Con questo articolo la rivista apre uno spazio di discussione sul CORONAVIRUS. Si tratta di un atto dovuto a noi stessi, impegnati nella redazione del l’albatros, ma anche nei confronti dei lettori. Infatti, la pandemia CORONAVIRUS obbliga ognuno di noi a riflettere sul passato e soprattutto su come affrontare e costruire il futuro. Si tratta di un tema che non può essere lasciato agli scienziati, agli esperti, alle istituzioni di ogni parte del  mondo, ma coinvolge la coscienza individuale e collettiva, oltre alle relazioni interpersonali. Per non parlare delle implicazioni geopolitiche e di politica internazionale.

 di Ettore Ianì


Premessa

La parola pandemia circolava con pudore e timore da diversi giorni, da quando compare nel mese di dicembre del 2019 in Cina un nuovo virus nella città di Wuhan Corana virus, il nuovo virus che provoca la malattia rinominata Covid-19. L’indifferenza e la sottovalutazione  furono i primi sentimenti: la Cina appariva lontana.  Da quando il direttore dell’Organizzazione mondiale  della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus scandisce che la situazione è pandemica, si cominciò a pronunciarla in modo franco e schietto, ma non certo con leggerezza o negligenza, ma anche con sciacallaggio da parte di alcuni politici come, per esempio, Matteo Salvini. La definizione di pandemia da parte dell’Ons certificava che gran parte del globo si trovava di fronte ad una epidemia che si espandeva a livello mondiale, che superava i confini nazionali e colpiva una moltitudine di persone assai elevato. Forse è troppo presto per fare previsioni, la situazione è calda, in movimento e mancano dati essenziali, prevalgono i dubbi politici e le incertezze scientifiche. Finché non si mette in campo un “Piano pandemico” di lavoro corale e integrato sotto il coordinamento e tutela di organismi istituzionali sovra nazionali come l’Ons, la cautela è d’obbligo. Questo però non esclude di procedere con prudenza e accortezza verso una lettura critica e prospettica sui riverberi di questa crisi economica e sanitaria globale, avanzando alcune prime considerazioni e senza alcuna pretesa di offrire un quadro esauriente e compiuto, ma con l’umiltà di non avere alcun titolo particolare per dare spiegazioni che non abbiamo. Due le considerazioni, la prima di carattere macro con qualche annotazione storico-politica, la seconda micro, sull’uomo scarno e nudo.

Coronavirus come catalizzatore

L’idea che circola, con una certa insistenza, secondo cui l’epidemia in atto provocherà la fine della globalizzazione (cui non c’è alternativa, soprattutto se tarata all’oggi) la fine del grande mercato aperto, già in difficoltà dopo il 2008, la nascita di un nuovo protezionismo con l’innalzamento delle barriere e dei dazi, appare poco credibile.  Più credibile è ipotizzare che ha funzionato da catalizzatore per accentuare gli squilibri e i rapporti di forza. Il coronavirus, che non innesca crisi politiche ma virus e batteri infettivi, non hanno nulla da spartire con il nazionalismo della Casa Bianca di Trump dell’ “America first”. Così nulla a che fare ha con la disputa radicale tra gli Stati Uniti e la Cina, tra l’Europa e gli Stati Uniti, tra gli Stati Uniti e il Messico o con la lunga serie di decisioni unilaterali adottate dagli Stati Uniti fin dal 2018 con le “global safeguard tariffs” allo scopo di frenare l’import di lavatrici e pannelli solari cinesi e coreani. Né tantomeno con il clima plumbeo fra i paesi Europei allo sbando, con una Germania politicamente indebolita, il velleitarismo di Emmanuel Macron che perde ogni giorno consenso, la Brexit di  Boris Johnson o l’ascesa irresistibile del nazionalismo aggressivo e del virus illiberale che viene dall’Europa dell’ Est. Più che Stati Uniti d’Europa ci troviamo di fronte ad una moltitudine di Paese spaventati, che fa fatica a tenere il passo con gli eventi e con una Bce riluttante. Appare più credibile l’ipotesi che le picconate sulla globalizzazione, che  ha trionfato per tutto il ventennio 1990/2010, siano legate all’attuale appannamento della forza e potenza statunitense e allo spazio che lascia a favore per un nuovo ordine mondiale con la Cina di Xi Jinping , che propone al mondo il suo Paese come nuova guida della globalizzazione, o al Giappone, Australia, Corea del Sud e altri.  La pandemia ha certamente innescato e accelerato la crisi e fatto scoppiare le contraddizioni preesistenti, ma sono e restano le decisioni politiche a determinare il governo delle cose. La competizione per l’egemonia mondiale non sarà messa in soffitta dalla pandemia, semmai diventerà più determinata, con gli Stati Uniti più fiacca e una Cina più agguerrita, con una Europa che continua inspiegabilmente a giocare in difesa, chiusa nella sua mentalità eurocentrica, ma priva di una visione di insieme e senza un progetto per giocare un ruolo più centrale nel mondo che cambia.

