Di Ettore Ianì

Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante.

Friedrich Nietzsche

Premessa

Il Sessantotto è la metafora più eloquente della mia vita. Scrivere su questo tema significa cercare di capire quello che hai già vissuto, una presa d’atto e, al contempo, una sorta di esame di coscienza. Significa parlare di uno squarcio della tua vita giovanile fatta di storie, biografie e situazioni, di una generazione che voleva “L’immaginazione al potere” per un mondo nuovo e migliore. Uno slogan profetico del sociologo statunitense e precoce critico della società americana C. Wright Mills e rilanciato dal sociologo tedesco Herbert Marcuse. Una generazione alla ricerca della creatività affrontando vecchi problemi, nuove forme del vivere meglio e più liberi, sovrastando e modificando usi e costumi, rituali e procedure di una società considerata inattuale, un cocktail esplosivo e variopinto. Mi sono già occupato del Sessantotto né Il Mito di Che Guevara e i miei ricordi, l’Albatros, numero 4, ottobre/dicembre 2017, cui faccio rinvio per qualche riferimento. Si tratta di un periodo storico composto di elementi diversi e non omogenei, che non si presta a un’univoca interpretazione. Non è riconducibile a una sola data di nascita, ha diverse natalità e tanti anniversari e lo ciò lo sottopone a letture contrapposte e spesso in conflitto. Un movimento socialmente eterogeneo e con aggregazioni spontanee, che si dividevano e si moltiplicavano. Il 1968 è anche l’anno dell’uccisione di Martin Luther King e di Robert Kennedy, della primavera di Praga, troncata dalle truppe sovietiche, del fallimento della “rivoluzione culturale” cinese, delle offensive dei Vietcong in Vietnam, tanto per ricordare i fatti più salienti. Per non parlare delle diverse stragi come quella di piazza Fontana a Milano o quella di piazza della Loggia a Brescia o dell’ Italicus, espresso Roma-Brennero. Insomma, quel periodo ha avuto molte anime e non tutte in sintonia. Una di queste, benché minoritaria, si caratterizza con l’escalation di violenza di massa, per il terrorismo, per il rapimento e uccisione di Aldo Moro. Due percossi paralleli, separati, salvo qualche tardiva e inferma contaminazione dentro Potere operaio, il Collettivo politico metropolitano di estrazione marxista-leninista, Lotta continua e nei Cub della Pirelli, Sit Siemens, Ibm e dell’Alfa Romeo, dove è possibile rintracciare i primi episodi di lotta armata. Ciò non significa, come pure si sostiene da più parti, che vi sia stata un’osmosi, un diretto reclutamento dei terroristi armati proveniente dal movimento studentesco del ‘68. E’ certamente vero che, in un’azione a vasto raggio di una rivolta generazionale, una parte del suo carattere originario e distintivo finisce con lo sfilacciarsi fino a estinguersi in forzature ideologiche, fino a infrangersi negli “anni di piombo” in cui si verificò un’estremizzazione della sana e pacifica dialettica che si tradusse in violenze di piazza e in lotta armata. Espressione coniata a posteriori mutuata dall’omonimo film Anni di piombo, uscito nel 1981 e diretto in stato di grazia da Margharethe von Trotta. Film ispirato alla vicenda di due sorelle, la più grande riformista e la più piccola legata alla banda Baader-Meinhof, frazione dell’armata rossa (Raf), morta in carcere in circostanze misteriose. Il cinquantesimo anniversario è per gli storici un’occasione assai ghiotta per riflettere su un coté cruciale, la cui sua intensità politica e sociale ha lasciato segni indelebili e contrastanti nel solco della nostra storia contemporanea.

