di Milena Milazzo

Si va facendo sempre più urgente il confronto tra le due metà del cielo religioso attraverso la visione che queste danno della speranza, categoria che per il credente si fonde con la salvezza. L’esperienza della speranza non si può cogliere se non attraverso quella del suo opposto, la “di speranza”, quello stato di smarrimento e di mancanza di senso che scaturisce dall’esperienza del dolore universale legato alla morte. Ragioni di disperanza nella nostra epoca sono: la malattia del vivere intrecciata col senso della noia che cerca risposte nella religione dei consumi; la spettacolarizzazione della vita in cui tutte le attese puntano al successo; il nuovo imperativo del “voglio perché mi piace”, che si espande alle relazioni interpersonali divenute anch’esse bene di consumo; un vuoto di pensiero per cui ci si affida al “pensiero unico” preconfezionato, offerto soprattutto attraverso il canale della televisione; e infine, a completare questi motivi di disperanza, la deriva delle religioni, che spesso di fronte alla realtà non sanno che lanciare anatemi oppure attivarsi in una logica di condiscendenza. Risultato di tutto è che l’uomo d’oggi è come anestetizzato, si lascia vivere e non trova risposte di senso.



Eppure è proprio in questo chiaroscuro i cui segni sono confusi come in un’intricata foresta (la foresta dei “sentieri interrotti” di Heidegger), che ogni tanto si apre una radura, un primo passo verso la speranza. Così paradossalmente, nei due testi religiosi forse più significativi dell’Oriente e dell’Occidente rappresentati dalla Prima Nobile Verità del Buddha e dal libro di Qoélet, la visione del dolore universale e della vanità del tutto non fanno che additarci il vero senso della vita nell’ottica dell’uomo: il cercare lo sguardo dell’altro, il prendersi cura dell’hic et nunc, lo spendersi nell’immediato, spostandoci dal nostro centro “verso la frontiera”, ripensando ogni volta i significati in funzione della realtà. È questo investire la mia creatività, il mio poetico, che mi aiuta a riunire i frammenti per ricondurli verso un sentire comune, per sognare e sentire il mondo anche se non lo capisco: questo è il fulcro del messaggio cristiano, ed è anche la logica dell’empatia.

Una pagina di una antica stampa della Bibbia

I sentieri del sacro
Pur con tutte le differenze di pensiero e linguaggio, l’Occidente non può che trarre vantaggio dal contatto con la visione religiosa orientale, che può fornire gli strumenti per comprendere meglio certi aspetti dell’insegnamento evangelico da una prospettiva che, proprio perché diversa, lo rende più denso di significato. La grande figura del Mahatma Gandhi e la sua dottrina della non-violenza scaturita dalla fede induista sono tuttora parte integrante del patrimonio ideale dell’umanità tutta.


Gandhi (1869-1948)

Qualche parola sull’Induismo. Il suo nucleo essenziale ha le sue radici nei Veda (= sapienza), raccolta di inni, preghiere, formule, litanie (mantra) che nella sua forma scritta è antica di tremila anni. Unici depositari ed esegeti dei Veda erano i Brahmini, la casta più alta, che si credeva uscita dalla testa di Dio (Brahma). Il fulcro dell’insegnamento dei Veda è il concetto di dharma, termine che si può approssimativamente tradurre “legge di natura” e che sta per ciò che esiste per sempre e da sempre e in cui è inserito il destino individuale, compreso il sistema delle caste. Ai Veda seguirono i Vedanta, trattati filosofici risalenti a trecento anni prima di Cristo, e le Upanishad, che introducono un monismo panteista. La sola realtà è Brahman (Dio) e Atman (anima). Dio crea il mondo delle apparenze mediante maya, l’illusione. La nostra ignoranza ci fa supporre che l’universo sia una realtà, come chi prende una corda per un serpente. La salvezza è da ricercare nei Vedanta, con l’aiuto di un maestro, la cui ultima visione sarà: “Tu sei Brahman”: si afferma l’identità di Dio e dell’anima, dell’Uno e dell’universo.