Dopo la Prima guerra mondiale, l’influenza spagnola, le radicali lotte sociali, una terribile pandemia che infetta quasi mezzo miliardo di persone con circa cinquanta/cento milioni di morti, ne seguì una intensa ed euforica ricerca del piacere e del godere la vita. Gli anni ruggenti, del Jazz, della Riviera francese, da super modelle in topless e champagne e della Berlino Babilonia, dominata da un’atmosfera soffusa e lussuosa, divisa tra la ricchezza dell’arte e il disagio della fame e della disoccupazione, furono una meteora. Seguirono lotte e conflitti, radicali lotte sociali che sfociarono nel fascismo e nel comunismo, fino a un successivo conflitto mondiale.  Dopo la Seconda guerra mondiale, pur in una situazione che non lasciava spazio all’ottimismo, nascono nuove leadership e si ricostruisce un’ampia cooperazione fino all’integrazione economica, superando le barriere doganali, armonizzando le politiche agricole, favorendo iniziative destinate al reinserimento produttivo dei lavoratori. Nascono organizzazioni, istituti e fondazioni, che hanno reso globale la pratica dei trattati per il disarmo e per la cooperazione l’economica, l’integrazione di regole comuni che hanno consentito una vita più sicura e hanno reso possibile in Europa circa 70 anni di sostanziale pace.  Già nel 1951, con il trattato sulla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, s’istituì la prima istituzione europea cui partecipavano i Paesi che fino a pochi mesi prima si massacravano a vicenda.  Anche il progresso tecnologico cresce e si sviluppa grazie alla collaborazione fra scienziati e ricercatori di ogni Paese. E’ a questa collaborazione che nasce l’ Organizzazione europea per la ricerca nucleare, meglio nota come il Cern di Ginevra, la cui costruzione viene decisa da una convenzione europea nel 1952 da dodici Paesi europei e nel 1954 spicca il volo. Prima  del virus la globalizzazione, che non era certo figlia di nessuno ma della egemonia economica, politica e militare statunitense, oscillava tra scontri commerciali e tecnologici e ostilità tra le due potenze di primo piano Stati Uniti e Cina, facendo così proliferare i sovranisti  à la page in Europa

