di Milena Milazzo

Il silenzio e il respiro

Racconta lo scrittore ed esploratore norvegese Erling Kagge nel suo libro “Il silenzio. Uno spazio dell’anima” che durante un viaggio in barca a vela lungo le coste del Cile, una mattina all’alba, udì qualcosa che sembrava un respiro lento, profondo. Si girò e vide il dorso di una balena che nuotava di fianco allo scafo, mentre dalla sua schiena usciva un profondo soffio. Il cetaceo inspirò ed espirò adagio, poi scomparve nel mare. “Il mondo non fu più lo stesso dopo quell’incontro”, scrive; e così conclude: “quella forza primordiale continua a nutrire il mio animo.”

Due erano state le condizioni che avevano caratterizzato quell’esperienza: il silenzio e il respiro. Quell’associazione di cui parla la pensatrice francese Luce Irigaray quando afferma che respirare nella solitudine e nel silenzio ci insegna a confrontarci con gravi pericoli e crisi e al tempo stesso ad avere cura della vita nelle situazioni limite. Ma nell’approfondire il valore del silenzio si spinge ancora più in là: afferma che coltivare nel silenzio il proprio respiro porta al risveglio, conduce a una conoscenza del divino in se stessi, e come supremo esempio si richiama alla figura di Maria di Nazareth. Nel saggio “Il mistero di Maria” scrive: “Il silenzio di Maria non impone nulla, è un silenzio che è tornare a dimorare tranquillamente in sé per restaurarvi o preservarvi una pienezza da cui potrà germogliare e nascere un futuro non ancora accaduto”. Viene spontaneo qui ricordare il passo del Vangelo di Luca che racconta del ritrovamento del fanciullo Gesù nel Tempio e di ciò che dice alla madre che gli rimprovera il suo allontanarsi: “Perché mi cercate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?” E sua madre, pur non comprendendo, “ custodiva tutte queste cose nel suo cuore.”

Massimo Cacciari nel suo sapiente volumetto “Generare Dio” mette anch’egli l’accento sul raccoglimento di Maria, che definisce “ meditazione che raccoglie in sé il figlio e lo indica come la Via”. Come le donne citate da Matteo nella genealogia che apre il suo Vangelo, come Tamar, Rab, Rut e Betsabea, Maria obbedisce a una Voce che è impossibile respingere. La fede però non cancella mai dai suoi tratti il dubbio e l’angoscia che da esso deriva. Tra i pittori che meglio lo hanno rappresentato nel suo volto Cacciari cita per primo Simone Martini nell’Annunciazione degli Uffizi, dove la Vergine “osserva, medita e dubita”, e non ascolta soltanto, ma vuole intendere ciò che ode, “raccogliendolo nel suo cuore”. E’ per questo intreccio di sentimenti che secondo il filosofo le icone del generare si accompagnano a quelle della sofferenza. E la sofferenza implica il silenzio. Forse in nessuna effigie questo intreccio è stato più chiaramente rappresentato come nella famosa icona della Vergine del Silenzio, che si porta dietro una lunga storia devozionale. Ispirata a un affresco copto dell’VIII secolo, recentemente riscritta dalle monache benedettine di San Giulio d’Orta, qui la Vergine porta l’indice della mano sinistra alle labbra con un gesto che invita al silenzio, mentre la mano destra sollevata verso l’alto si legge come esortazione alla preghiera.

E’ nel silenzio del deserto che il Figlio renderà conto al Padre, e nella Bibbia Dio è in una brezza leggera che, scrive ancora Kagge, nella sua versione norvegese è stata interpretata come “silenzio sottile”. Nella filosofia induista così come in quella greca la conoscenza dell’eternità e quindi della verità non può esprimersi a parole: per Platone è arrheton, l’inesprimibile, per Aristotele aneu logon, privo di linguaggio. Nel buddismo zen, l’esercizio del Koan consiste nello stare seduti senza dir nulla e muoversi con la mente al di fuori del pensiero logico e realistico. Al poeta e mistico persiano Rumi è attribuita questa frase: “Adesso rimarrò in silenzio e lascerò che esso separi la verità dalla menzogna”. E d’altronde i due grandi pilastri del pensiero indicati dal filosofo Immanuel Kant non sono forse lo scrutare il cielo stellato e ascoltare la legge morale interna a noi stessi? Nel suo ultimo scritto il neurologo Oliver Sacks racconta che, già molto malato, si era dedicato alla contemplazione del cielo stellato e del silenzio interiore ed era riuscito a leggere dentro di sé. La sua percezione della bellezza dell’eternità era mescolata con il senso della transitorietà e della morte.”Questo splendore celeste- scrive- mi ha fatto improvvisamente capire quanto poco tempo, quanta poca vita mi sono rimasti.”

