Agostino Bagnato
PERCHE’ RICORDARE AMATRICE
Ho atteso molti giorni, da quella terribile alba del 24 agosto 2016, prima di decidere di non tornare fisicamente ad Amatrice. Sarebbe stato un dolore troppo forte trovarmi di fronte alla terribile devastazione. Il primo impulso è stato di accorrere, vedere con i miei occhi la tragedia, toccare con mano il disastro. Poi è subentrata la riflessione e la razionalità ha preso il sopravvento. Non avrei portato alcun contributo concreto alle popolazioni. Anzi, sarei stato d’intralcio ai soccorsi e alle opere di sistemazione degli sfollati, aggirandomi smarrito tra le rovine, ammesso che la Protezione civile mi avesse fatto avvicinare.
L’ultima volta ci sono stato circa dieci anni fa con Corrado Barberis e Mario Mioni per visitare alcune aziende agricole e botteghe artigiane per la preparazione di salumi locali, come la mortadellina semplice e quella con il listello di lardo all’interno, a cui è dato un nome colorito, riferito al mulo, quando è presentata “accoppiata” . Non poteva mancare il guanciale del maiale necessario per condire la pasta alla “gricia” e all’amatriciana, piatto tradizionale che ha reso celebre nella gastronomia internazionale la città. E’ stata anche l’occasione per visitare Sommati e soprattutto Cancelli e Cornillo Nuovo, frazioni sotto la diga del lago di Campotosto che costituisce un pericolo permanente per la vallata e l’intera conca. E invece è stato il terremoto a provocare morte e devastazione.
Non potevo tornarci. Una tragedia di quelle proporzioni nessuno poteva aspettarsela. Il campanile segna l’ora fatale: 3,36. Resterà impressa in eterno nella nostra memoria. Ho chiesto a Salvatore Miglietta di dipingere quel campanile con l’orologio in prima vista e il crocefisso sospeso per aria come si è visto durante i funerali delle vittime. Quella torre antica ha resistito al terribile urto del sisma, probabilmente, perché era stata “trattata” con i tiranti di ferro imposti in molte zone dopo il terremoto di Avezzano del 1915. Quante case ho visto attraversate da quei tiranti evidenziati da una presa a forma di X o di Y, oppure da un bullone d’acciaio di forma rotonda come fosse una decorazione. Da bambino osservavo a Caria, in Calabria, quelle strane figure sulle mura delle case e il nonno mi spiegava che si trattava di misure di sicurezza, per evitare che le case crollassero in presenza di un terremoto. Quelle catene servivano per tenere legati l’uno all’altro i muri in pietra e calce, riguardanti abitazioni tardo medievali, rinascimentali e del periodo barocco. Dopo il terremoto del 1783 che ha provocato terribili devastazioni nell’Italia meridionale, re Ferdinando IV di Borbone aveva imposto che le abitazioni non dovessero superare i due piani. A Caria soltanto il campanile della chiesa svettava sui tetti delle case, ed era giustamente protetto dai tiranti di ferro apposti negli anni successivi. Poi è giunto il cemento armato e sulle mura antiche, fabbricate con pietra e calce, sono stati stesi pesanti cordoli di cemento armato che hanno schiacciato le strutture. Il terremoto dell’Umbria nel 1997 ha messo in evidenza questa pratica negativa. Una vela della volta nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, con affreschi di Cimabue, era crollata dopo le prime scosse perché era stato effettuato un restauro impiegando travi e cordoli di cemento armato al posto dei tradizionali tronchi di legno: il peso e la rigidità avevano provocato il disastro, causando anche quattro vittime.
Ho cercato tra le mie vecchie carte. Una foto mostra Gero Dalayden, responsabile FEOGA della CEE, accompagnato dal suo collaboratore Franco Janniello, in visita ad Accumoli, Amatrice e Cittareale nel 1979. Che ci stavano a fare i responsabili della Commissione Europea per l’Agricoltura, venuti dalla lontana Bruxelles, nelle località dove si era verificato un terremoto che aveva provocato gravi danni alle strutture, ma per fortuna nessuna vittima? Erano venuti per concordare con la Regione Lazio un piano d’intervento infrastrutturale per il settore agricolo, proprio in conseguenza del terremoto. L’Hotel Roma di Amatrice era stato inaugurato da poco tempo e l’ospitalità era perfetta. In qualità di assessore all’agricoltura avevo organizzato e coordinato quella visita che ha prodotto risultati rilevanti per la viabilità rurale, le strutture zootecniche, gli impianti di trasformazione agro-alimentare. In quella occasione, d’intesa con la Comunità Montana del Velino, fu deciso di realizzare un caseificio sociale ad Amatrice, affidato alle competenze dell’Ersal, Ente di Sviluppo Agricolo del Lazio.