Nulla cambierà, ma tutto sarà diverso

Ora tutti diciamo che nulla sarà come prima, che non torneremo più nella passata normalità, che quando sarà finito ci ricorderemo di aver visto il male, quello che lascia segni indelebili, che scarnifica e che modifica tutto. Racconteremo ai nostri figli di aver vissuto contando i minuti e le ore, di aver espresso solidarietà alle migliaia di vittime, di aver provato indicibile tristezza per le sofferenze dei mali subiti, ricorderemo lo strazio dei parenti che non hanno potuto tenere la mano, né baciarli sulla fronte e accarezzarli durante l’agonia per non farli sentire soli e di accompagnandoli  verso il loro estremo cammino. Racconteremo di aver convissuto con un avversario subdolo, con lo spirito della serpe, invisibile e sempre in agguato. Quando tutto sarà finito tutto ci sembrerà più nitido, capiremo quanto egoismo e miopia regna tra gli esseri umani e tra chi ha in mano i nostri destini in Europa. Scopriremo di quale pasta siamo fatti, che il primo sentimento iniziale è stato l’indifferenza, che forse ci siamo fossilizzati nel privato, nelle piccole dimensioni, sottovalutando le emergenze a lungo termine.  Ma cambieremo davvero?  Nulla cambierà, ma tutto sarà diverso. L’insegnamento del passato è che nel periodo successivo di catastrofi, guerre comprese, la civiltà ha sempre registrato cambiamenti. Ciò vuol dire che il mondo è cambiato moltissime volte, e cambierà ancora e tutti noi ci dovremo adattarci di vivere con nuove relazioni, ma spesso si ricomincia daccapo dal punto nel quale ci si era lasciati. Alcune cose piano piano non torneranno più, altre si adegueranno alla nuova situazione e altri ancora si misureranno con cose inedite. E come tutti i cambiamenti, che lasciano un solco profondo nella vita, ci sarà chi perderà di più degli altri, e altri che guadagneranno terreno. Non sarà certo la pandemia a porre rimedio alle ingiustizie sociali, alla stortura della redistribuzione dei beni, alla povertà, alle ingiustizie e al superamento dell’homo homini lupus di Hobbes, della legge del più forte e delle dinamiche sociali che nascono all’interno di un’emergenza. L’uomo per sua natura, in una società animata da spirito di competizione, di norma attende una scusa per ostentare i suoi istinti peggiori: non li crea la pandemia, ma fanno parte del suo essere. Dire che molte cose, in questa fase della nostra esistenza siano cambiate e altre riconfermate, è affermare il principio lapalissiano : ovvio e scontato. E’ sicuramente cambiano il quotidiano del nostro normale fluire con l’obbligo di non uscire da casa e con la chiusura delle scuole, uffici e aziende non ritenuti utili alla produzione di prodotti indispensabili, con campionato di calcio senza pubblico, col divieto di lasciare la regione di residenza.  Molte cose erano fatte e consumate con nonchalance, con disinvoltura e noncuranza, senza attribuirgli un valore particolare. La normalità per come la conoscevamo è scomparsa: una cena fuori, un aperitivo con gli amici, un weekend in Spa o a sciare, fare la colazione al bar prima di andare in ufficio, buttare le immondizie senza aver bisogno di una giustificazione, andare al teatro o visitare una mostra.  C’erano fino a ieri, nel tempo della presunta cordialità social, i selfie, la voglia di condividere uno scatto. Perfino papa Francesco non disdegnava, con un sorriso di posa e col segno di vittoria con le dite, a concedere un selfie. In questo caso il Covid-19 ha fatto cadere il sipario verso questa smaniosa e contagiosa eccitazione collettiva. Eravamo abituati a vivere tra scadenze e ricorrenze e oggi, invece, dobbiamo destreggiarsi per andare a correre. La nostra agenda non registra più impegni, scadenze, tornei, ma solo qualche invocazione: “Perché non sappiamo quando tutto finisce?  Dateci una speranza per rendere più accettabile un ulteriore sacrificio, per dare un senso alle rinunce, per continuare ad illuderci e di programmare il nostro futuro”. Abbiamo modificato il senso delle cose, le priorità e anche le parole che, secondo Massimo Gramellini, hanno subito una “mutazione genetica”.  Ieri il “furbetto” era colui che timbrava il cartellino e poi andava a fare tutto tranne che lavorare nel suo ufficio, adesso il “furbetto” è colui che aggira le regole per uscire di casa, facendo male agli altri senza aver nessun vantaggio per sé. Se mezzo secolo fa erano quelli del Nord a dire non vogliamo quelli del Sud, ora sono quelli del Sud a dire non vogliamo quelli del Nord e “Non si affitta ai settentrionali”.  