Sono consapevole che il tempo trasfigura i ricordi, dove tutto sfuma nell’indeterminatezza e nella sensazione di vago e indefinito, proprio per questo mi sforzerò di non cadere nell’amarcord e di non smarrire le due o tre cose che hanno caratterizzato la mia esperienza di quel periodo storico. Intanto, la prima parola che mi viene in mente, quando penso a quel periodo, è risveglio, poi entusiasmo, partecipazione e tanta voglia di cambiamento. Determinante per me è partire dal fatto che il ‘68 non può essere circoscritto nel perimetro degli eventi di quell’anno, perché è molto più longevo e trova le sue radici in tempi più remoti e in diversi angoli del pianeta, dagli Stati Uniti all’Europa, dal mondo comunista come Unione Sovietica e Cina, a paesi autoritari di destra come la Spagna e alcuni paesi dell’America Latina. Si assisteva a una mobilitazione che si espandeva in tempi rapidi, anche se con criteri, modi e finalità non sempre confluenti. Del resto, gli avvenimenti dei grandi fenomeni storici si presentano sempre piuttosto sfaccettate. Ad esempio, in Europa dell’Est la protesta è rivolta contro la dittatura comunista e contro l’ex Russia. Una mobilitazione che avviò il processo del crollo del cosiddetto “socialismo reale”, espressione in voga dagli anni Settanta per distinguere l’organizzazione sociale dell’Unione Sovietica dalla mozione tradizionale di socialismo reale ideale d’ispirazione di Carlo Marx e di Lenin. Negli Stati Uniti i germi del ’68 li troviamo già a metà del ’64 nella cittadina di Berkeley, sede di una delle più significative università della California, da dove partì dal campus più libero d’America l’ondata di contestazione destinata a fare da modello perfino alla vasta rivolta del maggio parigino, contro il capitalismo, l’imperialismo e il potere gollista allora in Francia dominante. Dapprima nella rivolta, guidata da Mario Savio, figlio d’immigrati italiani, ci sono le richieste di una maggiore partecipazione nella scelta dei metodi d’insegnamento e dei programmi, nonché la possibilità di usufruire dell’ateneo come luogo di dibattito di problemi politici. Poi la contestazione si trasforma e le rivendicazioni riguardano la discriminazione razziale, la difesa dei diritti civili che infiamma l’America del dopo Kennedy, il rifiuto dell’impegno Usa nella guerra in Vietnam.

Ritengo, almeno dal punto di vista della sociologia storica, riduttivo e curioso che il Sessantotto venga declinato come una mera ribellione di giovani studenti che protestarono contro gli adulti, il conformismo, il paternalismo autoritario. Esso nasce in un periodo di robusta crescita culturale in cui si veniva in contatto con la sociologia americana, con la scuola di Francoforte, con la nuova ideologia di sinistra (New Left) del Regno Unito e Stati Uniti, incentrata sull’alienazione, sul disagio, sull’autoritarismo riconducibile al già citato sociologo Charles Wright Mills. E’ stato movimento politico di scala mondiale avvenuto dopo una lunga maturazione e per gemmazione, allora non c’era ancora Internet, che si snoda non solo nella protesta, ma soprattutto nell’innovazione culturale, nel costume e nella vita quotidiana. Possiamo dire che in Italia il Sessantotto, grazie anche al ’69 operaio, dura fino al 1975 con i valori della sua fase iniziale e fino al 1977 in forma distorsiva e stravolgimento rispetto al progetto originario, quando alcuni topoi, come le manifestazioni, le assemblee e le occupazioni delle università, si tingono di lineamenti che poco hanno a che fare con lo spirito originario che contrassegnò l’ingresso in scena della nuova generazione dei figli del miracolo economico. Il movimento studentesco, che si ferma idealmente al 1975, appare assai critico rispetto ai nuovi stereotipi ideologici dei gruppi extraparlamentari, nati dopo il 1968-69. Si tratta non di stretta contiguità col passato, semmai di un burlesco travestimento, di una cattiva riproduzione, di un Sessantotto che traligna dal movimento femminista e perfino dalle forze operaie, come conferma eloquentemente l’attacco violento di teppisti di estrema sinistra, Indiani metropolitani, Autonomia Operaia, che impedì di tenere un comizio, all’università la Sapienza, al segretario della Cgil Luciano Lama. Con spranghe e pezzi di asfalto riconfermavano un’aggressività e una tendenza eversiva che travalicavano l’ideale sessantottino di un contropotere popolare e democratico. Assieme al fatto, sempre più presente, che nelle assemblee si riaffermava il gesto del pollice e dell’indice alzati a simbolo della P38, il 17 febbraio del 1977 rappresenta una data rivelatrice di una lacerazione irreparabile di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze della malattia infettiva del terrorismo, della lotta armata, delle organizzazioni clandestine come le Brigate Rosee o Prima Linea che indebitamente e discorsivamente si appropriano della storia del Sessantotto. Un movimento studentesco obnubilato dalla violenza armata e pressoché indistinguibile dalle organizzazioni terroristiche.