Sono trascorsi quasi quarant’anni da quella data. Non ci sono più numerosi protagonisti di quella stagione politica, da Maurizio Ferrara, vice presidente della Regione Lazio; Severino Angeletti, sindaco di Amatrice e consigliere regionale; Leda Colombini, assessore agli enti locali; Giuseppe Casoria responsabile della produzione zootecnica in Regione; Anselmo De Luca responsabile della politica infrastrutturale e originario proprio di Amatrice. Di Giuseppe Bellini, presidente della Comunità Montana del Velino non ho saputo più nulla da molti anni, come di tanti altri dirigenti politici, sindacali, tecnici. Sono tornato altre volte ad Amatrice e dintorni per incontrare pastori, agricoltori, ristoratori. Ogni volta era una grande emozione tornare alla storia di quei territori. Giuseppe Casoria, che era anche un valente pittore ed esperto di arte, mi parlava di Nicola Filotesio, ovvero Cola dell’Amatrice e della sua importanza nel primo Rinascimento romano. Così mi sentivo fiero per quanto avevo potuto fare per la cooperativa “Rinascita” costituita da giovani di Accumoli. Antonio Valentini, giovane coraggioso e intraprendente, originario di Illica, aveva deciso di riunire i giovani del luogo e di indirizzarli all’allevamento del bestiame, rivendicando l’assegnazione alla cooperativa dei pascoli appartenenti al demanio comunale e statale. Ho visitato l’ultima volta la sua abitazione, l’ovile, la stalla e il caseificio a Illica; poco lontano, ad Arquata del Tronto, si trovavano il negozio di carni ovine e la bottega dei formaggi. Tonino non è più giovane, ma ha sempre l’entusiasmo e la forza di guardare avanti. Il terremoto ha provocato devastazioni tremende ad Illica, ma ha salvato la sua famiglia. Non vuole arrendersi. Come dargli torto!
Perché raccontare tutto questo? Per vanità, mal riposto orgoglio, nostalgia, dolore? Non lo so… L’Italia è questa: un grande punto interrogativo, sempre! Non sai mai come reagisce nei momenti cruciali della sua storia, anche se ha dato prove luminose ed eroiche. E’ vero, ci sono molti lestofanti e moltissimi cialtroni, ma a fare bene il conto ci sono le persone per bene che fanno la maggioranza della popolazione, che si stringono attorno a coloro che hanno bisogno, che soffrono, che sono stati colpiti dalla tragedia del momento. Lo dimostra ancora una volta la gara di solidarietà verso le popolazioni colpite nel triangolo Amatrice-Norcia-Arquata del Tronto, crocevia di tre regioni cruciali: Protezione civile, Croce rossa, Carabinieri, Polizia di Stato, Vigili del Fuoco, Volontari. Un esercito di anonimi eroi che hanno salvato circa 300 vite umane, soprattutto bambini, estraendoli dalle macerie. Senza di loro il bilancio delle vittime sarebbe stato molto più elevato e a piangere sarebbero molte più famiglie.
Ma si può continuare così?
CENNI STORICI
Amatrice oggi conta una popolazione di 2.650 abitanti, secondo i dati dell’ultimo censimento, a cui bisogna detrarre le tante vittime del terribile sisma, tra cui numerosi bambini. Non è un borgo molto esteso nel nucleo principale, perché da molto tempo i suoi abitanti sono sparsi in numerosi agglomerati. La ragione di questa diffusione edilizia sul territorio è probabilmente dovuta alla natura montana del suolo e al fatto che i terreni coltivati sono separati e lontani uno dall’altro, a mala pena collegati da qualche sentiero alpestre e da poche strade. Tuttavia, la popolazione sparsa nei circa sessanta borghi che costituiscono il comune di Amatrice è ancora oggi scarsa. Guardando ai dati della popolazione nel tempo, si comprende l’evoluzione dell’economia amatriciana e dell’intera conca. Nel 1532 gli abitanti stimati erano circa 6.000 dopo la devastazione ed il saccheggio perpetrati dall’imperatore Carlo V; nel 1561 sono passati a 10.500 per l’ingrandimento del territorio sotto il feudatario Alessandro Vitelli; ma un secolo dopo si dimezza a causa delle gravi discordie dinastiche dei regnanti e feudatari, raggiungendo la cifra di circa 5.000 unità. Gli abitanti resteranno attorno a questo numero per tutto il periodo in cui Amatrice è stata parte del Regno di Napoli. Infatti, nel 1861 il primo censimento della popolazione del Regno d’Italia dà un totale di 5.725 abitanti che sale a 6.463 nel 1881 e a 7.002 nel 1901.
Secondo gli storici, tuttavia, a queste cifre relative all’Italia unita, bisogna aggiungere da due a tre mila abitanti, per raggiungere la cifra effettiva e comunque legale, perché il censimento è fatto d’inverno, quando la popolazione che dimora stabilmente in paese e nei borghi è minore. Infatti sono i mesi della transumanza, allorquando le greggi sono condotte lungo i tratturi verso la Campagna romana e nelle vallate che discendono verso il mare Adriatico. Chi non ricorda i versi di Gabriele D’Annunzio:
Settembre. Andiamo è tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare,
vanno verso l’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti alpestri
ché sapor d’acqua natia
rimanga nei cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
Oh voce di colui che primamente
conobbe il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral
cammina la greggia.
Senza mutamento è l’aria
e il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori,
ah perché non son io coi miei pastori?
E’ appena il caso di ricordare che Amatrice e i paesi vicini facevano parte degli Abruzzi, come si chiamavano al tempo di D’Annunzio. I pastori tornavano a primavera inoltrata sulle montagne in cerca di pascoli freschi e di aria salubre. Questi borghi si trovano nei punti strategici della transumanza. La particolarità del paesaggio e l’importanza nella storia del territorio, nella cultura e nelle tradizioni, oltre che nell’economia di vastissime aree, hanno fatto sorgere la richiesta di riconoscimento dell’Unesco come patrimonio dell’umanità.