Brama (XVII secolo). Questa è una delle iconografie classiche del dio creatore, il quale possiede quattro volti

Nell’altro grande testo induista, la “Bhagavad Gita”, il Canto del Beato, poema inserito nel Mahabarata, sono indicati due percorsi di conoscenza più vicini alla gente. Il primo è il karma marga, il sentiero dell’azione, che in Gandhi ha trovato la sua espressione più alta. Qui karma è l’azione compiuta con distacco, al di fuori del suo fine egoistico e legata al mio individuale destino. In questa luce possiamo comprendere la dottrina del Satyagraha, resistenza passiva, che applica la non-violenza (ahimsa) contro l’ingiustizia e l’oppressione. L’altra strada è il bhakti marga, la via della devozione, che ammette il culto di molte divinità, forme visibili e parziali di un Dio che l’uomo non riesce a percepire.


parte del versetto 20 e l'inizio del versetto 21 del capitolo iniziale della Bhagavad Gita

Il Buddismo radicalizza la visione delle Upanishad e dei Veda: in esso non esistono testi sacri, ma solo i sutra, i sermoni del Buddha (Siddharta Gautama, nato nel 563 a.C.), che dopo un periodo di meditazione raggiunge la bodhi, l’illuminazione, e dedica il resto della vita a raccontare la strada che ha percorso. Questa consiste nella conoscenza del dolore e delle sue cause e nell’individuazione di una via di salvezza. Il discorso di Benares è la sintesi del suo insegnamento. Solo nel radicale vuoto del pensiero si potrà forse incontrare un pieno di significato. Nominare il divino è già fare una mitologia: l’unica cosa che l’uomo può fare è curare la ferita del dolore creato dall’attaccamento alla vita e andare oltre ad esso percorrendo la via del nirvana, in cui l’ego legato al tempo si brucia. L’uomo non può addivenire a nessun tipo di conoscenza ultimativa assoluta se non fa questo salto di qualità che gli permette di superare la sua frammentarietà per cogliere, non per via di ragione ma per intuizione, quella realtà imperitura, assoluta ed eterna che è la sua parte più autentica.


Bodhisatta Gotama in un dipinto custodito in un Tempio nel Laos

Prendiamo ora in esame le tre grandi fedi monoteistiche, ebraica, ebraico-cristiana e musulmana alla luce dei loro testi sacri. Vale qui la premessa che la parola di Dio che si fa linguaggio sottintende un compromesso, un’ambiguità causata dal suo significato elusivo. Il sintagma “Dio è amore” ad esempio, che sembra limpido e unico, per il fatto di fare riferimento ai concetti di Dio-essere-amore suona in modo diverso nei tre contesti. La Bibbia ebraica evidenzia una differenza di base dalla Bibbia cristiana. Mentre in quest’ultima c’è un crescendo interpretativo che partendo dal Pentateuco ha il suo culmine nell’insegnamento di Gesù, nella Bibbia ebraica il criterio è ribaltato. La Bibbia inoltre è per un ebreo lettura ad alta voce: Dio detta la sua volontà in 613 precetti fatti esclusivamente per gli ebrei. Ma la voce di Dio è anche di un silenzio che ha vari livelli. Dio tace sui grandi problemi della sofferenza e del dolore innocente, ma il suo è un silenzio empatico quando il povero grida. C’è però un livello terribile di silenzio, quando Dio tace e basta, come nel libro di Qoélet, uno tra i più inquietanti dell’Antico Testamento.
Diversa è l’ottica del Corano, che è tutto un lungo monologo di Dio che parla in prima persona nelle 114 sure, riversate nelle orecchie di Maometto per la mediazione dell’Arcangelo Gabriele. Qui non vale l’approccio interpretativo della Bibbia, perché Dio parla in maniera chiara e dentro queste parole sta la verità. Va detto che anche per gli ebrei esiste la Torà orale, che dopo la diaspora venne trascritta in 63 trattati e poi commentata: queste due parti sono andate a formare il Talmud. Le contraddizioni cui danno luogo i testi ebraici non mancano neppure nel Corano, dove spesso i precetti contenuti in versetti più tardi vanno ad abrogare quelli di versetti precedenti. Tuttavia il Corano è per il credente sacro e salvifico in quanto rivela la presenza di Dio, e le scuole coraniche insegnano a mandare a memoria e recitare i versetti come una sorta di mantra. E poiché Dio non è rappresentabile che attraverso la voce e la scrittura, la bella calligrafia è arte sacra come il salmodiare in modo perfetto



