di Agostino Gennaro

Oggi, per chi volesse seguirmi, narrerò in brevi pagine la storia della natia terra partendo dall'età antica fino a questo momento della mia terrena vita.
Spilinga sorge sulla fiancata nord-ovest del Promontorio del Poro.
Il suo territorio partendo dall'apice del monte Poro occupa a nord-est una parte dell' immensa distesa del tavolato che si distende fino a Vibo Valentia, a nord ovest, dopo un salto collinoso di verde boscaglia, seguono delle balze su cui sorgono i centri abitati di Carciadi, Spilinga e Panaia, tra una rete di valloncelli, che si congiungono nella fiumara di Brattirò, la quale nel suo decorso inferiore prende nome di fiumara della Ruffa.

CONTESTO-GEOGRAFICO-ARCHEOLOGICO
1 – Il promontorio del Poro, una grande lingua di terra che si protende sul mare Tirreno e si eleva tra i due bacini idrografici dell’Angitola e del Mesima che lo separano dal rilievo delle Serre, e dall’intera catena dell’appennino calabrese raggiunge, alla sua vetta, i 700 metri. Si staglia all’orizzonte con estrema discrezione per via delle sue fattezze sommitali morfologicamente dolci e, poco appariscenti.
Giunti alla sommità ci si trova di fronte a una vasta pianura racchiusa in una figura geometrica ai cui vertici spiccano le cime di Monte Poro, Torre Galli, Crista di Zungri e il castello di Vibo Valentia e si espande su una superfice ondulata costituita da argille e conglomerati sabbiosi la cui altitudine oscilla tra i 400 e i 700 metri s.l.m. e prende il nome di altopiano del Poro.
Degrada progressivamente verso il mare, dal lato di Tropea, con una serie di ampi gradoni naturali a diversi piani ordinati e graduati e, dal lato di Nicotera, ripidi pendii granitici. Si differenzia dagli altri massicci calabresi per le rocce cristalline, prevalentemente granitiche lungo il litorale e tufacee all’interno, e per la natura del suolo: terreni molto leggeri, facilmente lavorabili ed eccezionalmente fertili, anche a causa delle polveri dei vicini vulcani trasportate dai forti venti, che con il clima mite, la varia vegetazione hanno favorito, sin dai tempi antichi, una massiccia presenza dell’uomo formando una densa comunità distribuita in numerosi piccoli centri.
La frequentazione dell’uomo sul promontorio del Poro, come dimostrano i numerosi ritrovamenti, risale alla preistoria più antica, al paleolitico , tenendo presente che, in un'età anteriore ai 12.000 anni fa il clima e la geografia erano molto diversi, cosi come totalmente differenti erano le basi dell’economia, fondata esclusivamente sulla caccia agli animali selvatici e sulla raccolta dei vegetali spontanei.
Terra di transito, di passaggio obbligato tra nord e sud, con pochi problemi nell’attraversamento delle parti più alte, pianeggianti, addirittura da preferire alle più impervie linee lungo la costa, per via della sua modesta altitudine e per le sue ampie spianate, l’altopiano era facilmente valicabile in ogni suo punto e, quindi, senza ostacoli alla circolazione di uomini e merci, pertanto cerniera tra costa ed interno. È opinione diffusa che la denominazione di Poro (cioè passo – valico) sia da attribuire ai coloni greci, che sin dall’età antica, lo attraversarono ripetutamente.
Detto promontorio viene da tutti considerato un sistema a sé stante ed originale sia per quanto attiene l’aspetto morfologico che quello idrografico, paesaggistico, climatico.
“La nascita del promontorio, dal punto di vista geologico, ci riporta attorno a 250 milioni di anni fa, quando, nelle parti più profonde dell’appena formato Supercontinente Pangea, a seguito di un lentissimo processo di raffreddamento e solidificazione, si formò quella che diverrà la più antica roccia e l’ossatura del Promontorio del Poro: il granito. Successivi discontinui e lentissimi movimenti di sollevamento porteranno il rilievo granitico del Poro a quote sempre più alte, le superfìci così emerse verranno man mano erose dagli agenti atmosferici e dalle acque di scorrimento con il conseguente deposito dei loro detriti (sabbie, argille e conglomerati sciolti) sui graniti ancora sommersi. Questi detriti, depositati sul fondo marino, a causa del costipamento degli strati man mano sovrapposti, si trasformeranno nelle tipiche Arenarie del luogo. Infine, nel Quaternario, un periodo geologico molto recente, circa un milione e 800 mila anni fa, il Promontorio del Poro assume le attuali sembianze” .
Negli ultimi millenni ha sempre dunque rappresentato un luogo ideale per l’insediamento umano. Sia per il territorio, che permette di praticare una agricoltura ed un allevamento molto redditizi e differenziati nei diversi settori geografici in base alle diverse caratteristiche dei suoli, sia per il microclima e la disponibilità d’acqua. Inoltre, il paesaggio offriva forme articolate e, in particolare, pianori difendibili su cui collocare sedi abitate strategiche nei periodi di maggiore tensione. Quindi la posizione geografica del promontorio, con insenature e facili approdi lungo la costa, era molto favorevole per l'inserimento sia nelle rotte di navigazione locali tra la Calabria, la Sicilia e le Eolie, sia in quelle a lunga distanza transitanti per lo stretto di Messina.
Queste considerazioni non valgono solo per la storia degli ultimi secoli, ma anche per tutte le civiltà del medioevo antico, della protostoria (età del bronzo e del ferro) e della preistoria (età del rame e neolitico). Dai risultati delle ricerche, Drapia e il promontorio del Poro, uno dei territori più ricchi in assoluto di ritrovamenti archeologici della preistoria, sono una dimostrazione di tale tesi.

LE RICERCHE ARCHEOLOGICHE DAL PALEOLITICO ALL’ETÀ NORMANNA
Questa nostra ricerca, anche se ricopre l’arco cronologico che va dal periodo pre-protostorico, per giungere sino a quello tardo antico e altomedievale, lungi dall’essere esaustiva e definitiva, si propone come umile strumento, al servizio degli amministratori e dei cittadini, nella speranza di rendersi utile alla salvaguardia dei siti visto i cambiamenti cui vengono sottoposti, in questi ultimi anni, la costa, la collina e l’altipiano.
Cercherò di descrivere i siti che sono stati oggetto di indagini oppure il risultato di recuperi occasionali, ricognizioni fortuite, raccolte impreviste di materiali, avvenute queste ultime soprattutto in seguito a lavori agricoli, a scavi o a semplici segnalazioni di appassionati. I Reperti raccolti e conservati che ricoprono l’arco cronologico che va dal periodo pre-protostorico, per giungere sino a quello tardo antico e altomedievale, non trascurando notizie riportate dalla tradizione locale e l’attivo operato nella ricerca da nuclei famigliari e da singole persone nostri conterranei. Iniziando dall’umile contadino che nel lavorare la terra raccoglie i cocci e li porta “o Gnuri”.
Solo, agli inizi del ‘900, quando l’Orsi, in seguito a segnalazioni di ritrovamenti di reperti, vide la discreta collezione privata di oggetti archeologici che vantavano il Capialbi e Pasquale Toraldo, intuendo l’esistenza di antichi insediamenti e necropoli in detti siti, programmò ed eseguì, con esito inaspettato, le campagne di ricerca.
La pubblicazione degli scavi, edita nel 1926, stupì il mondo scientifico per l’evoluto stato di organizzazione della società che emergeva dai dati desunti sia dai corredi funerari sia dalle stesse deposizioni.
Prima dell’inizio degli anni ’70 Francesco Pugliese, u Teologo, fonda, prima, un gruppo che opera come GAP e, poi, l’Associazione Paolo Orsi che, con attiva continuità nel corso degli anni, in stretto e costante raccordo con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, (soprattutto nelle persone dei funzionari di zona Claudio Sabbione, Maria Teresa Iannelli, i Soprintendenti Giuseppe Foti, Elena Lattanzi), contribuiranno in vario modo alle ricerche archeologiche.
Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 vennero recuperata una serie di reperti che vanno dalla Protostoria all’età Bizantina.
A questa inestimabile opera dell’Orsi molti importanti nomi dell’archeologia si precipitarono sul posto portando alla ribalta mondiale gli importanti risultati dei loro studi. A quelle dell’Orsi seguirono le ricerche del Kiliam, 1970, del Peroni, 1970-‘74-‘76-‘79-‘94, di Amoruso 1979, dello Holbl, 1979, dello Schauer, 1982, dal Carancini, 1984, della Varricchio 1985, e di Marco Pacciarelli 1985-’86-’87-’88-‘89 il cui risultato di scavi e scoperte è incommensurabile, tra l’altro ha eseguito, a partire dal 1982, una campagna di documentazione grafica di tutti i reperti.
Cercheremo di inquadrare la presenza dell’uomo sul promontorio del Poro, con brevi cenni storico-archeologici, nonché il contesto storico geografico, di necropoli e insediamenti, suddividendoli cronologicamente nei periodi sopra descritti.
Il promontorio del Poro, maggiore prominenza della costa tirrenica della Calabria, è stato oggetto di ricognizioni intensive condotte da Marco Pacciarelli insieme a Alfonso Lo Torto, Cosmo e Francesco Rombolà, Ferdinando Stampali, Maria Rita Varricchio. Tali ricerche hanno rivelato, soprattutto sulla vasta spianata sommitale dall’altopiano del Poro, un’eccezionale concentrazione di resti di insediamento d’età eneolitica. Ciò è dovuto al terreno che dal punto di vista agricolo presenta eccezionali caratteristiche di ritenzione idrica, fertilità e facile lavorabilità. Tali suoli sono presenti, oltre che sull’altopiano, anche su gran parte dei sottostanti terrazzamenti.
“Le ricerche di superfìcie condotte nella zona hanno permesso di identificare, per lo più proprio in corrispondenza degli andisuoli, decine di aree di affioramento di frammenti ceramici preistorici e protostorici, le cui caratteristiche permettono di riferirli in senso lato a insediamenti. Tale fitto quadro distributivo indica certamente in qualche misura una densità abitativa molto elevata, ma deve essere inteso anche come un palinsesto di occupazioni di varia intensità e natura, riferibili a momenti diversi di un lungo arco di tempo, che inizia con il tardo Neolitico e perdura fino al Bronzo Antico (con una ripresa nel Bronzo recente), ma ha proprio nell’Eneolitico le sue testimonianze più numerose ed evidenti. La prima fase di stanziamento sistematico sull’altopiano del Poro si colloca infatti nel corso della facies di Diana, cioè proprio a partire dal momento in cui sono state attestate in Italia con certezza le prime aratura” .
Le tre fasi dell’evoluzione umana nella preistoria prendono il nome di: Età della Pietra, Età del Bronzo, Età del Ferro.




Durante la facies Diana, scrive il Pacciarelli, sulla superfìcie dell’altopiano del Poro si osserva una estesa copertura di suoli evolutisi a partire da depositi vulcanici molto fini, provenienti dalle isole Eolie. Secondo la Soil Taxo- nomy rientrano nell’ordine degli andisuoli, che dal punto di vista agricolo presentano eccezionali caratteristiche di ritenzione idrica, fertilità e facile lavorabilità (AA.W. 2003). Tali suoli sono presenti, oltre che sull’altopiano, anche sul sottostante terrazzo di Caria.
Le ricerche di superfìcie condotte nella zona hanno permesso di identificare, per lo più proprio in corrispondenza degli andisuoli, decine di aree di affioramento di frammenti ceramici preistorici e protostorici, le cui caratteristiche permettono di riferirli in senso lato a insediamenti.
Tale fitto quadro distributivo indica certamente in qualche misura una densità abitativa molto elevata, ma deve essere inteso anche come un palinsesto di occupazioni di varia intensità e natura, riferibili a momenti diversi di un lungo arco di tempo, che inizia con il tardo Neolitico e perdura fino al Bronzo Antico (con una ripresa nel Bronzo recente), ma ha proprio nell’Eneolitico le sue testimonianze più numerose ed evidenti. Tali ricerche hanno permesso di formulare una sintesi della sequenza cronoculturale del periodo eneolitico, che il Pacciarelli ha suddiviso in cinque fasi, risultato, risultato attribuito dallo stesso, in massima parte allo scavo stratigrafìco di contrada Gallo di Briatico.
I due complessi di contrada Gallo di Briatico e Colarizzi di Spilinga offrono una base consistente di conoscenze approfondite su questa facies archeologica ed un patrimonio ceramico di forme ricorrenti e ben caratterizzate, al momento, solo nel promontorio del Poro. Anche a Caria di Drapia, nel 2011, nel corso di lavori per la rettifica della SS 17, sono venuti alla luce numerose sepolture facenti parte di una necropoli eneolitica (3000 a. C.), ad incinerazione, e inquadrabile nella facies di Gallo-Colarizzi. Gli archeologi rimarcano l’importanza della necropoli e della tipologia di sepoltura in quanto, pare, sia piuttosto rara in epoca così antica.