Da dove nasce questa storica tradizione? Essa è parte integrante dell’economia agraria dell’Italia centro-meridionale e si integra con le strutture fondiarie che hanno dato vita e sorretto per molti secoli la natura latifondistica delle campagne meridionali. Ancora oggi la transumanza è praticata nella Campagna romana e nel Tavoliere pugliese, con forme profondamente diverse rispetto al passato. Ai tratturi sono stati sostituiti i camion che in poche ore percorrono la distanza tra i pascoli di pianura e quelli montani, a primavera e in autunno. Immutata resta la pratica dell’allevamento tra stazzi e ovili, come quella della monta, della figliatura, dell’allattamento e poi della sbacchiatura, ovvero della sottrazione alla pecora adulta dell’agnellino, chiamato abbacchio nella Camagna romana, destinato alla macellazione. Alla mungitura manuale, ancora largamente praticata nei piccoli allevamenti, si è andata sostituendo quella meccanica. La produzione del formaggio pecorino, vanto della tradizione più antica, da pecus, realizzato dopo la raccolta della mitica ricotta, non avviene più in campagna, all’aria aperta o nei rustici casolari quando non nelle capanne o nelle lestre, ma per legge nei moderni caseifici controllati rigorosamente dalle autorità sanitarie, pena il divieto dell’attività casearia, l’impossibilità della vendita sul mercato locale e soprattutto dell’esportazione. I pastori abruzzesi e reatini sono stati sostituiti in un primo tempo, verso la seconda metà del secolo scorso, da contadini provenienti dai paesi dell’Europa centrale e orientale e con il passare del tempo da indiani e pachistani. Il pastore armato di lungo bastone per tenere a bada le pecore, il grande ombrello dal manico di legno a tracolla, parla al gregge in serbo, romeno, albanese, ucraino, indi, pastum. E le pecore comprendono questo nuovo linguaggio, come i lanosi cani da guardia, i leggendari maremmani dall’ampia letteratura e dalla vistosa rappresentazione pittorica. Non si tratta di aspetti folcloristici, ma di elementi importanti di un paesaggio economico che non deve scomparire, pena la decadenza inarrestabile di molti territori. Non è vano affetto a stereotipi di sociologia rurale, quanto tenere aperti gli occhi su realtà che, scomparendo, farebbero perdere identità e carattere ad interi territori, in montagna come in pianura.
Ma l’eredità di quel paesaggio economico è data dai borghi sparsi nelle montagne dell’Italia centrale, a cominciare dall’Abruzzo. In effetti, «per il fatto di essere localizzati su sproni e ripiani dei contrafforti montani, donde partono i tratturi per i pascoli alti, hanno un’antica vocazione silvo-pastorale».[1]
Tuttavia, questo assetto fondiario deve avere radici e ragioni antichissime. Gli insediamenti arcaici nelle terre attraversate dalle popolazioni etrusche, sabine, eque e picene risultano scarsi. Gli scavi archeologici condotti fino ad oggi non hanno dato rilevanti risultati per la zona di Amatrice e dintorni. La conquista romana assegnò il nome di Summa Villarum alla conca di Amatrice, ovvero alla tipica vallata che conosciamo oggi e alla cui base c’è il lago di Scandarello e alla sommità il lago di Campotosto, entrambi risultato di sbarramento dei fiumi locali con dighe artificiali per alimentare le centrali elettriche. Scrive lo storico Anton Ludovico Antinori nel XVIII secolo che il nome Sommati dato alla frazione più alta della zona deriva da quella Summa Villarum che i Romani dettero alla località. Egli precisa che «Geograficamente questa villa è così detta perché situata in luogo più alto, quasi una Summa Villarum… Si direbbe in italiano villa posta alla sommità delle altre».[2]
Il nome Amatrice è incerto. Secondo alcuni deriverebbe dal latino Mater Truntis, dal fiume Tronto che attraversa il territorio sul lato occidentale. Da qui la trasformazione medievale in Matrice e successivamente nel nome attuale.
La lunga colonizzazione romana non ha prodotto sostanziali mutamenti al territorio, privilegiando il paesaggio del saltus, ovvero la destinazione a pascoli naturali delle zone libere e a boschi il restante territorio. Eppure quelle zone erano attraversate dalla via del sale, quella via Salaria che da Roma conduceva alla costa adriatica ed era uno strumento di controllo militare molto importante. Era la strada che legava Roma, non più capitale dell’impero, alla città di Ravenna, i cui legami con Costantinopoli erano molto stretti e fondamentali per la sopravvivenza della stessa antica città. Di conseguenza, è legittimo pensare che ci fossero insediamenti sparsi fiorenti, anche per ragioni logistiche e militari. L’invasione longobarda nel 568 non produsse alterazioni economico-sociali rilevanti, fino all’inizio dell’incastellamento da parte dei nobili romani e dei funzionari del Ducato di Spoleto. Bisogna ricordare che nel frattempo sorsero le prime abbazie benedettine, di cui Farfa fu una delle più importanti per l’economia del territorio. I suoi possedimenti erano molto estesi e i monaci esercitavano un potere molto forte che finì per scontrarsi con gli interessi dei conti e dei marchesi locali. Il Regesto di Farfa, che va dall’VIII al XII secolo, riporta i nomi delle località presenti sul territorio e tra esse nel 1012 indica quello di Matrice. Cosa significhi questo nome non si può dire con sicurezza. Ma il territorio dove sorge l’attuale Amatrice era passata nei secoli precedenti al Comitato di Ascoli, ovvero alla contea infeudata al vescovo locale. Infatti, nel 1037 l’imperatore Corrado II conferma l’assegnazione del villaggio con quel nome al vescovo di Ascoli, a riprova che gli insediamenti lungo l’antica via Salaria avevano una importanza strategica per il controllo del territorio.