Non c’è più bisogno, almeno per il momento, delle domeniche ecologiche con il blocco della circolazione delle auto per la prevenzione ed il contenimento dell’inquinamento atmosferico. L’acqua dei canali di Venezia è più pulita e il cielo della Pianura Padana è tornato respirabile. Assieme al contenimento dell’inquinamento, al ripopolamento dei mari a causa del fermo della pesca, sono crollati secondo fonti del Viminale i reati, a partire dagli omicidi, i furti e le rapine e anche gli sbarchi dei migranti perdono la prima pagina e le Ong riducono la loro attività.  Aumentano i crimini informatici come l’adescamento dei minori on line, i falsi siti per la raccolta di fondi a favore del coronavirus, i siti per la vendita di mascherine e prodotti igienizzanti.  Tra gli effetti collaterali del coronavirus, soprattutto in Cina, c’è che molte coppie, a causa di una convivenza forzata in casa, che genera un forte stress, hanno avanzato richiesta di divorzio. Che dire del lavoro con la corsa allo smartworking che ha avviato una nuova modalità di lavoro, che vuol dire cambiare mentalità, riorganizzazione del lavoro, adeguamento delle competenze dei lavoratori e rafforzamento e miglioramento delle reti di internet e della sovranità digitale. Da quando il coronavirus ha colpito più o meno tutto il globo l’incremento dello scambio di messaggi è stato del 50%, mentre quelle delle videochiamate WhatsApp e Messenger, secondo i due vicepresidenti Alex Schultz e Jay Parikh di Facebook, di più mille solo in Italia. Il Chief Technology di Tim, Michele Gamberini, ci informa che l’incremento del traffico sulla rete fissa è del 100%, un vero e proprio raddoppio rispetto alla pre-crisi.  L’aumento della fruizione di video e di gaming registra un più 30%. I 5 milioni d’italiani in telelavoro con le videoconferenze e lo streaming, i ragazzi orfani della scuola, i siti web della pubblica amministrazione, poca avvezza all’utilizzo delle nuove tecnologie e il cortocircuito del sito Inps ne è una testimonianza, i giornali, le famiglie rinchiuse dentro casa creano inediti problemi con cui misurarsi. Le reti mobili, i server, internet risultano sovraccarichi, con rallentamenti e con minor qualità dei servizi, con gravi intoppi e intralci. Un rimescolamento della vita che sta facendo una prova generale anche sulla teoria,  nebulosa ma con molti adepti, teoria dell’economista e filosofo Serge Latouche di decrescita “felice”, “serena” e “consapevole”. Una teoria che ruota intorno all’idea che, per evitare il collasso del Pianeta, dobbiamo liberarci dai miti del progresso, della scienza e della tecnica per vivere con una certa frugalità nei consumi, dell’autoproduzione e dell’autoconsumo.  Questa condizione anziché una scelta consapevole e deliberata è la conseguenza di un agente virale. Si tratta effettivamente di una decrescita, ma involontaria, subita, imposta e pertanto vissuta negativamente, con un netto rifiuto.  Non vi è alcun dubbio che quella che si va delineando si configura come una vera è propria battuta d’arresto delle economie su scala mondiale. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economica (Ocse) non usa mezzi termini il suo recente (2020) Interin Economico Outlook. Gli effetti del Covid-19 potrebbero provocare sull’economia globale, la cui crescita era già esposta ai rischi delle guerre commerciali e delle tensioni geopolitiche del 2019, a subire un duro colpo. Il contenimento del movimento delle persone, merci e servizi, sta causando una caduta verticale nella fiducia delle imprese e dei consumatori: ciò provocherà secondo l’Ocse un primo taglio prudenziale della crescita mondiale del circa 3%. Il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Italia scenderà dallo 0,2 % dello scorso anno allo O% nel 2020. La crescita economica nell’Eurozona, sempre secondo le stime dell’Ocse, rimarrà al più -8% nel 2020, a fronte del più 1,2% del 2019. Prima ancora che sull’economia gli impatti negativi immediati dell’epidemia si avranno sulle borse e finanza: i rendimenti sui Titoli del tesoro, solo per fare un esempio, Usa crollano del 17% e le borse cinesi bruciano nella sola giornata del 3 febbraio 2020 420 miliardi di dollari.