1-PRIMA FASE - MARGI A CURTI (Spilinga)
(3650-3500 a.C.).
I Margi a Curti scrive il Pacciarelli “è palesemente un sito plurifase comprendente materiali riferibili all’intero arco di tempo dal tardo Neolitico all’Eneolitico evoluto…Non può tuttavia essere casuale il fatto che in esso sia largamente documentato un ben preciso tipo, assente in tutti i contesti di riferimento delle altre fasi, ovvero la scodella troncoconica profonda decorata all’interno con larghe solcature verticali o leggermente oblique, in genere piuttosto superficiali (nonché a volte irregolari) e dai contorni poco definiti. Come si può vedere (fìg. 5) ne esistono varietà leggermente diverse. In alcuni pezzi il profilo è rettilineo, ma per lo più il labbro è leggermente ripiegato all’infuori. Le solcature, come si è detto in genere piuttosto larghe e superficiali nonché poco definite, possono essere verticali o leggermente oblique, e in un caso si sviluppano solo in corrispondenza del labbro, mentre negli altri si prolungano all’interno della vasca, ma probabilmente fino a una certa altezza come si rileva nel frammento a fìg.5, 1.
Trattandosi di un contesto di lunga durata, è diffìcile ragionare sulle associazioni con altri possibili tipi di questa fase, anche se è probabile che a questo stesso orizzonte possano essere ricondotti alcuni frammenti di forme chiuse ornate a larghe solcature (come quelli a fìg. 5, 2, 13)...

SECONDA FASE - FOCULIO, OLIVETO, PETTI SAN GIOVANNI (3500-3300 a.C.).
a-Foculìo
L’indicatore ceramico eneolitico più comune sull’altopiano del Poro è la scodella ornata sul labbro con sottili solcature oblique, tipo molto simile a quello, già attestato dai reperti della grotta della Madonna, e in altri contesti affini dell’Eneolitico anico, differenziandosi solo per le solcature (o talvolta leggere incisioni) molto sottili e fìtte. Questo tipo di scodella è presente in un gran numero di aree di affioramento, a testimonianza di un notevole sviluppo dell’insediamento in questa fase.
Ai fini di una più completa definizione del patrimonio tipologico ci si può basare al momento su un contesto di superfìcie di riferimento proveniente dalla località di Foculìo, in cui le scodelle si associano con altri tipi che formano un panorama coerente.
In base a vari frammenti da Foculìo e altri siti può essere identificata una forma chiusa piuttosto comune, ricostruibile come un vaso con spalla arrotondata e collo cilindrico piuttosto largo e basso, ornato con fasci di solcature sottili. Solo uno dei frammenti di collo reca invece un ornato a denti di lupo campiti da tratti orizzontali (fìg. 6, 2).
Tra le forme chiuse a Foculìo, oltre a una attestazione di olletta ovoide), vi sono vari frammenti di olle cilindroidi con cordone digitato applicato sull’orlo o subito al di sotto, e un frammento di grande contenitore con cordone multiforato, due fusaiole (una discoidale e una biconica) e una piccola ascia in pietra granitica accuratamente levigata.
Nel complesso è evidente che questo aspetto dell’altopiano del Poro si inserisce nella tradizione delle ceramiche a solcature, ma al contempo ne rappresenta un’ulteriore variante, soprattutto per la decorazione a solcature estremamente sottili, ma anche per l’alta frequenza di forme a collo cilindrico.
b- Petti di San Giovanni
Un altro contesto in cui questa fase è attestata in modo pressoché puro, anche se con presenza di sporadici pezzi del Bronzo recente, è quello di Petti San Giovanni, ove dai reperti reperiti le scodelle hanno in genere una forma troncoconica con sulla parete, in posizione più o meno prossima all’orlo, un’ansetta tubolare.
c-Oliveto
Un altro contesto in cui questa fase è attestata in modo pressoché puro, anche se con presenza di sporadici pezzi del Bronzo recente, alcuni pezzi significativi provengono anche dalla località di Oliveto.
In base a vari frammenti raccolti, come a Foculìo e altri siti, nel sito di Olivadi può essere identificata una forma chiusa piuttosto comune, ricostruibile come un vaso con spalla arrotondata e collo cilindrico piuttosto largo e basso, ornato con fasci di solcature sottili, ma anche per l’alta frequenza di forme a collo cilindrico...

TERZA FASE - COMPLESSO DI PASSO MURATO (3300-3050 a.C.)
Il sito archeologico di Passo Murato, conosciuto pure coi nomi di Passo di Arese e Passo da Zita, venne scoperto su segnalazione di Pasquale Lorenzo che durante una battuta di caccia ha notato sul posto alcuni di cocci ritenuti dallo stesso di fattura antica avvertì l’Associazione Paolo Orsi che iniziò immediatamente una indagine sul posto recuperando molti reperti di ceramica antica e tra l’altro, Cicco, il giorno 1.6.1997, recuperò un elmo calcidese(VI secolo a. C.), ex voto al dio della guerra Ares (supponendo dedicato ad Ares il tempio ivi ubicato), dal quale il nome di passo di Arese.
Una prima raccolta di reperti, effettuata sui cumuli di terra scaricati in seguito agli scavi per i canali di bonifica, della zona lacustre, effettuati dal Consorzio di Bonifica del Poro, portò all’individuazione di un importante insediamento dell’età del rame. In un secondo momento, funzionari della sovrintendenza, nelle persone di Claudio Sabbione e Carmelo Tomas, accompagnati sul posto da alcuni soci dell’associazione Paolo Orsi, fecero un sopralluogo e dalla conformità del terreno supponendo si trattasse di un insediamento abitativo in palafitte, autorizzarono le ricerche. Si procedette alla ripulitura e al rilievo della sezione lungo il canale durante gli scavi Marco Pacciarelli e l’equipe della Paolo Orsi poterono osservare la stratigrafia completa individuando così la provenienza dei reperti. Ciò portò ad accertare che essi provenivano da un ben preciso strato, che per le sue caratteristiche e per la presenza al di sopra di uno strato di torba, poteva essere relazionato con un ambiente lacustre.
La formazione stratigrafica presentava un primo strato di circa un metro di terra sterile, poi circa ottanta centimetri di torba organica seguita da uno strato di melma finissima, come quella che si trova nel fondo dei laghi, e proprio in quello strato di melma erano alloggiati i reperti trovati. Sotto la melma seguiva in alcuni punti uno strato di argilla sterile che andava dal verde al blu chiaro e in altri punti uno strato di sabbia giallastra nella quale erano ubicati parecchi strumenti litici in quarzo bianco, in quarzite bruna e in selce di vario colore e anche ossi fossili di grossi animali. In particolare vennero alla luce un grosso ascerò di buonissima fattura in quarzite. Si trovarono grattatoi, raschiatoi e lame di buona qualità. Nella torba furono trovati strumenti in ossidiana, bellissime punte di palo semicarbonizzate ed ossi di animali non fossili. I resti antichi in ceramica si trovavano a circa due metri di profondità e, in alcuni punti anche di più.


QUARTA FASE - GALLO DI BRIATICO COLARIZZI DI SPILINGA (3050-2800).
Lo scavo effettuato in località Gallo di Briatico da G. Grandinetti (direzione M.T. Iannelli) nel 1995 fornisce, insieme al consistente affioramento di Colarizzi, una base di conoscenze approfondite su questa facies archeologica.
a-GALLO
In questa facies archeologica le due categorie ceramiche più frequenti sono la scodella a calotta e l’olla di forma da globulare a ovoide, entrambe fornite di norma di anse a nastro a margini concavi. Tra le prime vi sono forme con vasca da piuttosto bassa a decisamente profonda, e dimensioni variabili. Per le seconde sono stati individuati due tipi, uno a corpo globulare, talvolta marcatamente compresso, con anse a margini concavi sulla massima espansione, e uno a corpo ovoide, con anse analoghe ma ubicate presso o poco al disotto dell’orlo.
Nelle forme finora citate la decorazione è di regola assente, ma a Gallo in due casi vi è una decorazione a file di punti: una singola su una scodella, e tre file irregolari su un’olla ovoide, mentre un’olletta globulare da Colarizzi è ornata con una fila di unghiate.
Nel sito di Gallo di Briatico, in una tomba, furono trovati oggetti di pregio, in parte provenienti dal mediterraneo orientale, tra cui un sigillo talismanico di pietra dura fabbricato a Creta, facies del bronzo medio (XVII-XIV secolo).
Duranti i lavori per la costruzione della strada che da Briatico porta a San Cono di Cessaniti, lungo il corso della fiumara Murria, avendo Francesco Staropoli di Briatico individuato molti resti ceramici di età imprecisata, avvisò la dott.ssa Iannelli, la quale chiese ai soci della Paolo Orsi la collaborazione per rovistare tra i cumuli di terra rimossi per la suddetta costruenda strada.
gli innumerevoli reperti raccolti, furono portati a Caria, ove rimasero in deposito, in un locale adibito a magazzino, a casa di Cicco Rombolà, autorizzato con permesso speciale dalla sovrintendente regionale della Calabria dott.ssa Elena Lattanzi .
Tali reperti furono, successivamente, trasferiti al museo di Vibo Valentia ove furono aggiunti ad altri reperti della stessa zona raccolti da uno scavo ufficiale della sovrintendenza effettuato sotto la guida dell’archeologa Giuditta Grandinetti. Dagli accertamenti tecnici effettuati risultò che tali reperti appartenevano al periodo eneolitico.
b-COLARIZZI
Negli atti della XXXVII riunione scientifica sulla storia e protostoria della Calabria , in relazione ai manufatti recuperati a Gallo e in numerosi siti del Poro, si legge: “Il complesso maggiormente rappresentativo dell’altopiano, in cui tale associazione si presenta in modo esclusivo e statisticamente significativo, è quello di Colarizzi, in comune di Spilinga. Si tratta di un consistente affioramento di reperti, della superficie di quasi un ettaro, situato in una propaggine allungata dell’altopiano, a sottofondo geologico di tipo granitico, all’altezza s.l.m. di circa metri 455. Per illustrare le caratteristiche fondamentali dell’aspetto Gallo-Colarizzi, viene presentata una ristretta ma rappresentativa selezione dei materiali”
Fig.1-Colarizzi (Spilinga), ceramiche della raccolta di superficie. 1-scodella a calotta con vasca bassa; 1, 2 e 3 – anse a nastro con attacchi a espansi; 4,6 e 8-olle di forma da globulare a ovoide;7 – olletta globulare con una fila di unghiate; 9 – frammenti di olla con profilo presumibilmente ovoide e orlo leggermente distinto; 10 e 12 - vaso a basso collo cilindrico o leggermente svasato,e spalla espansa; 13 e
– Frammento di olla con basso colletto cilindrico;2 – frammento di orlo svasato con incisioni a graticcio all’interno; 3 – parte di ansa a nastro con piccolo bottone sommitale; 4,5,6,7,8 e 9- olle con sotto l’orlo una serie di unghiate, formante in genere una sola fila orizzontale; 11 – olla con fascia à la barbotine di listelli lisci in genere rettilinei; 12 e 15 – superficie a squame(o embricata); 16 e 17 – superficie rusticata; 18 e 19 – frammenti di cucchiai con manico a sezione ovoide o rettangolare; 20- idem con estremità rastremata; 22- fusaiole discoidali a margini arrotondati. .
¼ Grandezza naturale è riferito a pagina intera.