Nel 1265 Amatrice entra a far parte del regno di Sicilia, al tempo di Manfredi, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia. Ma la popolazione non accettò l’occupazione francese dell’Italia meridionale e si ribellò più volte al potere angioino, manifestando la volontà di tornare sotto la potestà del vescovo di Ascoli e successivamente nello Stato della Chiesa. Tra il 1271 e il 1274 Carlo I d’Angiò fece reprimere la resistenza delle popolazioni sommatine che guardarono con grande simpatia all’arrivo degli aragonesi dopo i fatti dei Vespri siciliani. Ma il vero salto di qualità nella ricerca di una propria identità, la popolazione di Amatrice lo compì nella lotta contro i baroni che esercitavano un potere esorbitante sul piano economico oltre che su quello giudiziario. Sull’esempio di molti altri territori, si formò la Universitas, ovvero l’associazione del popolo per la gestione del bene comune e del demanio fondiario, compreso pascoli e boschi, corrispondente al comune delle località settentrionali della penisola. E’ questo, infatti, il primo passo verso la costituzione del Comune, che porterà alla gestioni del bene comune, sotto forma di concessione o beneficio di volta in volta del re di Napoli, secondo quanto previsto dalla legislazione feudale e dalle consuetudini del tempo.
Sono questo anni decisivi per lo sviluppo della città. Amatrice gestisce sotto la giurisdizione tutti i castelli del Comitato di Rieti sulla sinistra del fiume Tronto e quelli sul territorio denominato Sommatino che va da Campotosto a Cittareale. La sua importanza è data anche dalla partecipazione alle Crociate e per questo motivo lo stemma del Comune porta la croce come segno distintivo.
Tra il XIV e XV secolo si accendono aspre contese tra Amatrice e Norcia per problemi di confine e di controllo del territorio. Il demanio regio è la più importante fonte di alimentazione del bestiame ovino e per la pastorizia. Bisogna ricordare che il sistema agro-pastorale non fornisce soltanto latte, formaggi e carni, ma lana per la tessitura e la cucitura di indumenti, preparazione di materassi e altri materiali per la casa, alimentando così l’economia indotta della cardatura e del telaio. Le pelli di animali ovini, equini e bovini sono una fonte importante per il commercio della zona, rivolto verso Roma e Napoli, a seconda dei versanti d’influenza delle zone amministrate. Nello stesso tempo Amatrice, forte del suo prestigio, è stata sempre a fianco di Ascoli Piceno contro L’Aquila e Arquata del Tronto. I dissidi con quest’ultima località sono fondamentalmente legati a problemi di diritti di pascolo e legnatico sui terreni contermini, dovuti alla promiscuità prevista dagli antichi ordinamenti feudali. Andrea Fortebraccio da Montone, uno dei capitani di ventura più celebri del tempo, comandò i mercenari amatriciani e ascolani nell’assedio di Aquila nel 1424 e perì nella battaglia finale nel giugno dello stesso mese.
Ma la situazione geopolitica era cambiata. Amatrice continuò a sostenere gli aragonesi nella lotta contro gli angioini e nel 1485, domata la rivolta del baroni in tutto il regno di Napoli, anche con l’apporto di truppe mercenarie come la soldataglia dell’albanese Giorgio Castriota Skanderbeg, signore di Kruje, re Ferdinando ricompensò Amatrice con il privilegio di battere moneta e di apporre sul conio il motto Fidelis Amatrix, rimasto ancora oggi come segno del successo e del potere della città sommatina. Ma il giovane imperatore Carlo V non tenne conto delle prestazioni passate degli amatriciani al Sacro Romano Impero e nel 1529 inviò un esercito agguerrito, al comando del generale Filiberto di Chalon, per piegarne la resistenza eroica e imprevista. La città fu devastata e distrutta. La popolazione decimata.
Inizia il periodo più turbolento nella storia di Amatrice, legato al destino del Regno di Napoli passato sotto il controllo della Spagna come Vicereame. Nel 1538 Carlo V concede il territorio sommatino ad uno dei suoi capitani, Alessandro Vitelli, al pari di quanto succederà alla grande maggioranza dei territori nell’Italia meridionale. Ai baroni prepotenti e violenti si sostituiscono mercanti e banchieri genovesi, pisani e catalani che prestano ingenti somme di denaro alla corona di Spagna in cambio dell’infeudamento di vasti territori. Di fatto nasce una nuova forma di servitù che porterà numerose rivolte popolari (chi non ricorda quella calabrese capitanata da Tommaso Campanella!) e alimenterà il triste fenomeno del brigantaggio e della fuga sulle veloci feluche dei pirati turcheschi, ponendosi al servizio della Sublime Porta.
Tra il 1582 e il 1692 Amatrice fu sotto il controllo della famiglia Orsini. Ma la danza dei passaggi da una dinastia all’altra è soltanto all’inizio, perché matrimoni e successioni portano la città sotto gli Stati medicei farnesiani di Abruzzo come patrimonio del re di Napoli, duca di Parma inizialmente e poi titolare della corona napoletana con il nome di Carlo III, per finire al palazzo dell’Escurial come re di Spagna. Da quella data non ha più subito nuovi assoggettamenti, in quanto il territorio di Amatrice è rimasto stabilmente all’interno dei confini stabiliti.