LA MIA FORMAZIONE POLITICO-CULTURALE

Sono nato ad Argusto, piccolo centro della provincia di Catanzaro, verso la fine del 1948. Nel ‘68 avevo venti anni. Acerbo, strapaesano e assai timido per via della mia dislessia, disturbo che aveva aggravato pesantemente il mio concetto di autosvalutazione. Per questo mio handicap venivo soprannominato “ ‘u scilinguatu” (che ha la pronuncia difettosa, che farfuglia). Oggi, dopo cinquanta anni, posso dire che non sono un vero è proprio dislessico, sono “guarito” con grande difficoltà e sacrifici, ma le lacerazioni della ferita non si sono perfettamente rimarginate. Allora la scienza riabilitativa della logopedista era sconosciuta. Non mi sentivo meno intelligente degli altri, anche se venivo catalogato come uno studente svogliato e disattento. Stancamente mi diplomavo all’Istituto tecnico industriale, il cosiddetto Itis, allora scuola-superiore-rifugio per i poveri e gli studenti meno dotati. Sicuramente la miseria era di casa, povero lo ero davvero. Le manifestazioni, quelle poche che organizzavamo, non erano certo politiche, non si aveva la conoscenza di quello che stava fermentando nelle università, la protesta si limitava a denunciare che le aule erano fredde! Era tutta qua la mia esperienza da studente di scuola superiore. Contro il parere di tutti, professori, amici e parenti, che mi vedevano bene come operaio alla Fiat, mi iscrivo alla giovane e libera università di Sociologia di Trento, da dove partì la vera e significativa contestazione studentesca italiana. La facoltà di sociologia, nata per volontà del presidente della Provincia Bruno Kessler e futuro rettore, in quel periodo era diretta dal giovane professore della Cattolica di Milano Francesco Alberoni che sostituiva Mario Volpato, insultato dagli studenti e costretto alle dimissioni. Tutto incominciò quando arrivai in via Verdi, sede dell’Università, ubicata in un palazzo ottocentesco, color arancione pallido, a due passi dal Duomo. Un edificio nobile, ampio e spazioso che si raggiungeva comodamente, camminando per le vie della Città del Concilio. Ero disorientato. Arrivai con la classica valigia di cartone legata con lo spago e all’interno pochi indumenti di scarso valore e qualche spicciolo in tasca, frutto del lavoro svolto nella marmeria dei Fratelli Lanzellotti e dai sei mesi di lavoro presso il comune di Argusto come Guardia Campestre in prova. In testa avevo, invece, un sogno da realizzare: laurearmi e recuperare la mia sicurezza e stima. Riscattarmi, insomma.

A Trento arrivavo con un bagaglio formativo e scolastico gracile e con un’esperienza politica e culturale circoscritta alla vita paesana e periferica. La politica comunque m’intrigava e catturava il mio interesse. Mi scrivevo alla Fgci (organizzazione giovanile del Partico comunista italiano) all’inizio del 1967, quando si coglievano i suoi primi segnali di scricchiolamento, tanto che in seguito perse circa 20mila iscritti e la maggioranza degli studenti inseguiva l’accattivante mito di Che Guevara. Allora il segretario nazionale era Claudio Petruccioli, succeduto ad Achille Occhetto. La partecipazione attiva alla vita politica mi consentiva di dialogare con i compagni della Federazione provinciale del Pci di Catanzaro. Così ho avuto modo di conoscere e apprezzare intellettuali come Paolo Cinanni, alias Amelio ne Il Compagno di Cesare Pavese, promotore e protagonista delle lotte per la terra e fondatore della Federazione dei lavoratori emigrati. Solo qualche pregnante contatto in Calabria, poi a Roma un’amicizia sincera, densa e fertile per la mia formazione politica e professionale. In quel periodo ero attratto dall’attività culturale e politica di “Quaderni Calabresi”, una delle poche riviste allora che si stampava nel catanzarese, ed esattamente a Vibo Valentia, sulla cosiddetta Costa degli Dei. Oggi capoluogo di provincia. La rivista “Quaderni Calabresi” svolgeva un’intesa attività di dibattito sui principali problemi politici e di cronaca con un taglio vivacemente progressista. Scrivevano intellettuali di vario orientamento politico, ma anche operai e, soprattutto, studenti di diversa provenienza culturale e ideologica. Era una rivista tanto attenta al movimento studentesco quanto critica con la classe dirigente calabrese. Sono gli scritti di Nicola Zitara, uno dei più significativi esponenti della rivista e della classe culturale calabrese, che mi aiutano a capire meglio e di più di quello che stava accadendo e a quale periodo storico stessi partecipando. Certo non attingevo ai periodici come i “Quaderni Piacentini”, che scoprì e apprezzai molti anni più tardi.

