mio coetaneo.


Ennio Calabria, Ritratto di Pasolini, 2015, litografia, 70x50

Ho incontrato il poeta qualche anno dopo a Roma, durante manifestazioni politiche e culturali, prevalentemente organizzate dal Partito Comunista. Mi ero iscritto al PCI e l’atteggiamento di Pasolini verso il movimento operaio non lo condividevo pienamente. Avevo conosciuto nel frattempo il giovanissimo Gianni Borgna con il quale avevo avviato un positivo dialogo politico nell’ambito della sezione Trionfale che era il centro della direzione  della zona Nord di Roma. Il suo rapporto con Pasolini era considerato quasi eretico a quel tempo. Ma quando Gianni fu eletto segretario dei giovani comunisti romani, quel legame con il poeta risultò prezioso. Egli era riuscito a stabilire un rapporto dialettico e propositivo, privo di schemi ideologici e di preconcetti, il che consentiva a Pasolini di prendere parte a molti incontri pubblici organizzati dai comunisti, a cominciare dall’esperienza cinematografica. L’attività cinematografica aveva proiettato Pasolini tra i protagonisti del nuovo modo di intendere e di fare cinema, il cui ruolo è stato decisivo per le contestazioni alla mostra di Venezia. In quella occasione si è toccato con mano il distacco tra la concezione pasoliniana della cultura popolare e l’elitarismo di cineasti chiusi nel proprio mondo ideologico.

Cominciavo a rendermi conto della grandezza di Pasolini visionando film come Accattone, Vangelo secondo Matteo, Teorema, Medea, Edipo, fino alla Trilogia della vita (Decameron, Racconti di Canterbury e Mille e una notte) che considero tra i vertici della cinematografia italiana. Intanto proseguiva da parte mia la lettura della poesia pasoliniana. La religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa mi stupirono per la profondità dell’argomentare in termini lirici, in linea e sviluppo con il precedente Le ceneri di Gramsci. Poesia civile, di alto valore morale, anche quando gli argomenti erano scabrosi e ruvidi per quei tempi. Meno convincenti mi apparivano i suoi interventi sull’attualità, raccolti nel volume Scritti corsari e Le belle bandiere, ma ancora una volta ero in ritardo. Non comprendevo la forza della sua critica, basata sulla capacità di osservare la realtà senza filtri ideologici; l’acutezza dell’indagine sociale e psicologica; la lettura profonda del male che si annida nel potere e che esplode in forme incontrollate. Ma come, dare ragione ai poliziotti che picchiano gli studenti in lotta alla Facoltà di Architettura a Roma, era la domanda di molti militanti comunisti e di sinistra del tempo. Era inconcepibile per la generazione formatasi dopo la guerra. Non per Gianni Borgna che aveva colto le ragioni autentiche di quella cesura anticonformista e ne dava ampie argomentazioni nelle riunioni di partito, non compreso a sua volta.

Pier Paolo Pasolini è scomparso quaranta anni fa. Non voglio tornare su quelle frenetiche e tragiche giornate, in cui allo scoramento e al dolore si sommava l’indignazione per le maldicenze sulla vita privata del poeta e le frequentazioni giovanili. I funerali in piazza Farnese sono stati l’occasione per una riconciliazione postuma con i comunisti, sempre grazie all’intelligente mediazione di Gianni Borgna che pronunciò una memorabile orazione funebre, una vera e propria lezione di civiltà. In quella occasione i radicali e Marco Pannella avevano tentato di fare di Pasolini la loro icona, ma l’intelligenza di Borgna riuscì a fare naufragare l’operazione piratesca.

Mi ritrovavo stabilmente in contatto con Gianni tra i banchi del Consiglio Regionale del Lazio, unitamente a Gian Maria Volontè e il discorrere andava inevitabilmente su Pasolini e la sua attività letteraria, cinematografica e culturale. Il film Salò o le 120 giornate di Sodoma fu uno scandalo autentico per la violenza della materia trattata. La destra romana tentò in ogni modo di bloccare l’uscita postuma dell’ultimo lavoro del maestro, ma l’indignazione del mondo della cultura obbligò le autorità a concedere il visto per la proiezione.