QUINTA FASE - SAN FILI (2600-2350) - CIVANO E STUPPA
La quinta fase eneolitica del Poro per le sue caratteristiche viene classificata all’Eneolitico “tipo Laterza”.Il sito si trova a sud della strada dei “Pioppi”, ad est dell’attuale abitato di Mesiano.
Il contesto di riferimento è un ricco affioramento di superfìcie identificato in località San Fili, in cui mancano del tutto tipi riconducibili ad altri periodi. Pressoché omogeneo appare anche il sito di Civano, con l’eccezione di un singolo frammento con nervatura forse riferibile alla quarta fase, così come quello di Stuppa presso Caria, che è tuttavia un po’esiguo.

b-FASE DI TRANSAZIONE DALL’ENOLITICO AL BRONZO ANTICO (2350-2150 a.C.).
Il periodo compreso tra il 2350 e il 2150 a.C. rappresenta la transazione tra l’EN e il BA.
In gran parte dell’Italia meridionale e adriatica, adriatica e nelle isole eoliane e maltesi la fine del ciclo storico eneolitico corrisponde alla diffusione di nuovi elementi culturali che spesso hanno modelli di riferimento trasmarini. In questo complesso diversificato tra il ciclo storico Eneolitico e il Bronzo antico rientra la facies di Zungri-Corazzo.
Le ricerche continuarono dopo le scoperte dell’Orsi seguirono quelle del Kiliam, 1970, del Peroni, 1970-‘74-‘76-‘79-‘94, di Amoruso 1979, dello Holbl, 1979, dello Schauer, 1982, dal Carancini, 1984, della Varricchio 1985, e in modo particolare di Marco Pacciarelli 1985-’86-’87-’88-‘89 il cui risultato di scavi e scoperte è incommensurabile, tra l’altro ha eseguito, a partire dal 1982, una campagna di documentazione grafica di tutti i reperti, tutto documentato nelle sue numerose pubblicazioni. Dopo questa premessa che dimostra la presenza umana su questa fascia del Poro sin dai tempi più antichi entriamo nella storia che narra le origini della nostra gente.

Brevi cenni sulla presenza umana dalla Ellenizzazione alla nascita dei comuni
1-Prima colonizzazione ellenica
Tra l’VIII e il VII secolo a. C. avvengono le prime colonizzazioni elleniche con il beneplacito dei bruzii, che vivevano di caccia e pastorizia su questa nostra terra, che per evitare lo scontro si ritirarono sui monti. Furono gli ioni a fondare, a Reggio, la prima colonia. Poi gli achei fondarono Sibari, Crotone e Locri. quindi l’espansione continua e, in poco più di cento anni, viene disegnata una nuova realtà sociale, economica e culturale destinata a lasciare tracce indelebili nella storia futura di questa nostra terra. Il periodo tra il VII e il IV secolo a. C. fu, per la Calabria, un momento di grande splendore: anni di vita amena, produttiva e costruttiva in tutti i campi.
La regione era ricca di miniere, campi fertili, fitti boschi, acqua abbondante, per cui caccia e pesca erano assicurate e, per di più, al centro del Mar Mediterraneo, che fu la culla della civiltà dell’Occidente e apportò grandi benefici alle popolazioni greche, ma anche un po’ di tranquillità e benessere alle popolazioni locali, che instaurarono con i nuovi arrivati rapporti di pari dignità economica e civile.
Sorsero, oltre a Reggio, Locri, Crotone e Sibari (già citate), Hipponion, Turio e Medma importanti colonie, che divennero un grande campo di esperienza dello spirito ellenico superando, con la fondazione di rinomate scuole, in cultura e scoperte, la stessa madre patria.
Il mare Mediterraneo diviene la via di comunicazione più importante per gli scambi commerciali con i popoli che si affacciano sulle sue rive.


Promontorio di Tropea (è evidenziata l’area al di sopra dei 500 metri s.l.m, corrispondente all’altipiano del Poro): In nero le principali aree di affioramento di materiali neolitici. Nell’area di Passo Murato affioramnento e sezione esposta in corrispondenza dei lavori di escavazione del canale; 1-4: punti di rinvenimento di frammenti di decorazione campaniforme.

2-Invasione romana. (Fu il periodo più oscuro per la popolazione Brettia del territorio di Spilinga perché i Brettii sconfitti dai Romani subiscono la confisca dei propri territori e, ridotti alla povertà, vengono schiavizzati)
Intorno al IV - III secolo a. C. inizia l’invasione romana: ben settantanove anni di sanguinosissimi conflitti per debellare la resistenza dei bruzi ed occupare tutta l’Italia peninsulare, inclusa Reggio.
Con l’occupazione romana la Calabria, chiamata dai romani “ager bruttiorum” (terra dei bruzi), vivrà un periodo nero di miseria materiale e spirituale. In effetti, quei fieri abitanti verranno ridotti alla condizione di peregrini “dediticii”, cioè privati di ogni diritto civile e, come servi, utilizzati nei lavori più umili e degradanti . Nel 91, venne concessa ai bruzi la cittadinanza romana. Essi vennero sì liberati dalla condizione disonorevole di dediticii, ma senza l’apporto di alcun concreto miglioramento civile, culturale o economico e, nel 71, con l’uccisione di Spartaco, fu stroncato il tentativo di riscossa e svanì l’ultima speranza di un nuovo ordine sociale.
A partire dalla fine della seconda guerra punica, si dovette assistere all’ insediamento di colonie e, successivamente, ad un afflusso di veterani militari inviati a Reggio e a Vibo Valentia da Ottaviano come compenso dei servigi resi durante le guerre civili. Migliaia di coloni e di soldati con le proprie famiglie, sopraggiunti nella nostra zona, vi si insediarono sostituendosi ai vecchi proprietari peggiorando la situazione degli indigeni.
Da ciò nacque il latifondo romano e, con esso, si svilupparono le aree malariche. Interi territori, per secoli, subirono il decadimento e l’abbandono.
Nel 410 ci fu l’irruzione dei visigoti di Alarico, che attraversarono tutto il Bruzio tra orribili devastazioni. Morto Alarico, ritirandosi causarono un vero e proprio flagello: razzie di bestiame, di raccolti e di persone e, per completare le desolanti operazioni, ai saccheggi seguirono gli incendi e le distruzioni.
Nel 476, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la Calabria cadde sotto la dominazione bizantina. Sotto il regno di Teodorico, re degli ostrogoti, la Calabria attraversò un’epoca di relativo benessere, infatti, pur non apportandovi questi significativi cambiamenti, si ebbe uno sprazzo di luce con la nomina del nostro conterraneo Aurelio Cassiodoro come Correttore del Bruzio e della Lucania. Alla morte di Teodorico (526), i bizantini strapparono ai suoi successori la Calabria, dopo una lunga e sanguinosa guerra ad esiti alterni (guerra gotica 535/553). I longobardi conquistarono la parte settentrionale della regione costituendo un gastaldato, con sede a Cosenza, in seno al ducato di Benevento e poi al principato di Salerno (847). Gli arabi, che già si erano insediati in Sicilia nel IX sec., con le loro incursioni arrecarono notevoli danni alla Calabria, spingendosi anche nell'interno e costituendo degli emirati a Tropea, Amantea, Squillace e a S. Severina (784/884). Nell’885 i bizantini scacciarono i longobardi e gli arabi ridando l'unità amministrativa alla regione che, proprio allora, prese il nome di Calabria. A causa dell'eccessivo fiscalismo, il dominio bizantino non rappresentò un periodo felice per la Calabria perché si estese il latifondo e decadde l'agricoltura. La malaria e le continue incursioni di pirati saraceni fecero strage in tutti gli agglomerati della fascia costiera, questi ultimi con saccheggi, uccisioni, rapimenti e distruzioni costringendo gli abitanti rivieraschi a rifugiarsi nelle più sicure località dell'interno e a fondare, così, nuovi agglomerati.

Seconda ellenizzazione, la presenza cristiana, i monasteri
I monaci italo-greci provenienti dall’Oriente vennero detti basiliani, in realtà S. Basilio, vissuto tra il 330 e il 379, non aveva istituito alcun ordine monastico, visitava le fraternità e vi passava le notti in preghiera, parlava ed ascoltava intrattenendosi in discorsi su Dio. Dalle domande dei fratelli e dalle risposte di Basilio, accuratamente annotate dai tachigrafici, venne costituita la raccolta delle “Regole”, che di regole hanno solo il nome, poiché Basilio non solo non le ha imposte, ma non ha mai pensato di presentarsi come un’autorità. Il termine basiliani, riferito ai monaci italo-greci, si trova per la prima volta in un documento del 1382, redatto da Cipriano, archimandrita del monastero di S. Giovanni Teriste in Stilo; ma la carta di fondazione dell’ordine basiliano, cioè la bolla “Benedictus Dominus”, di Gregorio XIII risale al 1° novembre 1579, e fu concessa, in occasione della Pentecoste, ai monaci greci, riuniti in Capitolo generale, nel monastero di S. Filarete nel territorio di Seminara diocesi di Mileto . Per cui il nome di basiliani, dato nel Medioevo a questi monaci, è del tutto gratuito. Tuttavia quest’opera ascetica di Basilio, fino a S. Benedetto, fu considerata la base di ogni vita monastica.
Durante il VI-VII secolo il monachesimo incontrò numerose difficoltà, soprattutto in Italia, a causa delle invasioni longobarde che provocarono la distruzione di parecchie abbazie. Solo in Italia meridionale e in Sicilia continuavano a sorgere monasteri, secondo modelli orientali, ed eremi. Questo particolare sviluppo di monasteri era dovuto anche all’avanzata araba nei domini bizantini in Siria, Egitto e Africa settentrionale, “quanti fuggono di fronte alla conquiste musulmane si rifugiano anche in Calabria, ove sorgono comunità monastiche”.
Numerosi anacoreti ed eremiti vivevano solitari lungo le coste meridionali ed in zone interne. Una particolarità di questi monasteri greci era la “laura”, una via di mezzo tra eremo e cenobio, una struttura, cioè, formata da più celle separate, una chiesa e ambienti comuni dove i monaci si riunivano di tanto in tanto per pregare.
I numerosi insediamenti nel distretto del Poro, tra l’età tardo antica e altomedievale, risalgono tra il VII e VIII secolo quando una rilevante ondata di monaci con un consistente numero di fuggiaschi, per sfuggire alla occupazione musulmana di molte regioni bizantine e dalla Sicilia, approda in Calabria e s’insedia principalmente nell’area interna, lontana da grossi centri abitati e dalle principali vie di comunicazione che favorì la formazione di numerosi eremi, cenobi e laure. Verso la metà del VII secolo la lingua greca ridiventa lingua ufficiale e viene introdotto nel culto il rito bizantino. Il diffondersi della lingua e della cultura greca viene messo in evidenza dai nomi dei nove vescovi della Calabria che presero parte al Concilio Ecumenico di papa Agatone del 679 . Gli stessi vescovi intervengono l’anno successivo al Consiglio Ecumenico di Costantinopoli e sottoscrivono come appartenenti alla provincia dei bruzi.
Per cui il sud della Calabria, nella seconda metà del VII secolo, era completamente ellenizzato, considerando che la lingua greca aveva soppiantato quella latina; pur dovendo notare che in Calabria è stato sempre presente il bilinguismo.
Quindi, si deve supporre che a produrre un siffatto cambiamento culturale siano stati proprio i monaci basiliani giunti nella terra di Calabria in seguito all’espansionismo arabo e alle lotte iconoclaste . Nel nostro territorio appare, fin dagli inizi, la vita cenobitica
accanto alla vita eremitica che sembra molto più diffusa; infatti, ancora oggi si possono visitare molte delle numerose grotte esistenti nel territorio di Spilinga, Caria, Brattirò, Motta Filocastro, Vena di Vibo ecc. Ma molti erano anche i monasteri fondati nel periodo bizantino e potenziati nel periodo normanno. Secondo vari autori, nel periodo normanno, nell’attuale territorio della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea erano presenti ben trentadue monasteri greci. Tanto che, secondo quanto afferma A. Guillou, questo tratto di territorio aveva la densità più alta di popolazione greca di tutta l’Italia meridionale.