Sono gli anni che aprono la speranza per riformare la feudalità, di fronte allo stato di profonda arretratezza del regno unificato. Lo storico Giorgio Candeloro presenta un quadro preciso della situazione: «Quando nel 1734 Carlo di Borbone si insediò a Napoli come re, il Regno era ancora un paese essenzialmente feudale. Infatti, non solo su circa duemila università (comuni) allora esistenti, soltanto poche decine erano soggette alla giurisdizione regia e tutte le altre erano sottoposte alle giurisdizioni baronali, ma erano di tipo feudale i rapporti di produzione prevalenti nelle campagne».[3] I propositi riformatori del re e del suo successore Ferdinando IV si scontrarono con resistenze insormontabili. Le speranze furono ben presto fiaccate. Lo storico napoletano Pietro Colletta, negli anni Venti del XIX secolo, scriveva: «Si confortarono per tante pacificazioni le genti di Europa (Pace di Aquisgrana, 1748, nda), ed il re più intese alle nazionali riforme. Stando all’animo di lui e nella mente del suo ministro Tanucci l’abbassamento della feudalità, con prammatica del 1738 aveva tolte a’ baroni molte potestà, che poi riconcedè nel 1744 a ricompensa de’ servigi nella guerra di quell’anno. Col passare del tempo intiepidiva la improvvida gratitudine, ma sino alla pace di Aquisgrana non si arrischiava di scontentare la parte più potente dello Stato. Ed oltraciò i redditi baronali, benché di non giusta o di strana origine, erano sì tenacemente intrinsecati nelle consuetudini, che annientarli sarebbe apparsa ingiustizia per fino a coloro che ne avrebbero goduto. Perciò il re il Tanucci, non toccando agli interessi dei baroni, terre, entrate, diritti e proventi, ne depressero l’autorità; e rivocando molte giurisdizioni, soggettando ad appello le sentenze de’ giudici baronali, diminuendo il numero degli armigeri, prescrivendo regole a punirli, snervarono il mero e misto imperio, principale istromento della baronale tirannide. Poco appresso furono abolite molte servitù personali, quindi per legge stabilito di non mai concedere nelle nuove o rinovate investiture de’ feudi la criminale giurisdizione. Si dichiararono con altra legge incancellabili dal tempo le ragioni delle comunità sopra le terre feudali, si concitarono litigi; e i giudici, stando nelle città sotto gli occhi del re, lontani della potenza de’ baroni, in mezzo a secolo di franchigie, sentenziavano raro o non mai a danno de’ comuni. Alle quali giustizie Carlo unì le arti di governo, invitando i maggiori baroni alla corte, e trattenendoli per lusso e vanità… Era tempo felice a’ sudditi ed al re; le oppressioni vicereali dimenticate, le baronali alleggerite, certa la pace, avventurosa di molta prole la reggia, il vivere abbondante, le opinioni de’ reggitori e del popolo concordi. Piccolo numero di sapienti, amanti di patria e di novità, era unito al governo, però che le riforme di Carlo giovavano alle libertà universali; ed il passaggio della monarchia da feudale ad assoluta, vedevasi come età necessaria della vita delle nazioni. Lo studio perciò de’ re, l’interesse de’ popoli, le speranze de’ novatori miravano e correvano al punto istesso. Solo il clero e i baroni avevano scopo diverso; ma quello mordeva segretamente il freno aspettando l’opportunità di spezzarlo, e questi per ignavia e vota superbia, si rallegravano de’ titoli e fregi che il re largamente dispensava».[4]
La Repubblica partenopea del 1799 assegna alla cittadina di Amatrice un ruolo importante nell’amministrazione del demanio e re Gioacchino Murat, ridisegnando la struttura amministrativa del Regno di Napoli, nel 1809 inserisce la città nel circondario di Cittaducale.
Con l’unità d’Italia inizia una fase nuova per l’intero territorio. Il primo atto è quello della vendita dei beni ecclesiastici che non ha risparmiato le chiese, anche se opposizioni e ricorsi giudiziari ne hanno limitato la portata. Le vendite ecclesiastiche hanno favorito le famiglie locali più introdotte nel nuovo ordinamento politico. Anche il demanio pubblico subisce un ridimensionamento in virtù dell’applicazione della legge sulla liquidazione degli usi civici, dando anche qui origine a contenziosi che si trascineranno per molto tempo. Tuttavia, Amatrice è investita in modo limitato dal fenomeno, perché la proprietà demaniale è gestita in modo condiviso dalla popolazione.
Nel 1927 viene disegnato il nuovo ordinamento amministrativo provinciale. Il progetto dovrebbe tenere conto, nella definizione dei confini, della storia di ciascun territorio. Non è impresa semplice, modellare i confini di ciascuna Regione, anche se lo sforzo è di ancorarsi alla tradizione augustea, avendo l’Italia subito nei secoli successivi, dominazioni che hanno comportato smembramenti e disaggregazioni territoriali durate fino all’unità d’Italia.
Amatrice è anche un esempio, avendo subito i passaggi di infeudamenti già visti. Cosa fare? Consegnare definitivamente il territorio amatriciano all’Abruzzo, oppure destinarlo alla provincia di Ascoli secondo antiche aspirazioni? Oppure propendere per rafforzare i legami con Norcia e l’Umbria? La soluzione più giusta è quella adottata dal legislatore: legare indissolubilmente Amatrice al Lazio e a Roma in particolare, dove si sono proiettate le principali attività economiche degli amatriciani, dall’agricoltura al commercio. La gestione delle osterie e delle locande è un altro dei capitoli di questa penetrazione degli amatriciani a Roma, parte rilevante dello sviluppo di queste attività fino ai nostri giorni. In tutto l’Agro romano le famiglie provenienti dall’alta valle del Tronto sono ancora oggi numerosissime e la loro presenza nelle attività imprenditoriale è molto forte.