 

Il silenzio e la cella

In questo secolo più che mai il silenzio è sotto attacco, viviamo nel tempo del rumore. E che il nostro cervello si trovi in una situazione di caos lo si capisce quando usciamo dalla solita routine oppure la sera, quando giunge il momento di andare a dormire. E’ allora che il caos si manifesta, ci sentiamo irrequieti e a disagio. Lo aveva capito già nel ‘600 Blaise Pascal che nei suoi “Pensieri” scrive: “ La disgrazia degli uomini proviene dal non saper essi starsene tranquilli in una camera.”

Eppure c’è chi vive anche oggi in una condizione di silenzio e lo fa per scelta. Sono i monaci, uomini e donne.

Rainer Maria Rilke ha dedicato al Béguinage Sainte-Elisabeth di Bruges una bellissima poesia nella quale il silenzio e la solitudine del monastero si intrecciano al canto delle monache, in un silenzio del cuore che è preghiera e ascolto dell’infinito. Ne citiamo una strofa:

“Là stanno inginocchiate, avvolte in puri lini,

uguali, come se una sola immagine

si ripetesse nel corale in mille

profondi, chiari specchi, scanditi dai pilastri

e le voci s’innalzano nel canto

sempre più ripide e là si gettano,

dalla vetta dell’ultima parola,

agli angeli che non le restituiscono.

Perciò, quando si levano e si voltano, in basso,

non parlano. Si porgono in silenzio,

con un inchino e un segno cui le altre

rispondono con segni, l’acqua santa

che fa le fronti fresche e pallide le bocche.

Poi, velate e raccolte, riattraversano

la striscia, dirigendosi

- le giovani tranquille, malsicure le anziane,

e una vegliarda che s’indugia dietro-

alle case che subito nel silenzio le avvolgono,

e che attraverso gli olmi si rivelano mostrano di tanto

in tanto un po’ di pura solitudine

che da una piccola lastra traluce.”

In ottemperanza al motto benedettino “ora, lege et labora”, i monaci trascorrono la maggior parte delle ore e dei giorni abitando una cella, e anche nei momenti di condivisione godono della sobria consolazione di stare gli uni accanto agli altri sebbene il più possibile in silenzio.



Cella di San Francesco

“Un silenzio che non è vuoto,” ha spiegato in una recente intervista Enzo Bianchi, saggista e monaco laico fondatore della Comunità monastica di Bose, “ma permette l’ascolto, l’esercizio del pensare, la lettura, la preghiera.” Del silenzio tuttavia il monaco sente anche la fatica, e la sua cella può diventare la cella del carcerato, dove “si combatte una lotta corpo a corpo con abissi di disperazione abitati dai cattivi pensieri, dalle pulsioni animalesche, dall’accidia e dal disgusto per la vita interiore.” Questa difficoltà a sentirsi appagati da una scelta tanto radicale ha origine dal fatto che la solitudine non appartiene alla vocazione umana. Alla domanda del giornalista di come la sua comunità viva l’esperienza drammatica della pandemia, risponde che se da un lato la pratica del silenzio aiuta lui e i suoi confratelli a sopportare e gestire le severe restrizioni nonostante la paura che la pandemia genera e a sentirsi più prossimi che mai a coloro che sono costretti a vivere quasi segregati in un alloggio spesso con poco spazio, ammette però che la preghiera non basta a sé stessa se non la si usa come strumento per accrescere la carità, quel servizio dell’altro su cui il Papa pone assiduamente l’accento. Se manca l’elemento essenziale della vita cenobitica, l’incontro con l’ospite, il viandante, colui che è in ricerca, che per il religioso è come incontrare lo stesso Cristo, egli si sente inutile, e pur potendosi impegnare in forme di aiuto economico, e con i mezzi di comunicazione possibili può tenere vive le relazioni umane e raggiungere le persone sole, fragili o disabili, che vivono questi giorni con fatica e angoscia, “quanto ci sentiamo impotenti, dice, e citando le parole pronunciate da Papa Francesco in una Piazza S. Pietro deserta, “tutti sulla stessa barca!”.