La Calabria ormai tagliata in due tronconi (Longobardo e Bizantino) tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo sarà facile preda degli Arabi.
Le prime invasioni piratesche avvennero in Sicilia e in Calabria dopo la conquista di Cartagine, nel 698, per opera degli arabi. Nel 728 i governatori della Sicilia, vista l’impossibilità di opporre un’efficace resistenza all’occupazione araba, avevano cercato di fermarli con stipulazioni di trattati commerciali, regolarmente rinnovati ogni dieci anni. Morto Ibrahim ibn Aglab, nell’812, il figlio Abu l – Abbas viola detti trattati spedendo un’armata a corseggiare le isole e le coste occidentali d’Italia fino a Civitavecchia.
Una nave, staccatesi dalla flotta, il 24 luglio dell’813 cercava di approdare alla spiaggia nei pressi di Seminara per fare bottino ma, sorpresa dalla tempesta, vi fece naufragio.
In breve tempo, occupata saldamente la Sicilia, faranno numerose e pesanti escursioni, saccheggiando a più riprese Reggio, Nicotera, Vibo, Cetraro, Locri, Gerace, Caulonia, Turio e Crotone. Nell’839 Sicardo, principe di Benevento, fu ucciso dal pretendente Radelchi. Il popolo di Salerno, reagendo all’uccisione di Sicardo, proclamò principe Siconolfo, fratello di Sicardo, in opposizione a Radelchi, che nel frattempo era acclamato principe di Benevento. Fra i due scoppiò una lunga e accesa guerra che portò all’intervento armato in Italia dei mercenari Musulmani.
La guerra per la successione durò oltre dieci anni durante i quali i saraceni seminarono ovunque devastazione. Una banda di saraceni di Spagna, misti a saraceni d’Africa e di Sicilia, navigando sul Tirreno per entrare in servizio di Siconolfo, occupò vari luoghi della Calabria e istituì, addirittura, a Tropea, Amantea, Squillace e S. Severina, degli emirati che, per oltre cinquanta anni (840-885), faranno da capisaldi per spedizioni predatorie sia lungo la costa, sia all’interno. Le terre occupate dai saraceni soggiacevano al vassallaggio e le città espugnate a una specie di codice che i saraceni imponevano ai vinti per porre fine all’autorità cristiana. I beni dello stato e tutti, o in parte, i beni ecclesiastici e quelli dei cittadini uccisi o fuggiti, divenivano proprietà dei musulmani. Insieme con le terre, andavano i servi e i coloni che solevano coltivarle sotto gli antichi signori.
Il resto della popolazione, per interessi e per non lasciare spopolato il paese, poteva rimanere continuando a vivere secondo le proprie leggi e costumanze .
Esposte al pericolo della violenza e della deportazione, le popolazioni non trovano altra difesa che quella di ritirarsi nelle zone collinose e montuose.
Questo triste spettacolo (città saccheggiate e distrutte, gli abitanti venduti come schiavi nei mercati arabi) Bizantini, Normanni, Angioini e Spagnoli cercarono di correre ai ripari con castelli, fortificazioni murarie intorno alle città, torri d'avvistamento, sistema difensivo, ma nonostante tali sforzi, durerà incontrastato per molti secoli.

Nascita dei nostri villaggi
Durante la dominazione bizantina, i monaci italo - greci provenienti dalla Sicilia, invasa dai Saraceni, penetrati nella boscosa Calabria per la via del Poro, diedero origine a nuovi paesi che dedicarono ai santi, greci o siciliani, da loro particolarmente venerati.
Gli stessi profughi eressero importanti monasteri, alcuni dei quali furono in relazione con i paesi del versante ionico, particolarmente con la città di Satriano, nel cui territorio furono edificati diversi abitati e cenobi.
Ebbe inizio così quel processo di ellenizzazione medievale, che avrebbe trasformato la Calabria e che avrà tra i maggiori protagonisti numerosi gruppi monastici, la cui presenza (oltre che nella produzione delle forme d’arte, nella vita e nel costume della società locale) inciderà certamente nella distribuzione degli insediamenti.
Nel periodo di maggior vitalità del fenomeno, VII-XII secolo, le strutture monastiche diverranno poli di aggregazione per le comunità laiche, organizzate in unità agricolo - economiche, che nel periodo normanno, per la gran parte, rientreranno in aree feudali.
Da un punto di vista economico il Poro, come il resto della Calabria, quando giunsero i primi monaci, si trovava in completo abbandono una condizione causata dalla guerra gotico - bizantina che destinò gli uomini alle armi lasciando le terre, date dai romani alla chiesa, incolte in preda alla vegetazione spontanea, che prese il sopravvento, insie ad acquitrini e paludi.
I religiosi orientali, assieme agli indigeni, abbatterono i boschi, dissodarono i campi, li coltivarono e li resero produttivi, e, quando non era possibile la coltivazione diretta, davano i terreni in concessione a personale laico, che loro stessi avevano istruito all’agricoltura. Si costituiva così nel monastero una grangia, diretta da un economo, per lo più un monaco alla diretta dipendenza dell’egumeno.
Ciò costituì, in quel momento di assoluta miseria per la popolazione locale schiavizzata, come abbiamo detto in precedenza, dall'occupazione romana, fu una fonte di benessere.
Questa popolazione greca diffuse, tra la popolazione locale, tecniche agricole più progredite ed eseguirono opere di miglioramento, come pozzi, costruzioni di acquedotti per alimentare i mulini e l’introduzione di nuove colture, come ad esempio, quella del gelso per la produzione della seta che portò, specialmente nella zona del Poro, una condizione benessere, anche se moderato. L’atteggiamento dei religiosi attirò nel Poro altre popolazioni italo-greche, che si distribuirono in numerosi piccoli centri, rendendo più caratteristico l’aspetto del territorio.
Alle sporadiche antiche città presenti sul territorio calabrese si aggiunsero nei secoli, dopo i “castra o castelli, che erano luoghi fortificati di origine militare intorno ai quali si era poi venuto a formare un agglomerato urbano”, “e le motte, sorte a scopo difensivo su alture verso la fine del secolo IX ”, sorsero i primi casali, agglomerati rurali di dimensione generalmente modesta.
“Una posizione intermedia tra città e casali sia per quanto riguarda le dimensioni, talvolta rilevanti, sia per l’organizzazione sociale ed economica, occupavano le terre, che come i casali, da cui talora traevano origine, erano per lo più prive di circuito murario ma, al contrario di quelli, avevano un’amministrazione autonoma”.
Tra il IX e X secolo il territorio ebbe una profonda accelerazione del processo di ripopolamento dovuta all'incremento dell’immigrazione di mercanti, di monaci, di elementi del clero e della nobiltà greco-orientale che fuggivano all’avanzata araba nei domini bizantini di Siria, Egitto e Africa settentrionale.
Un gruppo di monaci, con a seguito un folto numero di lavoratori e loro famiglie, giunse nella zona dove sorge l’attuale villaggio di Spilinga. La terra si trovava in completo stato d’abbandono, infatti, in seguito alle invasioni barbariche e alla guerra gotico-bizantina, la maggior parte delle terre erano rimaste incolte e la vegetazione spontanea aveva preso il sopravvento. L’unica fonte di sostentamento per gli indigeni era l’allevamento del bestiame che veniva praticato allo stato brado.

L'origine di Spilinga - parte prima.
La seconda ellenizzazione contribuirà in modo rilevante alla formazione di molti centri urbani sui quali si attesterà la vita dei paesi del Poro e della Regione. I monaci italo-greci si riallacciarono, in un certo senso, all’opera dei loro predecessori perché, come asseriscono Vitolo, Prococo e Giardina, il nuovo fenomeno non è “privo di continuità con il monachesimo dell’età antica, e ciò non solo in senso materiale, ma anche spirituale e istituzionale ”.
Non vi è dubbio che la scelta dell'ubicazione del borgo di Spilinga non è casuale, ma è stata sicuramente adottata per la posizione, per quei tempi, privilegiata: quel terrazzo sulla vetta della collina ben protetto perché incuneato tra due profonde vallate attraversate da tortuosi corsi d’acqua a carattere torrentizio e, con la sua larga visuale a monte e a mare, offriva una considerevole tranquillità.
Il compito di presentarci il paese spetta per lo più al toponimo, e, per quanto riguarda Spilinga, l’origine del nome non ci dà motivo di attingere a miti o leggende poiché, sia che derivi dal greco o dal latino, il significato è comunque da tutti comprensibile. Si riportano le affermazioni di alcuni cronisti e compilatori che hanno preso in considerazione le vicende di questo territorio e che ripetono etimologie e terminologie degli antichi scrittori. Così, ad esempio, sull’origine del nome Spilinga, Giovanni Fiore scrive: Spilinga dalla concavità di un sasso. Il nome è connesso a spelunx.Sia il Fiore che il Sergio, però, si limitano a riportare la traduzione fatta dal Barrio.
Il filologo e linguista tedesco Gerhard Rohlfs conferma l’ etimologia greca da “Spèlunga” e Francesco Pugliese , pur concordando sulla derivazione greca, vi aggiunge una variante: il nome Spilinga, scrive, deriva dal greco spelunga = grotta, oppure spélaion-ghé = terra ricca di grotte.
Anche se ciò non comporta alcun cambiamento nel significato della parola, ne corregge la dizione. La derivazione da spélunga (sasso concavo o grotta ) non avrebbe alcun senso pratico, visto che l’abitato si sviluppa al disopra di un alto appicco; mentre la derivazione da spélaion-ghé (terra ricca di grotte) ha più consistenza. Infatti viene riferita al villaggio, un sito favorevole ad insediamenti rupestri, poiché nei quattro versanti delle fiumare di Spilinga esiste, oltre a quelle descritte nel capitolo specifico, un notevole numero di grotte.
Il primo nucleo dell’agglomerato urbano di Spilinga, anche se non rilevante poiché strategicamente meno coinvolto in grandi avvenimenti d’importanza storica, per cui, a quanto viene storicamente documentato, bisogna fare riferimento anche alle fonti della tradizione orale.
I villaggi erano, relativamente al periodo storico, tranquilli cioè abitati da persone umili, civili e laboriose, ecco perché sulle prove documentali carpiscono solo qualche casuale e fuggevole menzione. Questo certo non perché manchino di attiva e fattiva partecipazione, anzi sono loro i protagonisti cioè coloro che fanno la storia, fornendo uomini e mezzi, come vedremo in seguito, per la difesa e il sostentamento, alla città da cui dipendono e che si appropria di pregi e meriti.