LA TRANSUMANZA
Quando inizia questa antichissima pratica di pascolo è impossibile accertarlo. La sua diffusione in tutta l‘Italia centro-meridionale è la conseguenza della natura del suolo e della struttura socio-economica. Lo storico inglese Arnold Joseph Toynbee fa risalire la transumanza alla desertificazione seguita alle devastazioni di Annibale nel corso della campagna militare contro Roma. Ma si tratta di una interpretazione arbitraria. Le fonti romane consentono di avere un quadro sufficiente sull’allevamento bovino e ovino e sugli spostamenti degli armenti e delle greggi negli ultimi secoli della Repubblica. Ma è altrettanto vero che nei secoli precedenti l’assetto agro-pastorale dovesse rispondere alla natura del territorio. Del resto la documentazione archeologica disponibile consente di affermare, studiando i reperti ritrovati lungo i tratturi più antichi, chiamati calles dai romani, e le attestazioni del culto preromanico dell’Ercole italico, che le strutture agro-pastorali e la transumanza erano presenti nella comunità italiche in età antichissima. Semmai, dopo l’invasione cartaginese, non essendoci una un’agricoltura contadina né in montagna né in pianura, si sono resi disponibili grandi spazi per creare un nuovo assetto fondiario.[5] Marco Terenzio Varrone si dilunga nella sua celebre opera De re rustica (II, 1, 16) nel descrivere la pratica della migrazione stagionale delle greggi dalla pianura verso la montagna nella stagione estiva (monticazione) e verso le pianure per svernare (demonticazione): «Itaque greges ovium longe abigintur ex Apulia in Samnium aestivatum…» (Pertanto le greggi sono condotte lontano nei mesi estivi dalla Puglia nel Sannio, previa dichiarazione agli agenti del fisco).
Comunque, a volere essere precisi, la migrazione degli armenti non è nata nell’«umile Italia» di Virgilio e di Dante, ma ha origini antichissime nelle regioni del Caucaso e dell’Asia minore, come racconta la stesso Strabone. Del resto, l’allevamento degli ovini è una delle condizioni fondamentali della creazione delle prime forme di civiltà arcaica e dell’economia agraria protostorica. A ben guardare la realtà odierna di alcune regioni italiane, pur nelle condizioni strutturali profondamente mutate, ci si accorge che i presupposti basilari sono quelli di dieci mila anni fa.
Per venire a tempi più recenti, si può affermare che senza l’allevamento degli ovini nelle forme che determinano e caratterizzano la transumanza, non ci sarebbe stata un’economia agraria statica nello Stato pontificio e nelle regioni meridionali. Altre motivazioni sono quelle legate alla pastorizia nella Sardegna dei giudicati e poi del periodo piemontese.
L’importanza della transumanza nell’economia dell’Italia centro meridionale è stata tale da assurgere a vera e propria istituzione giuridica. Alfonso I d’Aragona istituì nel 1447 la Regia Dogana della Mena delle Pecore di Foggia, durata fino al 1806, quando venne soppressa da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, come struttura dell’ancien régime, nell’ambito delle misure di eversione della feudalità. Lo scopo era di regolamentare e controllare il movimento delle pecore e dei pastori, trattandosi all’epoca di una massa imponente di uomini e animali. Si calcola che si spostassero regolarmente lungo i tratturi oltre tre milioni di pecore e circa trenta mila pastori. Gli aragonesi avevano in animo di sviluppare l’allevamento ovino per ottenere una forte dotazione laniera. L’obiettivo era di contrastare il dominio di Spagna, Fiandre, Inghilterra nella produzione e nel commercio di tessuti. L’esperienza positiva dell’allevamento del baco e della produzione della seta lasciavano ben sperare, ma le condizioni per la crescita dell’industria tessile erano molto differenti. Il progetto dei sovrani aragonesi non dette i risultati sperati e anche i successivi viceré spagnoli non raggiunsero lo scopo. Lo stesso si può dire per i tentativi di riforma avviati di Borbone, sopraggiunti con Carlo III alla reggenza vicereale spagnola. Il risultato ottenuto è stato quello di bloccare per secoli l’economia dei territori interessati al pascolo e all’allevamento ovino, alimentando il latifondo e l’assenteismo imprenditoriale.
Nel 1590 venne istituita la cosiddetta Doganella d’Abruzzo, durata anch’essa fino al 1806. Lo scopo era di avere un presidio di partenza delle greggi, al fine di ottenere un maggiore controllo da parte della autorità che lucravano la tassa sulla transumanza. Si calcola che nel XVII secolo le pecore sottoposte agli spostamenti dai pascoli montani a quelli di pianura e viceversa toccassero il numero di cinque milioni e mezzo. La manutenzione dei tratturi era di fondamentale importanza, sia per consentire il passaggio delle greggi sia per il controllo. Si tenga presente che la Dogana era una vera e propria istituzione, con leggi proprie e agenti diretti, autorizzata ad esercitare anche la giustizia ordinaria per reati attinenti la transumanza o verificatisi durante l’esercizio della stessa. La legge 2 agosto 1806 sull’eversione della feudalità, all’art. 1, recitava che la feudalità era abolita e che tutte le giurisdizioni, compreso quelle baronali, erano reintegrate alla sovranità del re.[6] La conduzione agraria latifondistica era così radicata che nello stesso stato della Chiesa, più che altrove, i tentativi dei pontefici di obbligare il dissodamento dei terreni e di procedere alle semine è sempre fallito. Il primo a provarci è stato Sisto IV nel 1475, poi Clemente VII nel 1523 e dopo due secoli e mezzo di attesa Pio VI con il celebre motu proprio del 5 febbraio 1783. Perché la volontà papale si è scontrata con la dura resistenza dei feudatari che dal Papa avevano ottenuto quei terreni e al quale dovevano, almeno formalmente, rispondere? Corrado Barberis chiarisce con estrema precisione le ragioni di questa vincente resistenza al progresso rurale: «Perché il pascolo fosse preferito alla semina e le pecore all’uomo, la ragione è evidente: rendono di più»[7]
La Camagna romana e soprattutto il vasto territorio attorno a Roma noto come Agro romano, presentavano un aspetto desolante di abbandono e di miseria. Era il regno della ginestra, protestato da Giacomo Leopardi nella sua celebre ode del 1836 e del pascolo destinato a nutrire greggi e armenti.
… Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
Che fu donna de’ mortali un tempo
E del perduto impero
Par che col grave e solitario aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.[8]
Era il latifondo pontificio che più a nord, nella Toscana medicea e poi lorenese, si connaturava come Maremma. Entrambi i territori erano malarici e soggetti a pericoli per l’incolumità dei pochi abitanti, a cominciare dai pastori. Questa situazione si protrarrà fino all’inizio del Novecento, quando il programma di lotta alla malaria comporterà l’avvio della prima bonifica, mentre il latifondo sarà in parte spezzato soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, con la riforma fondiaria avviata dall’Ente Maremma.
Terreni, armenti e greggi erano di proprietà dei nobili feudatari; molto spesso erano concessi in affitto a mercanti di campagna, imprenditori agricoli ante litteram, intraprendenti e speculatori. Pittori, scultori, disegnatori, italiani e stranieri, hanno lasciato testimonianza encomiabile di questa desolazione, al pari di scrittori, storici, economisti. Se Francesco Paolo Michetti ha lasciato un segno fotografico e pittorico dei territori abruzzesi, Giuseppe Primoli ha trasmesso lo stato dell’Agro romano all’inizio del Novecento. Nessun artista importante si è spinto fino ad Amatrice per raccontare le meraviglie naturalistiche e ambientali dei Monti Sibillini. Strade impervie e precarie strutture di accoglienza ostacolavano il viaggio tra le montagne. Sarebbe stata una testimonianza di grande effetto avere i viaggiatori del Grand Tour tra le valli i boschi e le vette di quella catena appenninica. Restano tuttavia testimonianze fotografiche di amatriciani, raccolti in libri di ricordi, che sono un prezioso documento storico, economico, antropologico, sociologico.
Al contrario, fiumi d’inchiostro sono stati consumati sulla transumanza e schiere di pittori si sono adoperati per illustrare il fenomeno nelle sue implicanze naturalistiche e ambientali nelle zone più accessibili. Si tratta di un aspetto importantissimo nella storia dell’economia agraria italiana che ha favorito l’assenteismo padronale e il mantenimento del latifondo per lunghi secoli, impoverendo territori e popolazioni, a vantaggio di poche famiglie nobili e successivamente di mercanti di campagna, ovvero di imprenditori agricoli che gestivano le terre latifondistiche. Molti di questi erano in origine pastori. Nell’Ottocento e nel Novecento, per limitarsi al Lazio, molti mercanti di campagna sono proprio originari di Amatrice, Borbona, Cittareale, Antrodoco, Leonessa e con la loro intraprendenza e disinvoltura caratterizzeranno la storia dell’economia e dei rapporti agrari nell’Agro romano e nella Campagna laziale. Ancora oggi i più anziani agricoltori ricordano come quei mercanti di campagna sono diventati proprietari di grandi estensioni di terreno, acquistato proprio dai nobili possidenti di cui erano fattori e amministratori.
Durante il periodo estivo, prima dell’unità d’Italia, le greggi erano in prevalenza trasportate sulle montagne delle Marche, lungo la catena dei monti Sibillini. Le montagne attorno a Visso e Ussita erano località preferite, anche per la facilità dell’accesso lungo la via Flaminia e la via Valnerina, proseguendo fino alle sorgenti del fiume Nera, sono le località da cui proviene la razza ovina Sopravissana, comunemente chiamata Maremmana, oggi in buona parte soppiantata dalla razza sarda. Dopo l’annessione del regno di Napoli, gli allevatori romani hanno esteso i loro interessi all’Abruzzo, prendendo in affitto stagionale i pascoli d’intere montagne. In questo contesto, Amatrice è diventato un crocevia molto importante, trovandosi al punto d’incontro tra Abruzzo, di cui faceva amministrativamente ancora parte, Lazio, Umbria e Marche.
PASTA ALL’AMATRICIANA
La storia di Amatrice s’intreccia e si lega alla sorte della pasta all’amatriciana. Tutti sanno di cosa si tratta. E molti sanno che in origine il condimento era limitato al solo guanciale del maiale e al pecorino grattugiato. Questa ricetta estremamente semplice è stata usata dai pastori nei lunghi mesi della transumanza. E’ diventata nota a tutti con il nome di “gricia”. L’unica materia alimentare disponibile era il guanciale e il formaggio. La pasta era preparata impastando acqua, sale e farina, cotta quasi sempre subito. Qualche volta veniva lasciata asciugare, ma il rischio era che potesse deteriorarsi rapidamente, ammuffendo per l’umidità contenuta nell’impasto. Per avere la lavorazione industriale bisogna attendere i primi decenni del Novecento. La “gricia” ha continuato a dominare la cucina romana e ovviamente quella reatina e amatriciana, interpretata con i nuovi prodotti dei pastifici, come i bucatini e i rigatoni.