Lo scandalo della mitezza
Proseguendo nel confronto tra le grandi religioni a partire dai testi sacri, mi è caro riprendere la metafora heideggeriana dei “sentieri interrotti”, quei cammini nel bosco della ricerca umana che sono a un tempo avanzamento e smarrimento. Nel titolo dato a questo capitolo conclusivo, il termine “scandalo” assume l’accezione originaria del greco skandalon e sta per “ostacolo”, inciampo”. In un mondo come il nostro, dove prevalgono i linguaggi forti e perentori diffusi dai massmedia, è la mitezza, da non confondersi con la debolezza, che può aprire nuovi orizzonti a partire dalle differenze, e sono le religioni che possono aiutare a farlo. Mitezza è interrogarsi sul senso, andare verso una teologia pluralistica che si apre alle differenze. Mitezza è dialogo interreligioso che crea empatia, scavalca le differenze, scopre la consanguineità dell’altro. Mitezza è anche abbracciare una teologia “cosmoteandrica”, un’etica ecologica che si apre alla salvezza del mondo e che con la redistribuzione delle risorse sconfigge l’ingiustizia che è alla base di tutti i conflitti. Se mitezza è dare spazio al molteplice, il suo contrario è rincorrere la retorica dell’identità poiché mitezza è assumere coraggiosamente un’ottica storica in cui tutte le religioni si rivelano per ciò che sono state e sono, utopie di rottura e progetti in fieri, sentieri che ci guidano nella foresta della ricerca, crocevia di molte culture e visioni legate dal filo rosso di un contro-pensiero, in un ideale dialogo che rende possibile pensare un mondo in cui le esperienze personali, culturali, religiose possono alimentarsi e supportarsi.


Cristo Pantocratore, 1180-90. Mosaico absidale. Duomo di Monreale (Palermo)

È necessario per questo ridare spazio al linguaggio del simbolico, che è il contrario di quello, muscoloso e categorico, privo di risonanza e creatore di tensioni, che è divenuto la prassi comunicativa dell’oggi. Ed è alla Letteratura dunque che ci si può rivolgere (ed è qui la missione dell’educazione scolastica) per apprendervi la grande lezione della mitezza; è al romanziere israeliano David Grossmann, che trova nell’empatia del dolore la forza di sopportare senza odio la perdita di un figlio in guerra, o al poeta siriano Adonis, che nel linguaggio simbolico e metaforico della poesia crea un ponte tra i significati e spinge a trovare convergenze. Perché se l’irriducibile si pone a livello teologico, è nel campo dell’etica che ci si può incontrare, riconoscendo nell’altro un raggio di verità a cui mi devo inchinare, perché non sono io la verità, che per il credente cristiano è Cristo. Cristo, “mite e umile di cuore” (Mt., 11, 29) non si pone forse nei vangeli come il primo dei relativisti, e sempre in atteggiamento di dialogo?

Questo sito web fa uso di cookie tecnici 'di sessione', persistenti e di Terze Parti. Non fa uso di cookie di profilazione. Proseguendo con la navigazione intendi aver accettato l'uso di questi cookie. To find out more about the cookies we use and how to delete them, see our privacy policy.

  I accept cookies from this site.
EU Cookie Directive Module Information