Al ristorante “Pomodoro”, ogni volta che ci vado, rivedo ancora oggi l’assegno che il proprietario ha incorniciato e appeso al muro, con cui il regista pagò la cena prima di andare all’appuntamento fatale con Pino Pelosi. Angelo Panzironi, titolare del ristorante “Biondo Tevere”, mi parlava delle frequenti visite di Pasolini, compresa l’ultima volta con Pino Pelosi quella tragica notte del 1 novembre 1975. Ercole Ercoli, a quel tempo giovanissimo agente di pubblica sicurezza in forze alla Questura di Viterbo, mi racconta con precisione di particolari, a distanza di tanto tempo, di avere fermato verso la fine di ottobre di quell’anno, uno sconosciuto che guidava in modo spericolato, senza patente e senza documenti, sul piazzale delle stazione ferroviaria del capoluogo della Tuscia. Soltanto in Questura appurò che quel giovane dall’aria decisa e quasi sprezzante, era Pasolini. Che ci faceva Pasolini a Viterbo? Aveva acquistato la torre medievale nella campagne della vicina  Chia, dove si rifugiava per lavorare. Lì ha scritto il suo ultimo romanzo, Petrolio, rimasto incompiuto. Ercoli, oggi apprezzato pittore paesaggista, parla di quella notte con il rimpianto di chi non ha potuto fare nulla per salvare la vita a un uomo d’ingegno che viveva tra genio e sregolatezza.

Una settimana dopo la morte di Pasolini sono stato a Crotone per presiedere il congresso dell’Alleanza dei Contadini. Dopo l’intervento dello storico leader dei contadini catanzaresi Pasquale Poerio, è toccato a me rievocare le battaglie per la riforma agraria, la strage di Melissa, l’Ente Sila e poi l’abbandono delle campagne. Bisognava difendere l’agricoltura in generale e quella meridionale in particolare. Aveva ragione Pasolini a protestare per la fine della civiltà contadina, sulla scia del lamento di Carlo Levi. Lo stesso Pasolini che è rimasto vittima della trasformazione incontrollata del Paese, con l’inurbamento sconsiderato che, portando emarginazione e squilibri sociali, ha prodotto violenza. «Lo stesso Pasolini è rimasto vittima di quella violenza» ho gridato al microfono. Un applauso fragoroso si è levato dai presenti, contadini del Marchesato e dell’altipiano della Sila. Com’è possibile che gente semplice, umile, quasi analfabeta, conosca e apprezzi Pasolini, mi sono chiesto? Mi hanno spiegato che alcuni film li avevano impressionati, a cominciare dal Vangelo secondo Matteo, girato a Matera e da Mille e una notte, di cui alcune scene erano state girate in Calabria. Ma era il messaggio politico del poeta che li aveva colpiti, di cui sentivano parlare frequentando le sezioni comuniste del territorio  oppure ascoltando i loro figli studenti a Napoli e a Roma, in attesa che aprisse i battenti l’Università della Calabria a Cosenza. Ne ho parlato con Borgna ed egli ha confermato che Pasolini era molto attento alle trasformazioni delle campagne italiane. Il suo pensiero al riguardo era condensato nel celebre articolo pubblicato sul “Corriere delle sera” riguardante la scomparsa delle lucciole, che aveva fatto sorridere tante anime belle di rivoluzionari furiosi nell’iconoclastia del presente.

Sono stato a Chia più di una volta proprio per cogliere l’atmosfera di quell’isolamento che richiedeva la stesura di Petrolio che avrebbe visto la luce qualche tempo dopo.  Testo complesso, duro, tragico, come il coevo film Salò. Entrambi richiedevano una concentrazione straordinaria. Entrambi sulla violenza del potere sull’uomo e sulla società. Opere entrambe osteggiate da moltissimi, incomprese da tanti, malgiudicate dal pubblico. Si tratta in effetti di opere che costituiscono una sorta di testamento da parte di uno dei protagonisti della cultura italiana del Novecento.

A distanza di quarant’anni dalla morte, il giudizio su Pier Paolo Pasolini è pressoché consolidato: un intellettuale autentico, fuori dagli schemi, dalle convenzioni e dalle scuole. Una mente lucida, visionaria, apocalittica. Un vero cuore di tenebra. L’ombra che scivola lenta sulla sua fronte, come lo interpreta un altro intellettuale visionario della realtà come Ennio Calabria, è la colpa del Novecento, il secolo breve per le tante tragedie che non ha saputo comprenderlo e difenderlo, condannandolo alla morte violenta.

La sua mancanza è stata avvertita in questi anni terribili della storia d’Italia e dell’Europa. Chi lo ha ucciso sapeva perfettamente ciò che faceva. Per questo quel delitto non può restare impunito. Gli artisti che lo ricordano, come oggi fa Salvatore Miglietta con il suo ritratto e come ieri ha fatto Ennio Calabria con la splendida acquaforte, lo sanno benissimo e denunciano il bisogno di verità e di giustizia.

 

 

Questo sito web fa uso di cookie tecnici 'di sessione', persistenti e di Terze Parti. Non fa uso di cookie di profilazione. Proseguendo con la navigazione intendi aver accettato l'uso di questi cookie. To find out more about the cookies we use and how to delete them, see our privacy policy.

  I accept cookies from this site.
EU Cookie Directive Module Information