Alla fine del Settecento, la “gricia” fa la comparsa nelle osterie e nelle locande di Roma, ottenendo un notevole successo per merito di negozianti provenienti dalla campagne sabine. Ma nel 1860, sempre a Roma, una trattoria nei pressi di Piazza Navona, conosciuta con il nome di “Passetto”, sperimenta un nuovo modo di preparare la pasta all’amatriciana: allo storico sugo ricavato dal guanciale e farcito di pecorino, aggiunge il pomodoro. Sì, il pomodoro che sino a qualche decennio prima era considerato frutto di una pianta ornamentale. Erano stati i napoletani che avevano impiegato per primi il pomodoro in cucina all’inizio dell’Ottocento; secondo alcuni, prima ancora erano stati i siciliani a sperimentare l’impiego della polpa di pomodoro nell’alimentazione umana. Sempre regno di Napoli era, anzi regno delle Due Sicilie!
La ricetta ha avuto un grande successo e si è diffusa in tutto il Paese. Non c’è cittadino italiano che non sappia cosa sia un piatto di pasta all’amatriciana. Magari non sa che quello originario era senza pomodoro, detto appunto “gricia”. Di conseguenza, tutti vanno con il pensiero ad Amatrice, ai suoi pastori, agli osti e ai ristoratori che nel corso degli anni sono riusciti a fare la storia della cucina romana.
IL ristorante “Passetto” è ancora presente e fa bella figura con le sue insegne e la sua cucina nel centro storico di Roma. Ma la capitale è ricca di locali che sanno interpretare la “gricia” e l’amatriciana in modo perfetto, impiegando come materia prima soltanto il guanciale come base del sugo, senza nessun altro ingrediente come vorrebbero i nuovi guru della gastronomia televisiva. Al massimo, il peperoncino può fare da completamento. E un gran bel bicchiere di vino rosso.
Corrado Barberis esalta la purezza della “gricia”, pur non nascondendo il valore della versione al pomodoro. «… La cucina di montagna col suo fiero lardo non è mai al riparo da qualche incursione della pianta di Minerva (l’olio extravergine d’oliva nda). Solo l’amatriciana e la sua versione precolombiana, la gricia priva di pomodoro, sono al di sopra di ogni sospetto nella loro integrale suinità. Per il resto l’occhio montano dell’aquila reatina a due teste ha dovuto chiudersi molto spesso. In compenso, proprio questa componente integralista, o fondamentalista, ha fatto il pieno sulle piazze di Roma per lungo tempo colonizzata da una folla di amatriciani».[9]
CONCLUSIONE
Tutto questo racconto può apparire stonato, di fronte alla tragedia che ha colpito la città di Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto. Piangere i morti è un atto di civiltà e di pietas, ma guadare al futuro è un dovere per onorare anche chi non c’è più. Ricordare cosa hanno dato alla storia del Paese e alla civiltà gastronomica quelle popolazioni, nel corso dei secoli, è segno di rispetto e impegno per riparare i danni e prevenire catastrofi future.
Di fronte a catastrofi analoghe, la solidarietà popolare e nazionale non è mai mancata, accompagnata dall’impegno ad operare perché non succedesse più. Lo scorrere del tempo e sempre nuove emergenze attenuano fino alla dimenticanza le conseguenze delle tragedie. Il rischio è che anche questa volta possa accadere. Certo, mercoledì 14 settembre 2016, venti giorni dopo la tragedia, vedere tanti bambini accorrere a scuola è stato davvero un segno di speranza. I moduli scolastici costruiti in pochi giorni dalla Protezione civile di Trento sono la prova tangibile che l’Italia ce la possa fare a diventare un paese normale.
BIBLIOGRAFIA
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[1] Enciclopedia Treccani, Vol. III, voce Amatrice.
[2] ANTON LUDOVICO ANTINORI, Corografia storica degli Abruzzi e de’ luoghi circonvicini, II voll., Deputazione abruzzese di storia patria, L’Aquila sd
[3] GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento, p. 136.
[4] PIETRO COLLETTA, Storia del reame di Napoli. Dal 1734 al 1825, I vol., Istituto Editoriale Italiano, Milano sd, pp. 113-113
[5] CORRADO BARBERIS, Le campagne italiane da Roma antica al Settecento, Laterza, Bari 1997«Molto verosimilmente la transumanza preesisteva ad Annibale: non di meno il vuoto economico e demografico causato dalla guerra consentiva di dare un assetto permanente a soluzioni prima episodiche. Con la transumanza il contrasto tra montagna e pianura, precedentemente vissuto sotto forma militare, veniva ridotto ad un’intelligente integrazione: il montanaro (ma poteva anche considerarsi montanaro un servo spedito dal padrone in alta quota?) cessava – quando si spostava al piano – di essere un invasore per diventare un immigrato, sia pure temporaneo. E poiché ad effettuare la transumanza erano greggi affidati a schiavi da grandi capitalisti cittadini, la stessa finiva per diventare un capitolo dell’urbanizzazione delle campagne, sia pure attraverso l’insolito strumento della desertificazione e della scomparsa di ogni attività non agricola, anzi, non pastorale», pp. 37-38.
[6] C. BARBERIS, Le campagne italiane dall’Ottocento a oggi, Laterza, Bari 1999, p. 21 e sgt.
[7] C. BARBERIS, op. cit., p. 29
[8] LEOPARDI GIACOMO, La ginestra, vv. 7-13
[9] C. BARBERIS, Mangitalia. La storia d’Italia servita in tavola, Donzelli, Roma 2010