Non siamo in guerra

Considerato il susseguirsi incalzante di epidemie, guerre ed emergenze varie che si sono registrati in quest’ultimo secolo, oggi dovremmo essere sicuramente migliori, più saggi e più solidali.  Generalmente accade che dopo eventi straordinari con il loro superamento l’uomo tende a esorcizzare il suo triste vissuto rimettendo le priorità secondo convenienza , dimenticando i buoni propositi nati dalla paura. Le verità scomode lasceranno posto e spazio a scelte accomodanti e perfino la lista compilata, in quei giorni bui, di quelle cose che “non vorrei dimenticare” lascerà il posto a nuove avventure. Sono convinto che passata la tempesta tutto riprenderà come prima. E’ come quando vediamo un incidente stradale, prima rallentiamo e guidiamo con prudenza poi, dopo qualche minuto, riprendiamo a guidare pigiando sull’acceleratore . O come fanno gli uccelli. Dopo il colpo di fucile dei cacciatori, riprendono fiato e piano piano ripigliano a volare con il loro consueto fluire. Cominciamo a ricordare, a supporto delle mie considerazioni,  che l’influenza del Covid-19 è stata preceduta da altre pandemie come l’influenza asiatica del 1956 che durò due anni e fece un milione di vittime nel mondo, l’Aids, un virus delle immunodeficienze umane riportata per la prima volta in letteratura nel 1981, la Sars, una forma atipica di polmonite apparsa nel novembre 2002, la prima epidemia da corona virus del ventunesimo secolo con oltre ottomila vittime nel mondo, l’epidemia Ebola del 2019 con tremila casi e duemila morti, che provocarono più o meno ovunque la crisi della domanda e della offerta, della produzione e del consumo. E anche allora si disse con toni e accenti diversi che il mondo non sarà più lo stesso. Veri periodi di choc che la gracile memoria e l’incapacità di riannodare i fili con la storia non hanno impedito il taglio alla sanità. Secondo il rapporto della Fondazione Gimbe, che promuove la formazione e la ricerca sanitaria, “ Nel decennio 2010-2019 il finanziamento pubblico del Ssn è aumentato di 8,8 miliardi di euro, crescendo in media dell’0,9% all’anno, un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07”. Ciò vuol dire che  è cresciuto in termini assoluti, ma meno dell’inflazione. Non solo si registra un taglio reale, ma sempre secondo la Fondazione Gimbe , ci sarebbero altri “ 37 miliardi di euro totali di finanziamenti promessi negli anni dai governi e non realizzati o ridotti: circa 25 miliardi nel 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel 2015-2919”. Tutti i Governi dell’ ultimo decennio, da Berlusconi  IV , Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conti, hanno contribuito a render più malaticcio il nostro Ssn. Ma anche a far dire all’Ocse che  l’Italia si attesta sotto la media, sia per la spesa sanitaria totale sia per quella pubblica, precedendo solo i paesi dell’Europa orientale oltre a Spagna, Portogallo e Grecia.