L'origine di Spilinga - parte seconda.
La cristianizzazione del territorio di Capo Vaticano è testimoniata da una lastra opistografa
(=scritta da ambo le facce) rinvenuta nella zona di torre Ruffa: l’epigrafe che vi è incisa è l’epitaffio di Fantino, abate di un monastero, con la data consolare stabilita da Felice Costabile nel 575; ma la pars antica della lastra contiene l’epitaffio di Vittoria, una cristiana morta tra il 414 e il 420, secondo l’interpretazione di Felice Costabile. La presenza cristiana si estende presto verso l’interno del promontorio Vaticano, dove la massa trapeana comprende estensioni rilevanti del territorio provenienti da possedimenti dell’oligarchia romana e che faranno parte del patrimonium sancti Petri dopo la donazione alla chiesa di Roma. Fu certamente nel periodo bizantino che anche il territorio di Spilinga acquistò una particolare rilevanza religiosa.
Guidati, quindi, da qualche eremita che era stato in zona e che aveva convissuto con italo-greci di antiche immigrazioni, un gruppo di monaci, con il loro seguito di contadini e artigiani, scelse come residenza quel posto ameno e abitato da indigeni molto ospitali.
I laici, sotto la guida dei monaci, abbatterono i boschi, dissodarono i campi, li coltivarono e li resero produttivi e, quel che più conta, è il fatto, fino allora inusuale, che per tali operazioni fossero coinvolti gli indigeni, istruiti anche alle nuove coltivazioni. Essi diffusero tra la popolazione tecniche agricole più progredite ed eseguirono opere di miglioramento, come pozzi, costruzione di acquedotti per alimentare i mulini e l’ introduzione di nuove colture. Tra queste, quella del gelso per la produzione della seta , che portò, specialmente nella zona del Poro, un certo benessere.
Costruirono un monastero che dedicarono a S. Maria De Grippo, specifico riferimento agli eremiti che vivano nelle numerose grotte sparse nei dintorni e in modo particolare in una valletta amena sul lato est poco distante dall’attuale abitato.
Costruirono la chiesa che dedicarono a S. Giovanni Battista e, intorno alla stessa un piccolo agglomerato ove si concentrò l'intera popolazione laica greca bizantina e indigeni locali, anche al villaggio, come al monastero, diedero il nome di Spelaion-ghè (terra ricca di grotte).
Il monastero di S. Maria de Grippo sorgeva non lontano dal centro abitato con cappella annessa: nella seconda metà del secolo XIX venne inglobato dentro le mura dell’attuale cimitero, appena costruito. Questo luogo, ancora oggi, è conosciuto con il nome di località S. Maria. E se i resti non sono venuti alla luce, ciò è dovuto all’incuria, o peggio all’ assoluta carenza di interesse per le vicende del passato. Comunque, con il sorgere delle costruzioni cimiteriali, prima, e con i lavori di ampliamento dopo si è definitivamente preclusa ogni possibilità di ricerca sul sito, anche perché monastero e chiesa, divenuti proprietà privata, sono stati trasformati in cappelle mortuarie. Sebbene le prove strutturali siano state occultate tuttavia alcuni attestati che ne confermano l’esistenza si sono conservati. Infatti, oltre le citazioni del Vendola nella decima dell’anno 1310 e dell’anno 1324, abbiamo una testimonianza che un abate del monastero di S. Maria de Cripto venne nominato vescovo della diocesi di Oppido.
Nell’Eubel , Hierarchia, I, 329 si legge infatti: Morto Nicola, la maggior parte del capitolo elesse vescovo di Oppido Antonio, abate del monastero basiliano di S. Maria de Cripto in diocesi di Tropea, mentre il resto votò a favore di Nicola, decano di quella chiesa. Per risolvere la questione la congregazione, il 24 gennaio 1364 , invitò Ronaldino Malatacchi, vescovo di Tropea dal 14 giugno 1357 al 23.10.1390 , ad esaminare se l’elezione di Antonio era stata fatta con tutti i crismi canonici, di confermarla e provvedere alla legittima consacrazione. In caso contrario veniva incaricato di eleggere altra persona degna di occupare tale carica.
Antonio, quindi, nell’anno 1364 viene eletto vescovo di Oppido. Padre Francesco Russo fa notare che detto prelato è ignorato dall’Ughelli e, conseguentemente, dallo Zerbi, dal Fiore e dal Taccone-Gallucci, è invece recensito dall’ Eubel , e dal Pignataro .
Nella Platea di Mons. Sigismondo Pappacoda (1494- 1499), il monastero di Santa Maria de Grippo (sic: ma de Cripto) viene elencato tra i possedimenti in territorio di Spilinga.

La chiesa di San Giovanni Battista (parte prima).
La chiesa di S. Giovanni Battista, pietra miliare del medievale villaggio, eretta al centro di Spilinga e contornata da modeste costruzioni, con la sua maestosa imponenza destò per secoli rispetto e ammirazione.
Don Francesco Pugliese, appassionato cultore di Storia dell’Arte, a proposito di detta chiesa, così scriveva: “Merita attenzione la chiesa Arcipretale, che domina la massa delle case che la contornano, per la sua rustica facciata segnata dagli anni, severa espressione di volume murario”. Non è documentata la data della primitiva costruzione, ma quel che è certo, occupa questo sacro suolo da più di un millennio.
Nella decima del 1310 di Domenico Vendola si legge: “item a presbitero Peregrino de Spinga (sic: ma Spilinga) tar. I.
Nel 1492, con la Platea Pappacoda, viene fatta una descrizione dettagliata della chiesa di S. Giovanni Battista, e dei beni da tempo antico avuti, tenuti e posseduti e che oggi ( 1492) ha.
Rimaneggiata nel 1604 come attesta la scritta 16 IHS 04 ancora evidente sul granito adibito a gradino nella scalinata della porta laterale, sicuramente nella vecchia chiesa era il capitello posto sul portale.
Nel 1689 e nel 1699 Don Leonardo Montanaro, che si sottoscrive parroco di S.Giovanni Battista di Spilinga e di S. Nicola di Condorchidoni, attesta l’effettiva funzionalità di ambedue le chiese. funzionalità confermata, 1722, dal Vescovo Lorenzo Ibanez: “ giunse poi alla chiesa di S. Nicola che è stata annessa e unita alla chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista del casale di Spilinga anticamente era del casale di Condocridoni, senza alcun abitante, in essa si celebra tutte le domeniche e i giorni di festa di mattina presto, per comodità dei contadini… ”.
Il 20 settembre 1722, la chiesa parrocchiale di Spilinga, dallo stesso Vescovo Ibanez, fu eletta in Arcipretura e fu nominato Arciprete D. Salvatore Polito, con continuazione dei successori.
Non è documentato per quale calamitoso evento la chiesa di S. Nicola viene definitivamente distrutta mentre quella di S. Giovanni Battista, strutturalmente danneggiata, viene ristrutturata, come risulta da un documento rinvenuto nell’Archivio di Stato di Catanzaro, ove si legge:
A 30 Maggio 1739, lode a Dio, si terminò la fabbrica della Chiesa Madre per il cui accomodamento (questa affermazione è molto importante che documenta una datazione molto più antica della struttura muraria di questa attuale chiesa visto che si tratta di accomodamento e non di ricostruzione) per l'accomodamento si sono spesi ducati 400:
Più a 7 settembre 1740, lode al Signore, si finì lo soffitto lamerato, e li quattro altari alla Romana fu speso di mio denaro altri ducati 40=
A 29 settembre 1742 si terminò il cappellone che, a differenza della chiesa, fu prima demolito e dopo ampliato e rifabbricato per decreto di Mons. Ill.mo D. Gennaro Guglielmini…
A 19 maggio 1743 di Domenica si degnò Mons.Ill.mo D. Gennaro Guglielmino ai miei preghi Consacrando solennemente la chiesa con tutta la pompa possibile. Io Nicola Falduti=in questa sacra funzione ho speso trenta ducati più ventidue per l’orologio.
L’anniversario lo destinò da celebrarsi il 30 agosto. I nomi delle sante reliquie furono preparate la sera prima, sabato, in quel giorno si osservò il digiuno, poi furono riposte dentro un cassettino di piombo sigillato nell’altare. Sono: S. Candido, S. Modestino, S. Vittorino, S. Sinforiano e Santa Pia.
l terremoto del 1783 crea pochi danni alla chiesa di S. Battista di Spilinga come viene testimoniato nelle perizie del Vivenzio.
La cripta mortuaria, sotto il pavimento della navata centrale, era suddivisa in quattro zone di sepolture differenziate: i confratelli, le consorelle, le vergini e nella quarta zona tutti gli altri, uomini e donne, non iscritti. Nel 1792, come attesta l’epigrafe posta a sinistra dell’altare dedicato a S. Michele, le confraternite maschili e femminili aprirono sotto il pavimento dell’oratorio due nuove cripte per i loro associati.
Nel 1883 finalmente anche Spilinga comincia ad adeguarsi alle norme igieniche dettate dai Francesi per il seppellimento dei morti fuori delle chiese e il 28 luglio 1883 come si legge in una annotazione sul registro dei morti (1857-1891) della parrocchia di Spilinga: “Principia il seppellimento dei cadaveri nel Cimitero”.
 
Alla cripta mortuaria, sotto il pavimento della navata centrale, non si accedeva, come nelle altre chiese da botole interne, ma dall’esterno, infatti sotto la predella antistante l’accesso principale, alta circa due metri dal livello stradale, si apriva una porta, oggi murata, un comodo accesso ad un ampio spazio suddiviso in quattro zone di sepolture differenziate: 1) i confratelli, 2) le consorelle, 3) le vergini e nella quarta zona tutti gli altri, uomini e donne, non iscritti alle confraternite.
Nel 1792, come attesta l’epigrafe posta a sinistra dell’altare dedicato a S. Michele, le confraternite maschili e femminili aprirono sotto il pavimento dell’oratorio due nuove cripte per i loro associati.
Il terremoto del 1783, mentre distrugge la chiesa di Panaia, crea pochi danni a quella di S. G. Battista di Spilinga come è testimoniato nelle perizie del Vivenzio.
PARROCCHIA di CARCIADI ducati 13.20
PARROCCHIA di PANAJA " 339.36
PARROCCHIA di SPILINGA " 76.85
alle parrocchie di Carciadi e Spilinga non venne elargito alcun contributo mentre a quella di Panaia furono elargiti ducati 226,24 per cui è l'unica chiesa ricostruita dopo il terremoto del 1783.
l'interno come si presentava a noi fino a qualche anno fa, è stato rimodernato tra il 1858, anno inizio lavori, e il 1876, anno di fine lavori, sotto l’Arciprete Scipione Petracca che fortunatamente nei registri parrocchiali ci ha lasciato questo documento che interamente trascrivo.
Memoria ai posteri.
“Memoria ai miei posteri, di ciò che si è fatto nella Chiesa dal tempo che fu affidata alla mia cura.(1857). Dopo la morte del mio antecessore D. Antonio Melidoni fui dall’Ill.mo Monsignore De Simone eletto Economo Curato. Passate tre anni di tale gestione, fatto il concorso a 21 febbraio 1859, fui approvato e presi possesso dell’Arcipretura il 3 marzo del detto anno. Perché la chiesa si trovava rovinata tanto nella copertura, quanto nella volta ell’era di cannucce, trovandosi le rendite della Parrocchia in amministrazione diocesana il Vescovo De Simone s’impegnò col concorso di D. Ignazio Barone fu Antonio di Tropea, e fece una economia di cento e più ducati, i quali furono impiegati 75.00 impiegati per la rifazione della copertura fatta in luglio ed agosto del 1858. Il rimanente si spese per Pianete Camici , ed altri accomodi. A causa della guasta copertura era crepata la volta, in modo che si stava in pericolo di vita. Si pensò gettarla e farla di mattoni alla siciliana. Si diede principio all’opera comprando materiali fin dal 1858. Quasi tutti i mattoni furono comprati a Papaglionti al prezzo di d. 27 il centinaio pochi migliaia a Panaia. Il gesso si cacciava ai contorni del paese; si trasportava nel Cricimo, e si bruciava con legni raccolti nel paese quasi ogni giorno. Il trasporto di mattoni non si pagò; perché si offrirono i massari, e coi fatti senza minima spesa li portarono a luogo. I mastri furono di Monteleone cioè Mastro Domenico Bruzzano di Baldassarre capo Maestro, ed appaltato sotto la direzione e col disegno dall’Architetto D. Giuseppe Santulli; gli altri mastri Giuseppe Santulli, Saverio Bruzzano, Nicola Iambusci, e finalmente per gli ornati vi fù uncerto Maestro Giuseppe Maio di Monterosso discepolo del capo maestro. Allo stucco vi fù pure Mastro Domenico Romeo di Gerace ora qui domiciliato. La spesa a detta opera fu di circa da sei a settecento ducati, che furono pagati cioè ducati 215.00 dal Comune sui tante deliberazioni fatte dal Sindaco e Amministratori di quei tempi, altre D. 70.00 si presero dalle questue di S. Nicola D. 40.00, D. 10.00 la M. del lume di S. Antonio, D. 5 Santa Lucia D. 5, e D. 10 dell’ Immacolata. Il rimanente si è dovuto accumulare con fare una questua di gregni, ed all’aia iunte di grano, altre di panicolo, da me sottoscritto e dal sacerdote D. Michele Miceli fu Giuseppe. L’opera principiò a 10 gennaio 1860 e terminò a 10 aprile 1861. Ma non travagliarono di seguito; ma bensì interottamente. Gli Evangelisti furono fatti con una tassa volontaria dei naturali del paese. Il Pittore fu D. Vincenzo Basile di Tropea. Il costo fù di D. 25.00, e trattamento. Nel 1862 feci fare la vetriata del Presbiterio a mie spese ho fatto la vetriata di mezzo nella navata, da Mastro Francesco Cortese falegname qui domiciliato e costò Duc. Dieci
A 31 ottobre 1876 si è dato principio all’Altare Maggiore a mie spese da Mastro Francesco Epifanio, e Domenico Romeo.”
Questa ultima operazione all’Altare Maggiore, intonaco in gesso e coloratura a striature marmoree, anche se agli occhi del popolo dava una sensazione di piacevole e vivace splendore, in realtà ricopriva la struttura in alabastro e granito, di pregevole valore storico-artistico opera di provetti scalpellini locali. Fortunatamente oggi riportata alla luce.