 

Il silenzio nella letteratura e nell’arte

Lo psichiatra Eugenio Borgna nel saggio “Il tempo e la vita” scrive che solo il silenzio interiore ci consente di ascoltare l’altro e di entrare in comunicazione con lui, non solo in psichiatria ma nella vita di ogni giorno, quando siamo “circondati da uno sciame di attese”, quelle delle persone che ci chiedono l’aiuto di uno sguardo, di un gesto, di una semplice stretta di mano. E cita Giovanni Pozzi, il religioso svizzero-italiano che è stato anche critico letterario e accademico. Il suo libro “Tacet” pubblicato da Adelphi nel 2013, ha in copertina un ritratto di Baccio della Porta che ritrae San Domenico nel gesto di coprirsi le labbra con l’indice, così come viene rappresentata Maria nell’icona della Vergine del Silenzio. “Per ascoltare, scrive Pozzi in un passo riportato da Borgna, occorre tacere…Nulla come l’ascolto ci può far capire la correlazione tra il silenzio e la parola.” Accogliere il silenzio non è facile in un’epoca contrassegnata dall’intolleranza alla meditazione e alla contemplazione. Ma già nell’800 in una delle sue folgoranti poesie Emily Dickinson scriveva: “Il silenzio è tutto ciò che temiamo/ c’è riscatto nella voce/ ma il silenzio rappresenta l’infinito./ Lui stesso non ha volto”. Dunque si ha paura del silenzio, o lo si vive come una perdita di tempo.

Ma le cose cambiano. Oggi che siamo circondati da un silenzio abnorme e ci troviamo immersi nell’angoscia e nella paura si avverte un desiderio di vivere questo tempo non come un compito ma come crescita morale.

“La cella e il libro, ha scritto Pozzi nel testo citato, sono le stanze della solitudine e del silenzio. La cella non è casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocata al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme. E nella cella il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro risponde solo se richiesto. Colmo di parole, tace.”

E’ un pensiero che in qualche modo si collega a ciò che Paolo Rumiz ha affermato in una recente intervista dove racconta con una metafora potente come vive il silenzio nei suoi viaggi in solitaria: “Stando in silenzio, ha detto, si sente il fragore dell’anima”, aggiungendo che ciò gli permette di riempire interi taccuini mentre viaggia, che utilizza poi nel diario a puntate pubblicato da Repubblica. In questi giorni di aprile, costretto a limitare il suo itinerario alle pareti di casa, in solitudine e nel silenzio, parla della sua riscoperta della poesia. Il 17 aprile annota: “Il verso è terapeutico, come l’amore. Aiuta a resistere. Se così non fosse, i tiranni non perseguiterebbero i poeti. La bellezza è l’antivirus più efficace.” E argutamente, com’è nel suo stile, consiglia la lettura di una poesia ogni sera come ansiolitico migliore di un Valium, “un’aspirina e dieci endecasillabi ogni sera.”, e ricorrendo a una metafora legata al viaggio afferma che la metrica ha una sua potenza pari a un’escursione in montagna o a una camminata nel deserto. “Ti insegna ad armonizzare il passo con le sillabe, le pulsazioni del cuore e il respiro.”

Di questo connubio ci ha dato un esempio felice il poeta romantico inglese William Wordsworth, che ha tratto versi immortali da una passeggiata solitaria lungo le rive di un lago illuminate dall’inaspettato fulgore di una distesa di giunchiglie dondolanti alla brezza primaverile: “I wandered lonely as a cloud”, vagavo solo come una nuvola, esordisce, e la vista dei fiori gli rimane nello sguardo dell’anima continuando a lungo a riempirlo di piacere. E pensiamo ai leopardiani “interminati spazi e sovrumani silenzi” che la siepe gli nasconde allo sguardo ma non agli occhi dell’immaginazione.

Nel nostro tempo nessuno forse come la poetessa Mariangela Gualtieri ha saputo esprimere la consapevolezza che risveglia in noi l’immobilità del silenzio in una splendida poesia di portata quasi cosmica, “Nove marzo 2020”:

“Questo ti voglio dire

ci dovevamo fermare.

Lo sapevamo

lo sentivamo tutti

ch’era troppo furioso

il nostro fare.

Ci dovevamo fermare

e non ci riuscivamo.

Adesso siamo a casa

e c’è dell’oro, credo, in questo tempo

strano.

Forse ci sono doni.

Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

C’è un molto forte richiamo

della specie ora e come specie adesso

deve pensarci ognuno. Un comune destino

ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo

bene.

O tutti quanti o nessuno.

E’ potente la terra. Viva per davvero.

E la sento pensante d’un pensiero

che noi non conosciamo.

Se la materia oscura fosse questo

tenersi insieme di tutto in un ardore

di vita, con la spazzina morte che viene

e equilibra ogni specie.

Tenerci dentro la misura sua, al posto suo,

guidata. Non siamo noi

che abbiamo fatto il cielo.

Adesso sappiamo quanto è triste

stare lontani un metro.”

Fermarsi, dunque, è il messaggio, dimorare, restare nella quiete, e come detta Enzo Bianchi, è importante anche “fare niente”, che non è un vizio, né si nutre di accidia, ma è piuttosto l’otium degli antichi, la scholé dei greci, cantato da Virgilio nelle Bucoliche come “il dono di un dio” e in modi diversi da Catullo, Orazio, Lucrezio, investigato dagli antichi filosofi e politici, da Catone a Cicerone, da Seneca nel suo trattato “De otio”, ad Agostino fino a Bertrand Russell, che nel suo saggio “Elogio dell’ozio” contrappone alla moltitudine dei salariati senza tempo libero gli “oziosi”, in grado di creare nuovi orizzonti per la scienza, la letteratura e la cultura in generale. E’ in fondo la modalità adottata dalla tradizione spirituale monastica, diversa da quella suggerita oggi dai media su come attivarsi per sfuggire all’inazione e occupare il tempo libero nello spazio in cui si è costretti.

Il suo fulcro è il silenzio interiore, che si raggiunge non senza sforzo. Se dapprima infatti la nostra mente si ribella, abituata com’è a lasciarsi attraversare da mille pensieri, se si persiste nel silenzio e nella quiete dell’habitare secum, poco a poco l’ansia si spegne, avvertiamo nuove voci che emergono dal profondo, diventiamo contemplativi, impariamo a guardare persone e cose con altri occhi e alla fine ad assumere ogni impegno con rinnovata responsabilità.

Tra le forme che il silenzio assume non possiamo ignorare quello della musica, dove l’assenza dei suoni è normale ed è, come lo definisce Erling Kagge, “la cesura, la pausa tra le note, il silenzio tra i suoni prodotti dagli strumenti”, che se ascoltati con attenzione generano un’intensa attività cerebrale. Gustavo Zagrebelsky, accademico e giurista grande appassionato di musica, ebbe a dire in un suo intervento tenuto all’università di Bologna, che “la musica è solo il suono del silenzio tra una nota e l’altra”, e che “senza silenzio non c’è musica”.



John William Waterhouse, Dolce far niente

Il silenzio è infine presente nella pittura come fonte di ispirazione per uno stuolo di artisti, che sarebbe troppo lungo citare in questa sede. Ricorderò solo un quadro molto suggestivo pur nel suo manierismo, “Dolce far niente”, del pittore preraffaellita John William Waterhouse, dove la giovane donna sdraiata contro soffici cuscini suggerisce un abbandonarsi al silenzio e all’immobilità reso non solo dalla pensosità senza drammi del viso ma dai dettagli che la circondano: il ventaglio di piume di pavone trattenuto negligentemente dalla mano semiaperta che pare essere stato sventolato fino ad un attimo prima, e sul tavolino fiori recisi sparpagliati, lasciati lì ad aspettare di essere disposti nel vaso; tale è la sua immobilità che due uccellini se ne stanno tranquilli a becchettare ai suoi piedi. Tra i pittori contemporanei, nessuno come il pittore naturalista statunitense Edward Hopper ha saputo rendere tangibile nelle sue opere un senso inquietante di solitudine e di silenzio, che raggiunge il suo apice nel quadro “La capanna del silenzio.” E infine è da citare Marina Abramovic’, che ha fatto del silenzio una forma d’arte nella performance esposta al MoMa di New York nel 2010 dal titolo “The Artist Is Present”. Dal 14 marzo al 31 maggio l’artista è rimasta immobile per settecentotrentasei ore seduta ad un tavolo fissando negli occhi millecinquecentoquarantacinque visitatori che a turno le sedevano davanti senza che venisse detta una sola parola. Provando a spiegare il suo obiettivo, ha affermato di aver voluto raggiungere il vuoto completo, il “silenzio della mente”.

 

 

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