E’ assai difficile sottoscrivere l’abusata immagine retorica, evocata dalla stragrande maggioranza dei commentatori e dai politici, “Siamo in guerra”. Non abbiamo dichiarato guerra a nessuno, tranne che alla pandemia Covid-19, anche perché l’articolo 11 dei Principi Fondamentali della nostra Costituzione:  “ l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.   In un quadro di scadimento qualitativo della dialettica politica, e dei suoi riverberi logiche e linguistiche,  il concetto di guerra e dei suoi corollari ( battaglia, fronte e trincea) prende piede e contamina tutti come il virus che non conosce confini razza e nazionalità. Gli appelli a smorzare i toni e a perseguire l’unità di intenti  hanno avuto vita corta quanto la farfalla in Costa Rica, che svolazza per un sol giorno pensando che sia l’eternità,  e nel fervore della contesa politica entra nel lessico politico delle forze di opposizione ( e non solo) l’immagine della guerra.  Il leader della Lega Matteo Salvini, abbandona il meno redditizio e attraente tema dell’immigrazione, è sposta la sua attenzione a favore dell’emergenza virus. Commentando i decessi dei morti in Lombardia,  ne Il Corriere della Sera del 12 marzo 2020, tuona che “ non è un bollettino di pace ma un bollettino di guerra. E  in guerra si adottano le misure di guerra”. Il lessico colorito diventa virale e viene ripreso un po’ da tutti. Il presidente leghista della regione Veneto Luca Zaia, ne il Fatto Quotidiano del 13 marzo 2020, conferma: “Siamo in guerra”. L’immagine  piace anche a Giuseppe Preziosa, presidente di Siara, azienda che produce macchine respiratorie e ventilatori polmonari,  che all’Ansa di Bologna del 12 marzo 2020, dichiara: “l’assetto è da guerra”. La metafora viene usata dal professore Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute,  da Emmanuel  Macron e perfino da Mario Draghi. La ripetono i giornalisti, gli esperti di comunicazione, gli intellettuali, medici e nei proliferi talk show diventa un mantra.  Non è così, non siamo in guerra, siamo nel mezzo di una vera e propria emergenza sanitaria ed economico-sociale.  Le macerie da ricostituire saranno di altra natura, non dovremo ricostruire le case distrutte e accogliere soldati mal equipaggiati nel deserto africano o come nell’inverno russo. Non avremo il problema di vendette partigiane, dei crimini privati e i delitti ideologici e dei regolamenti di conti da condannare ma difficili da evitare.  Una fastidiosa scorciatoia lessicale, un ricorso alla facile retorica che elude e altera quanto sta accadendo. Ogni parola porta con sé i suoi demoni: la guerra richiama alla memoria autoritarismo, sospensione dei diritti, violenza e fame.  Lugubri fantasmi che più che mai sarebbe meglio lasciar in pace. Per ragioni anagrafiche non l’ho conosciuta la guerra, ma a sentire chi la ha fatta e dalle letture, il paragone non regge, la similitudine è fuori luogo. Durante la guerra le persone morivano spesso anche senza avvedersene, il territorio veniva distrutto dai bombardamenti, il coprifuoco con i ragazzini chiusi in casa senza area condizionata e internet. Nessuno poteva uscire e se lo faceva non rischiava una multa, ma la morte. Non andavi al mercato per fare la spesa perché c’era solo il razionamento dei generi alimentari, le tessere annonarie e i negozi con gli scaffali vuoti o quasi. Non si mangiava e per motivi di sicurezza si viveva da sfollati. Sul Web del 12 marzo2020 , a mo’ di aforismo, leggiamo: “I nostri nonni sono stati obbligati a partire per la guerra, a noi chiedono di stare seduti sul sofà”. Una sintesi che, per la sua vitalità e significatività,  supplisce a mille analisi.

Dopo lo tsunami di questa drammatica emergenza sanitaria ed economica, e sconfitto il coronavirus, ci saranno scelte difficili da fare.  Non formuleremo nessuna ipotesi, ce ne sono tante, troppe, e raramente confluenti o utili per fare una sintesi ragionata. Nessuno, a oggi, sa quali saranno le priorità dell’agenda del “dopo”.  A noi non rimane che avanzare qualche auspicio.  Il “dopo” immaginiamo che richiederà un cambiamento di qualità non indifferente, una competenza e una preparazione che rimetteranno in gioco l’attuale classe dirigente, partiti, scienziati, burocrazia e senso civico. 

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