Il culto
La cristianizzazione del territorio di Capo Vaticano è testimoniata da una lastra opistografa (=scritta da ambo le facce) rinvenuta nella zona di torre Ruffa: l’epigrafe che vi è incisa è l’epitaffio di Fantino, abate di un monastero, con la data consolare stabilita da Felice Costabile nel 575; ma la pars antica della lastra contiene l’epitaffio di Vittoria, una cristiana morta tra il 414 e il 420, secondo l’interpretazione di Felice Costabile. La presenza cristiana si estende presto verso l’interno del promontorio Vaticano, dove la massa trapeana comprende estensioni rilevanti del territorio provenienti da possedimenti dell’oligarchia romana e che faranno parte del patrimonium sancti Petri dopo la donazione alla chiesa di Roma. Fu certamente nel periodo bizantino che anche il territorio di Spilinga acquistò una particolare rilevanza religiosa.
Vicino al monastero di santa Maria de Grippo e, intorno alla chiesa di S. Giovanni Battista si venne formando il villaggio con una cintura di chiese e luoghi sacri che creò attorno a Spilinga una corona che ancora oggi è possibile costatare.
Sull’esistenza del monastero, il villaggio di Spilinga e la sua chiesa, oltre nell'esser annoverato tra i casali di Tropea, disponiamo di prove documentali: -una citazione del Vendola , nella decima dell’anno 1324,
-una del 1334 di Re Roberto che dispone quindici galee per custodia e difesa delle coste di Calabria . Queste citazioni documentano un monastero e un fiorente centro abitato Spilinga, con una parrocchia, come risulta dal registro delle decime, 1324 :“item a presbitero Peregrino de Spinga (sic: ma Spilinga) tar. I ”.
Nella Platea Frangipane, fine XV secolo, si legge:
Ecclesia Santi Joannis de Spilinga tenet… …beni…santo Joannis Battista casalis Spilinge…per abatem Joannem Melia cappellanum…”
Segue un elenco dettagliato che occupa diverse pagine e ne descrive una consistenza patrimoniale abbastanza rilevante.
In un altro documento D. Leonardo Montanaro, parroco di S.Giovanni Battista di Spilinga e di S. Nicola di Condorchidoni trascrive un elenco dei beni nelle due chiese, ritenuto importante perché conferma nel 1689 l’esistenza di ambedue le parrocchie.
Nelle visite pastorali viene descritto il clero e l'interno della chiesa.
La chiesa parrocchiale di Spilinga il 20 maggio 1722 venne eretta ad Arcipretura dal vescovo Lorenzo Ibanez, in occasione della visita pastorale. Nella relazione di tale visita veniva così descritto l’interno della chiesa: l’Altare Maggiore l’Altare del SS. Rosario, l’Altare delle Anime del Purgatorio, l’Altare di Maria SS. della Pietà e l’altare di S. Antonio. Nell’annessa Cappella di S. Michele, Oratorio, risultano l’Altare di S. Michele, e l’ Altare di S. Nicola. In occasione di tale visita vengono revisionati le entrate e gli esiti di ben sei Cappellanie di cui quattro facenti parte di detta chiesa .
Nella cantoria, sopra l'entrata principale, vi sono i resti dell'organo storico, distrutto in parte nella seconda metà del XX secolo per far posto agli ingranaggi dell’orologio che prese posto nel rosone in alto sull’organo stesso. Le sue dimensioni erano maggiori di tutti gli altri organi sopravvissuti nelle chiese della diocesi di Tropea.
Dai suddetti documenti, come dicevo in precedenza, si rileva che la chiesa Madre di Spilinga dedicata a S. G. Battista, anche dal punto di vista strutturale, era attiva e funzionale, essendo stata, però, elevata ad Arcipretura si è ritenuto necessario ristrutturarla. Tale ristrutturazione, per quanto concerne la navata centrale, viene completata il 30 Maggio 1739, come risulta in un documento conservato nell’Archivio di Stato di Catanzaro.
Della secentesca chiesa, suggestivo reperto documentale, sul frontale di un pezzo di granito adibito a gradino della scala d' ingresso laterale, spicca l’incisione: “16 I H S 04”. Tale data fino a qualche anno fa si leggeva chiaramente, oggi, dopo anni di incuria e intemperie, alcuni caratteri stanno scomparendo.

La Collegiata
Spilinga oltre ad essere un paese prettamente agricolo era un paese molto religioso con una devozione diversificata a molti santi e Madonne. Oltre la chiesa Arcipretale di S. Giovanni Battista, quella parrocchiale di S. Maria della Misericordia di Carciadi e quella arcidiaconale di S. Maria del Campo, vi erano la Chiesa di Santa Maria di Gesù, quella di S. Caterina, quella di S. Nicola, quella di S. Sebastiano, quella di S. Francesco Saverio, alle quali si aggiunsero, prima quella della Madonna della Fontana e, poi, ai primi anni del '900 le chiese rurali di S. Michele e di S. Maria, delle Grazie e, quelle più piccole della Madonna di Pompei e della Madonna del Carmelo.
La maggior parte della popolazione, dal punto di vista religioso, era distribuita in congregazioni e singolarmente elencata nelle rispettiva Platee che partono, dai documenti da me consultati presso l'Archivio di Stato di Catanzaro, dal 1669:Platea delle anime del Purgatorio e S. Michele Arcangelo, Platea del SS., Platea del Rosario, Platea di S. Antonio, Platea di S. Caterina e Platea di S. Francesco Saverio.
Dopo la rivolta del 1722, il piccolo borgo di Spilinga, anche se con alti e bassi, acquisisce evidenti miglioramenti: la popolazione comincia ad avere un notevole incremento, l’edilizia prende un aspetto più consistente e si arricchisce di palazzotti signorili, la chiesa madre e il suo oratorio, 1731-1743, viene "accomodata", le congregazioni allargate e rimpinguate di nuovi beni, gli altari rinnovati e le chiese officiate si moltiplicarono con un incremento del clero tale da indurre, nel 1761, il Sindaco Domenico De Vita e il parroco Tommaso Pugliese a fare richiesta al vescovo di Tropea dell’istituzione della chiesa Collegiata a Spilinga.
Tale Collegiata, successivamente annullata o meglio misconosciuta dal clero tropeano, è sufficientemente evidenziata nei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Catanzaro. Nella Platea della venerabile cappella del Santissimo, del procuratore (1760-1761) Domenico Purita che scrive … della chiesa Arcipretale e Colleggiata di Spilinga principiante dal 28 maggio 1760…
Nella stessa Platea, 1760- 1762,”…dal Procuratore della Colleggiata D. Ignazio Pontoriero”.
In un decreto di Mons. Felice de Paù da Terlizzi, datato 9 febbraio 1767, nella chiesa Collegiata di Spilinga, vengono nominati otto canonici nei Reverendi: G. Roberti, A. Pugliese, F. Pugliese, O. Punturiero, C. D’Orlando, B. Pugliese, F. Cuccione e P. Pugliese; e tre clerici F. Gaetani, G. De Bartolis e G. Adamo.Viene eletto procuratore il Rev. Cosma de Orlando.
Nella Platea delle Anime Benedette del Purgatorio tra gli esiti dell’anno 1760 inizia la spesa per la Colleggiata, nell’anno 1761 vengono dati ducati 23 a D. Cosmo Orlando Procuratore della Colleggiata e negli anni successivi dal 1762 al 1772 risultano pagati 46 ducati l’anno per la Colleggiata.
Da questa documentazione si desume che la chiesa Collegiata a Spilinga è stata ufficiante dal 1760 al 1772.
Non si conosce la data della dismissione di tale Colleggiata, ma nelle visite pastorali dei successri di Mons. De Pau non se ne fa alcun cenno.
Nel 1794, ’95 e ‘97 Mons. Giovanni Vincenzo Monforte visita la chiesa arcipretale di Spilinga e chiama i rappresentati del clero a prestare la consueta obbedienza. Come si vede dall’elenco, continuano ad operare a Spilinga i dodici sacerdoti che prima formavano la Colleggiata.



Sudditanza socio-economico-culturale
Nel periodo della dominazione spagnola il territorio di Spilinga, come in genere tutto il meridione, soffrì di soprusi e vessazioni. Gli abitanti ridotti a uno stato di miseria materiale, culturale e morale, furono afflitti da aumenti delle tasse Regie e dalla prepotenza dei dominatori locali.
La condizione di analfabetismo caratterizzava la popolazione dei villaggi, e persino nella sottoscrizione dell’accordo del 29 aprile 1636 , dei sedici sindaci dei casali presenti, ben quindici hanno firmato con segno di croce, come si rileva dalla trascrizione del documento con la sottoscrizione da parte del sindaco di Spilinga Giamba Devita e quello di Carciadi Pifanio Diluca, ambedue analfabeti.
Con l’inizio del 1600 si è andati verso un periodo di stasi, i segni della decadenza si sono fatti sempre più evidenti e i contadini per sfuggire alle tasse abbandonarono i casali provocando un nuovo calo demografico. Il 12 settembre 1612 la città e i suoi casali vennero venduti al principe Ruffo e, anche se successivamente la vendita venne rescissa e Filippo III ordinò“che Tropea fosse restata in perpetuo demanio, i casali, posciachè formavano un solo corpo con la città, non dovessero essere smembrati e venduti”, il rischio di essere infeudati si ripresentò nel 1620, 1637 e 1643.
Manifattura e commercio, in forte decadenza nella città di Tropea, nei primi decenni del XVII secolo si spostarono con uomini e investimenti nelle campagne dei casali. Nuove terre vennero strappate al bosco e messe a coltura e venne intensificata la coltivazione del gelso. A causa, però, del sistema fiscale spagnolo e di un infausto sistema di esenzione tutta l’economia agricola dei casali registra una involuzione in senso feudale, con formazione di cospicue proprietà nobiliari, borghesi ed ecclesiastiche, dotate di privilegi dall’aspetto medievale. Anche di qui le frequenti ribellioni degli abitanti dei casali (contadini, operai o braccianti o viventi dì per dì) .
Nel successivo corso del XVII secolo le condizioni andarono man mano peggiorando. Calamità naturali, come terremoti e pestilenze, si aggiungono a fattori di natura sociale e politica e riducono la vitalità della popolazione che va calando anche di numero ”. La città e i casali, spopolate di moltissimi abitanti e con la maggior parte delle famiglie cospicue capaci solo di nutrirsi, versano in una immensa desolazione.
Il vescovo di Tropea Fabrizio Caracciolo de’ Pasquizii il 20 dicembre 1623 scriveva al Vicerè per informarlo della grave situazione in cui versavano i casali concludendo: “… standosi in questi termini et nella tanta strettezza di denari quanta è già nota a tutti, che in queste parti in particolare per cavare un carlino bisogna cavar sangue”.

Verso la rivolta
A nulla sono valse le rivolte dei casali esasperati da questo stato di cose. Dopo la prima ribellione, nel 1648, capeggiata dagli abitanti del casale di Parghelia, che fu repressa nel sangue, la classe dirigente tropeana, tronfia della vittoria e sicura che l’atroce repressione avrebbe smorzato sul nascere ogni futuro desiderio di ribellione, nel 1703 ristruttura i due ceti, nobili e piccola borghesia, in due sedili distinti per una migliore autodifesa dei diritti di classe e specialmente di quelli fiscali. Verrà pertanto codificata la riduzione delle tasse ai nobili e ai piccoli borghesi a danno dei villaggi e delle rimanenti classi.
La Regia Camera intervenne, due volte, in loro favore per imporre una politica tributaria più equa e introdurre forme di rappresentanza dei Casali, i quali, attraverso propri deputati, avrebbero dovuto poter esprimersi ogni qualvolta fosse stata introdotta una nuova tassa. Ambedue volte, però, queste disposizioni furono aggirate a favore della Città e la condizione dei Casali andò progressivamente peggiorando.
Nel successivo corso del XVII secolo le condizioni andarono man mano peggiorando. Calamità naturali, come terremoti e pestilenze, si aggiungono a fattori di natura sociale e politica e riducono la vitalità della popolazione che va calando anche di numero ”. La città e i casali, spopolate di moltissimi abitanti e con la maggior parte delle famiglie cospicue capaci solo di nutrirsi, versano in una immensa desolazione.
In questo lasso di tempo, mentre la popolazione dei casali, ormai dimezzata, intristiva per la miseria, i nobili tropeani, sempre più avidi e corrotti, si rendevano artefici di una iniqua ripartizione delle tasse.
Mentre l’odio per il triste passato e il sangue versato covava nei loro petti, a colmare la misura, giunse la notizia dell’ingiusta ripartizione da parte del gruppo dirigente tropeano di un donativo di trecentomila ducati assegnato da Carlo VI d’Austria alle Università del Regno.
I contadini di Spilinga, esasperati da questa nuova prepotenza, il 6 agosto dell’anno 1722, restituirono le copie delle tasse ai sindaci di Tropea. Indi, per non essere isolati e vulnerabili, si recarono negli altri villaggi fomentandone la rivolta...

La rivolta del 1722
Per la rivolta del 1722 ho fatto riferimento a quanto scritto e pubblicato da Nicola Scrugli, anche se nella narrazione è evidente che il suo punto di vista protende dalla parte dei nobili tropeani “…altro più brutto danno, che Tropea ebbe a soffrire, fu una ribellione di contadini dei suoi ventiquattro villaggi…”, riporto la narrazione originale perchè fatta con dovizia di particolari in tutta la crudezza di quello inumano comportamento.
Or posciachè i donativi, i quali erano, oltre le tasse dirette ed indirette, il terzo fonte dell’erario, essendo che per la maggior brevità di comando venivano abusati, la Regia Camera della Sommaria nel 1720 aveva con ordinanza statuito, che le persone viventi di per di non fossero ai donativi obbligati.
Il contado si dolse quindi che, nella ripartizione del donativo da pagarsi nel suddetto anno 1722, nessun conto di quelle disposizioni si fosse tenuto.
Pure sarebbersi essi acquietati, se il subalterno del Tribunale Provinciale, Orazio Falduti, per l'ingordigia di essergli pagati un dieci docati, non avesse insinuato nell’animo degli abitanti di Spilinga, dando loro copia della su detta ordinanza, da lui stata notificata, di non essere eglino obbligati al donativo; pur soggiungendo, che si sarebbero dovuti unire, per non venir costretti, ad altri contadini di altri villaggi, è farsi ragione con la maggior forza del numero.
Per lo che l'incendio, in quel medesimo giorno, da abitato ad abitato immantinente si appicicò.
E i sindaci, opinando essere più facile frenarli nell'incominciamento, inviarono, in quel giorno stesso, nel villaggio di Spilinga due padri Agostiniani Scalzi, i quali giunti sul posto vennero a sapere che la rivolta si era estesa in tutto il contado.
Pur nondimeno quei padri adoperaronsi con tutto il capitale di loro persuasive, e sinanco promisero che l’università concederebbe l’esenzione del donativo e di qualunque pagamento, purché si fosse desistito dalle ostilità.
I villici si riunirono e dettarono per iscritto le loro richieste, alle quali i sindaci, riunito il consiglio, come scrive lo Scrugli, non solo diedero delle risposte palliative ma si vociferò che alcuni proposero di procurare la carcerazione del Falduti, come il fomentatore e il capo.
Or poscia che alcuno della sessione, tristo o sciocco che si fosse, ne avvisò lui e il Batiale, fu un aggiunger legna al fuoco; imperocché entrambi subitamente si posero alla testa dei sollevati.
Presero d'assedio la città tagliandole qualsiasi contatto con l'esterno.
E come se i ribelli gli occhi della mente avesser offuscati, più ostinandosi, levarono le acque dalle fontane, una banda sequestrò le farine nei molini, mentre altra banda appostavasi alla Nunziata a vietare che nessuna vettovaglia introdotta fosse, e pur tenevan chiuse tutte le vie di fuori.
Dopo diversi giorni d'assedio i rivoltosi, saputo dell'imminente arrivo degli aiuti militari alla città, presi da timore chiesero l'intervento del vescovo Ibañez, che si trovava in vacanza a Drapia, affinché si adoperasse ad ottenere le concessioni richieste in cambio delle cessate ostilità. Ottenuta l'assicurazione richiesta, tolsero il blocco e mandarono subito in città acqua e viveri. Memori, però, dalle precedenti promesse non mantenute e dalle ritorsioni finite nel sangue, temendo che il Preside potesse farla loro pagare spiegarono il motivo delle loro ribellioni elencando le ingiustizie e le prepotenze usate contro di loro dai nobili: estorsioni, gravami fiscali esorbitanti, non che di non essere pagati dalle fatiche, tenendo non esser l’operaio degno della sua mercede. Ma il Preside, che pur attendeva ordini dal viceré, e non voleva da sé far passo alcuno senza aver prima certezza dei fatti, non altro ad essi promise che imparzialità e debito soddisfacimento. Non trasandò intanto di dare quelle disposizioni e quegli ordini, pei quali evitar si potessero nuovi disturbi.
Il generale Vallis, al cui arrivo i tumulti erano già cessati, nonostante gli fossero stati riferiti già i travagli sofferti, giudicò quanto successo abusivo e, dopo aver preso le informazioni sui capi della rivolta, ordinò che dodici soldati di campagna e cinquanta granatieri tedeschi muovessero nella notte alla volta di Spilinga e Carciadi. “Ma poscia che quei capi, accortisi dal rumore della gente arrivata, non stavansi al tutto spensierati, non si riuscì di fermare per forza se non Giuseppe Zerfino, Antonio Gaetano e Sergio Gatto. I quali, nel mattino seguente condotti dal Preside e dal Caporuota, furono chiamati al costituto, usando di una delle mostruosità delle vecchie leggi, della tortura dei tratti di corda e bastonate. Non piaceva intanto al generale quel lento procedere che egli, rivestito dell’alterego, teneva di potersi permettere il farla da dey e, di galoppo e corsa, senza formalità e procedura, intendeva ire a giustiziarli sulle galere in quel giorno stesso. Però il Preside, che in ciò vedeva un dispotico abuso, si affatigò a mostrare che non potevasi acconsentire, e che, se pure si tenesse procedere ad un modum belli, non potevansi astenere dal necessario informativo e dalle difese… Poscia che fu acconsentito il corso legale della procedura, nel di seguente appresso, i giudicabili chiamati furono per la seconda volta all’interrogatorio e con parecchie tratte delle buone per estorquere il vero, non che dall’esame dei testimoni essendo stato accertato che Zerfino era stato consultore della sollevazione, Gaetano soprantendente delle guardie, e che Gatto aveva assistito Batiale, suo padrino, si accordarono loro le difese per ora.
E dopo un processo sommario, poiché nessuno ne aveva accettato la difesa, Zerfino e Gaetano vennero condannati all’impiccagione, mentre Gatto, minorenne, venne condannato alle galere.
La sentenza venne eseguita nel pomeriggio, i condannati, con l’assistenza dei sacerdoti e circondati dai granatieri vennero condotti al luogo detto quattro pietre nella marina a levante, ove intorno e sulle vicine colline assisteva uno squadrone alemanno, ed ove erano rivolti i cannoni della città e quelli delle galere. Antonio Gaetano, salito pel primo sul palco infame, ad alta voce chiedendo perdono dei falli suoi, venne appiccato per la gola; poscia Giuseppe Zerfino, senza però poter profferire parola. A vedere l’atroce esecuzione, una sciocca curiosità spinse, siccome si è solito, tanti e tanti…
In questo frangente il Preside fa grazia dalla condanna di dividere in quarti i corpi degli impiccati.
Nella sera del susseguente giorno il minorenne Sergio Gatto che fu condannato alla pena delle galere, prima di essere rinchiuso in carcere viene atrocemente frustato ed umiliato per le vie dal mastro di giustizia che, battendolo, grida: «Questo è Sergio Gatto, che si frusta per aver praticato coi ribelli dei casali contro la città».

La rivolta… parte seconda
Per poter capire il ruolo e lo spazio che Spilinga e la sua popolazione ha occupato in tali storici frangenti è importante conoscere le sofferenze inferte a quella misera gente, socialmente e moralmente repressa. I rivoltosi, per deporre le armi, prima venivano allettati con offerte e promesse e poi derisi e scherniti da quella immorale classe dirigente che, scampato il pericolo, non esitava a rimangiarsi la parola data. I capi della rivolta, o ritenuti tali, venivano atrocemente picchiati, torturati e messi alla berlina e poi selvaggiamente giustiziati. La sceneggiata veniva rappresentata con inumana crudeltà perché doveva terrorizzare le popolazioni dei villaggi e serbarne ricordo per gli anni a venire. Sebbene la conclusione d’ogni conflitto fosse sempre uguale, negli abitanti dei casali non veniva mai meno il coraggio e lo sprezzo del pericolo, perché la disperazione era tale da non dare alternative.
La rivolta del 1722 rappresenta, però, l’inizio della fine di quella classe dirigente tropeana che si riteneva impunibile, qualunque fosse l’entità dei suoi misfatti. Il generale Vallis fu sì molto duro con i fautori della rivolta, ma, per la prima volta, non risparmiò neanche i nobili che, a suo parere, ne avevano provocato la causa. Convocò, infatti, l’assemblea e li sferzò, concludendo che in avvenire come venivano puniti i villani per senso di giustizia, al pari venisse punita, qualora mancasse, la nobiltà.
Il Preside ordinò ai due sindaci, agli eletti e ai deputati delle tasse a riesaminare l’iniqua ripartizione nel termine perentorio di tre giorni. Pretese altresì che venissero nominati due deputati dai nobili, due dagli onorati e due dalla plebe col compito di vigilare contro ogni eventuale abuso. Si può immaginare la reazione dei nobili nel vedersi modificati, diminuiti o tolti i goduti privilegi, “ritenendo un abuso l’elezione di una terza classe, la plebe, non potevasi, né dovevasi ammettere perché venivano alterate le patrie costituzioni e i patrii privilegi”. Per una volta a nulla valsero le loro proteste e dovettero, quindi, fare di necessità virtù.
Anche questa rivolta si concluse con la tragica morte dei rivoltosi e, tuttavia tale fu l’eco degli eventi e tale la risonanza che ebbe nella regione che i nostri cronisti, de Sarno e Carissimi, hanno riportato fino a noi le impressioni e gli antefatti di questi terribili eccidi per invocare l’indipendenza dei Casali: “…Ecco quanto ha oprato finora il Tirannico governo de' Sindaci di Tropea contro de' poveri Casalini, a quali non essendo altro rimasto, la vita stessa alle cotante oppressioni de' medesimi bisognarono sagrificare. Fu in vero funesto caso per que' miseri, che dovettero perdere ignominiosamente la vita; ma dalla di loro morte cominciarono a rispirare gli annientati casali; perchè ricorsi al Signor Vicerè, domandarono giustizia per gli Sindaci colpevoli, che della di loro ruina stati eran cagione, e segregazione dalla Città; qual' istanza rimessasi alla Regia Camera, nel mentre tal giudizio proseguivasi; per parte della Città si feron premessi d'accordo, che qui presso soggiungeremo, i quali ancorchè di sommo vantaggio alla medesima si fussero, ed in qualche parte a' Casali, furon tuttavia da' medesimi accettati, credendosi dar con questi, alla futura lor vita civile, stabilimento sicuro”.
Si come i contadini di Parghelia e degli altri casali di Tropea, guidati da Drago, partecipano alla rivoluzione del 1648 contro “l'emarginazione e il sottosviluppo caratterizzando la matrice contadina della rivolta. Insieme ai contadini di Spilinga, Capo Vaticano e degli altri Casali e i popolani di Tropea sono tra i protagonisti di “una guerra contadina, la più vasta e impetuosa che abbia conosciuto l'Europa occidentale nel seicento”.
Analogo vigore mostrano i contadini nel 1722 lottando come quelli del resto del Sud per il “ridimensionamento del potere feudale e per un nuovo equilibrio sociale del regno”. In questa occasione la lotta si volge anche contro un altro avido nemico del contadino: il negoziante usuraio. “E' lui che possiede gli scarsi capitali e se ne serve per sfruttare il contadino fino all'osso. L'odio di questo contadino nei confronti del commerciante è perciò pienamente comprensibile”.
In queste circostanze i contadini ribelli rivelano coscienza dei propri bisogni sociali e una profonda ostilità nei confronti dei nobili e della borghesia agraria concentrati in Tropea. La lotta contro la borghesia agraria risulta dalla consapevolezza che questa è la classe che “cerca di prendere il potere, senza però distruggere i feudatari, ma arrivando ad un compromesso con essi”.
L’indipendenza, avrebbe portato ciascuno a provvedere per sé economicamente e politicamente. Non vi sarebbe stato svantaggio per la Città, ma soprattutto vi sarebbe stata possibilità di giustizia e rivalsa per i Casali, sottratti alla miseria e alla dipendenza di Tropea.
Con la rivolta del 1722 sembrerebbe che le cose avessero preso il verso giusto, in realtà, come dice lo Scrugli, “dispiacevole è qui l’osservare che quanto di pesi, altrettanto di vessazioni tolleravano le comunità, essendo che quelli stessi, che invigilar dovevano, affinché nel regno vessazioni non si commettessero, eran dessi che li commettevano”.
I privilegi del regime feudale praticato nelle campagne da nobili e clero e la sproporzione tra il peso economico della produzione agricola e la scarsa considerazione politica in cui le classi dominanti tengono contadini e artigiani continueranno sia nei confronti delle popolazioni subalterne dei casali sia su quelle di Tropea.

Il XVIII secolo.
Il secolo XVIII è quello che maggiormente ci ha fornito una documentazione mai finora esplorata.
La popolazione di Spilinga, anche se con alti e bassi, continua ad aver un considerevole incremento, l’edilizia prende un aspetto più consistente e si arricchisce di palazzotti signorili, alcuni dei quali ancora ben conservati.
Nell’archivio diocesano di Tropea con le Visite pastorali, ma soprattutto nell’archivio di Stato di Catanzaro con i documenti della Cassa sacra e con gli atti dei notai di Spilinga, e nell’Archivio di Stato di Napoli con la numerazione dei fuochi, con le rivele ed il catasto Onciario del 1759, ho potuto reperire una quantità così abbondante di documenti che mi ha consentito una lettura approfondita di tutta la realtà territoriale.
Minima era la rappresentanza artigianale, debole la borghesia agraria e quasi inesistenti i professionisti.
Dal Catasto Onciario del 1759, infatti, gli abitanti di Spilinga, a parte Carciadi e Panaia, risultano 696: 193 bambini da 0 a 10 anni, 278 donne e 225 uomini di cui 151 bracciali, 51 massari, 16 artigiani, 2 pecorai,3 scolari 1 romito, 8 sacerdoti e soltanto due Magnifici: De Bartolis Pasquale (aromatario) e De Bartolis Paolo( vive civilmente)- Nessun letterato, oltre i preti.
Le chiese officiate si moltiplicarono e l’incremento del clero fu tale da indurre, nel 1761, il Sindaco Domenico De Vita e il parroco Tommaso Pugliese a fare richiesta al vescovo di Tropea dell’istituzione della chiesa collegiata a Spilinga, già descritta.
Ciò ha dato la possibilità alla borghesia rurale di avviare alcuni suoi membri a una ambita carriera ecclesiastica, facendo propri alcuni privilegi della città capoluogo. Queste nuove identità sociali delle aree rurali, tradizionalmente prive di potere giurisdizionale, davano “una nuova consapevolezza di sé come forza politica, avvertita nel passaggio da una condotta di vita schiacciata sulla dimensione del villaggio a uno strutturarsi della convivenza in senso borghese, più vicino ai modelli cittadini”.
Questo fortunoso cambiamento il piccolo borgo di Spilinga lo deve principalmente alle contese tra i vescovi e la nobiltà tropeana. Il vescovo Ibanez risentito ed umiliato perché le promesse con lui concordate per la cessazione della rivolta del 1722 non solo furono disattese ma, come al solito, vennero adottate le crudeli punizioni, eresse, il 20 maggio 1722, ad Arcipretura la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista e il suo successore il Vescovo Gennaro Guglielmini riammodernò la chiesa, 1734-1742.
E In un decreto di Mons. Felice de Paù da Terlizzi, datato 9 febbraio 1767, vengono nominati i canonici nella chiesa Collegiata di Spilinga.
La ripresa della economia fu interrotta dal violentissimo terremoto del 5 febbraio 1783, che durante cento secondi, sconvolse la Calabria producendo rovine e stragi in molte città ed in tantissimi villaggi con la morte di ben trentaduemila persone. Anche Spilinga ebbe i suoi morti e danni considerevoli.

12-La Cassa Sacra.
Il quattro giugno 1784 il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone istituisce a Catanzaro la "Giunta di Cassa Sacra", un istituto a cui è affidato il compito di confiscare, vendere e censurare i beni dei monasteri e dei conventi della Calabria Ultra "con lo scopo precipuo di sollevare le condizioni delle masse degli indigenti calabresi". In realtà anche se costituì un grande beneficio dal punto di vista abitativo per alcune città, venne considerata da parecchi scrittori del tempo un secondo terremoto, in quanto l’immensa valanga di dirigenti convertì ciò che doveva portare benefici “ in una rapina organizzata , in un brigantaggio indegno; tanto ch’è dubbio, osserva il De Fabriciis, se i calabresi soffrissero più della natura o dalla mano dell’uomo”. Ai contadini, che la definirono la “Cassa del diavolo”, portò fame e disperazione perché i terreni confiscati agli istituti ecclesiastici, molto più comprensivi, vennero venduti a signorotti senza scrupoli.
In questo frangente Spilinga, per la laboriosità dei suoi abitanti e grazie al clero locale che ne mantenne in gran parte la proprietà, anche se non subisce il feudalesimo si vede stravolto non solo l’equilibrio economico evidenziato nella lettura del catasto onciario del 1759, ma, a differenza di Carciadi e Panaia dove continuano a predominare i cognomi indigeni, l’indigenità della popolazione di Spilinga viene messa in serio pericolo.
Inoltre le calamità, le distruzioni e la miseria non frenarono la bramosia di nobili e proprietari Tropeani che dalla Cassa Sacra trassero i maggiori vantaggi, ingrandirono i loro possedimenti e continuarono imperterriti a vessare gli abitanti dei Casali. Giuseppe Maria Galanti, infatti, nella relazione del 1792 indirizzata al governo napoletano, tracciò un ritratto particolarmente fosco della classe aristocratica dominante in Tropea, dal quale trapelano i soprusi che essa compie a danno delle plebi rurali, viventi in condizione di miseria.
In quel periodo fuori del nostro territorio e della Calabria il mondo stava cambiando. Per effetto della grande rivoluzione scoppiata in Francia, nel 1789, si verificarono anche in Italia importanti mutamenti. Napoleone interviene in Italia, scaccia gli Austriaci, obbliga alla pace il re di Sardegna, il Papa e l’Austria e costituisce le repubbliche Cisalpina e Ligure. Successivamente anche a Roma venne proclamata la repubblica. Allora il re di Napoli, armato un esercito sotto il comando del generale tedesco Mark, marciò verso Roma per rimettere sul trono il Papa, ma venne sconfitto, nel Novembre del 1798 , dal generale francese Championnet che inseguì le truppe borboniche, entrò in Napoli e proclamò la Repubblica Partenopea, il 23.01.1799.
I principi rivoluzionari francesi entusiasmarono i calabresi che ovunque innalzarono gli alberi della libertà, inneggiando all’uguaglianza e alla fratellanza. Ben presto, però, il popolo si accorse quanto illusoria fosse la libertà concessa dallo straniero, poiché non solo non riuscì a portare apprezzabili frutti di novità, ma neppure a vedere una rigogliosa fioritura. Il mutamento di tanti ordinamenti secolari, l’aggiunta di nuove imposte unì il malcontento del popolo a quello dei baroni e dei preti, favorendo la riconquista del regno da parte dei Borboni.
Dopo l’illusoria vampa di libertà della rivoluzione napoletana del 1799, la breve durata, quindi, della proclamazione della municipalità repubblicana a Tropea, la monarchia fu “rialzata dalla spaventevole santafede, guidata da Fabrizio Ruffo un cardinale d’esecranda memoria, motore di scelleraggini e stragi”, e fu ristabilito per altri sei anni il vecchio regime.
Scrive il Cingari : “Ma la situazione si aggravò di più quando, occupata Napoli e ristabilito il governo regio, fi inviata anche a Tropea la forza regolare. Il popolo della città e della campagna reagì immediatamente, parendogli che lo scioglimento della Guardia Civica e l'invio della truppa regolare null'altro fosse che un raggiro di nobili e di giacobini per odio ai 'villani'. Ristabilito il governo regio fu ordinato lo scioglimento della guardia civica e inviate le truppe regolari, ritenendola un’ennesima mossa dei nobili Tropeani contro i casali: il 31 agosto del 1799, circa trecento villani, seguiti da molte donne, provenienti dai suddetti villaggi, accerchiarono Tropea per saccheggiarla. Il sopravvenuto conflitto si sarebbe certamente risolto a danno dei galantuomini tropeani, se non fosse accorso da Spilinga Antonio Michele(sic! ma Miceli) con un buon nerbo di armati; fu fatto prigioniero un tal Domenico Naso di Brivadi, rimasto ferito nel combattimento, e dalla sua deposizione si conobbero gli accordi 'tra i suoi, la plebe e gli artigiani di Tropea'.
In tutte le occasioni rivoluzionarie (1648, 1722) e durante la rivoluzione del 1799, i contadini dei casali di Tropea rivelano una notevole capacità di collegarsi tra di loro e con nuclei, a volte, consistenti di tropeani - in particolare marinai, facchini, artigiani, ortolani - nella lotta per l'abbattimento del potere feudale.

Ordinanento Amministrativo Francese e nascita dei Comuni.
Con decreto imperiale 30 mar. 1806 Napoleone affida la corona del Regno di Napoli, dichiarato indipendente, al fratello Giuseppe Bonaparte.
Con decreto 2 ago. 1806 viene soppresso il sistema feudale in base al quale tutte le terre del Regno debbono essere governate “secondo la legge comune”; le università continuano ad esercitare in nome del governo giurisdizioni e diritti di cui già erano in possesso e aggiungono le giurisdizioni sottratte ai feudatari.
Con decreto del 19 maggio 1807, nell'ordinamento amministrativo dato alla Calabria dai francesi, Spilinga venne eretta ad Università( comune), Distretto di Monteleone - Circondario di Tropea, e gli vennero assegnati i Villaggi ( Frazioni) di Carciadi, Panaia, Lampazzone, Barbalaconi, Caria, Drapia, Gasponi come risulta dai Registri di Stato Civile del Comune di Spilinga, conservati presso l'Archivio di Stato di Catanzaro.
Con la legge 4 maggio 1811, istitutiva dei circondari e dei comuni, l'università di Spilinga con solo due villaggi, Carciadi e Panaia, viene traslata nel circondario di Nicotera, e, con le restanti frazioni (Drapia, Gasponi ,Caria, Lampazzone e Barbalaconi) viene eretta l'università di Drapia.
Con legge 1.V. 1816, risistemazione Amministrativa Borbonica, il Comune di Spilinga viene defitivamente riportato nel circondario di Tropea con le frazioni Carciadi e Panaia.
I Registri dello Stato Civile Del (matrimoni, nascite e morti) di Spilinga, conservati presso l'Archivio di Stato di Catanzaro, iniziano dalla fine del 1809.
Dal dicembre 1809 a gennaio 1811, nei registri dell'anagrafe del Comune di Spilinga, vengono documentate (matrimoni, nascite e morti) di Spilinga e le sue sette Frazioni: Carciadi, Panaia, Drapia, Gasponi, Caria, Lampazone e Barbalaconi.
Qui di seguito vi allego a titolo documentale un atto dello Stato civile di Spilinga prima del decreto del 4 maggio 1811.













Questo sito web fa uso di cookie tecnici 'di sessione', persistenti e di Terze Parti. Non fa uso di cookie di profilazione. Proseguendo con la navigazione intendi aver accettato l'uso di questi cookie. To find out more about the cookies we use and how to delete them, see our privacy policy.

  I accept cookies from this site.
EU Cookie Directive Module Information