Sapevo che la strada da percorrere era tutta in salita, ma questo non mi spaventò. Annusavo che stavo iniziando un percorso impervio, che mi trovavo catapultato in un mondo che nulla aveva a che vedere con il mio passato, con la cultura, i valori e la tradizione della Calabria contadina degli anni Sessanta. Terra marginale, di scarse risorse, d’immigrazione, con poca viabilità e con una struttura industriale per niente sviluppata, e quel poco d’industria esistente, era quasi tutta d’iniziativa pubblica. Una terra impastata di fierezza, ospitalità, ma anche di coltello, religione e miscredenza. Una miscela non bene amalgamato di lealtà e senso dell’onore, che ricorda le offese e ha difficoltà di perdonare gli sgarbi. Carenza di senso civico accompagnata da una scarsa partecipazione sociale e una diffidenza verso le istituzioni. Un’inclinazione alla fitta trama del comparaggio, legami di parentela e vicinato che costituiscono i principali strumenti di relazioni sociali. Mantiene la parola data e però chiede reciprocità. Un mondo del lavoro condizionato dalle ‘ndrine e ndrangheta, dove la stragrande maggioranza chiedeva di lavorare negli Enti locali, Regione e Stato: bidelli nelle scuole, portantini negli ospedali e commessi tutto fare e niente fare nei vari uffici pubblici. Le strutture culturali erano praticamente assenti. La prima università in Calabria viene istituita nel 1968, a Reggio Calabria, nel 1972 a Cosenza e nel 1998 a Catanzaro. Non ricordo che ci fossero in quegli anni teatri, gallerie d’arte o case editrice con respiro almeno regionali. L’unico giornale a carattere regionale era La Gazzetta del Sud, dichiaratamente fascista e scritta, come sostenevano i suoi detrattori, in calabrese. L’unica azione di contestazione, peraltro assai atipica, in Calabria è stata la rivolta di Reggio Calabria. Rispetto ai movimenti degli studenti e operai allora prevalenti, alle intemperie culturali e politiche che contraddistinguevano quel periodo, la rivolta avviene per rivendicare il ruolo di capoluogo della nascente ente Regione. La contestazione veniva paragonata, dai vavalùni calabresi (chiacchieroni e smargiassi), cui faccio parte, a una “mini-rivoluzione francese”, una gratuita e presuntuosa all’allusione rivoluzionaria del ludico e festoso “maggio francese”. In realtà fu il Sessantotto dei “terroni”, la banlieue dei “cafoni”, una rivolta di un malcontento sociale e di appartenenza territoriale di tipo campanilistico, capeggiata dalla destra nazionalpopolare e sindacalista che agiva ai bordi del Movimento sociale italiano (Msi). Il sindacalista della Cisnal, Ciccio Franco (Msi), rispolverava il motto dannunziano “Boia chi molla” degli Arditi della prima guerra mondiale e ne fece uno slogan che cavalcò la protesta dei reggini. Il Pci, Psi e la Cgil non appoggiavano la rivolta, prediligendo la strada dell’industrializzazione. I moti di protesta, durante i quali persero la vita cinque persone, si spensero nel febbraio del 1971, allora mi trasferivo da Trento a Roma, dove da qualche anno viveva la mia famiglia. La rivolta si chiude con una spartizione che trovava il suo equilibrio nel metodo Cencelli: Catanzaro capoluogo, sede del Consiglio regionale e del V centro siderurgico a Reggio Calabria e l’università a Cosenza. Da allora molte cose sono cambiate, ma non certo abbastanza.

Mi scrissi all’università con la consapevolezza, e quindi con il convincimento, che durante gli ultimi anni trascorsi al mio paesello avevo iniziato a invertire il mio modo di pensare e di agire, tanto da criticarne le consuetudini e le costumanze della comunità in cui vivevo. Cominciavo a leggere tutto quello che mi capitava sotto mano. Nel 1965 lessi Il padrone di Goffredo Parise, un libro che ho custodito nel serbatoio della mia memoria come segno premonitore: trasferimento dalla provincia in città, contrasto tra cultura contadina e urbana, contare solo sulle proprie forze per farcela. E’ la storia di un giovane nel pieno boom nell’Italia degli anni ’60, che vive la contrapposizione tra provincia/metropoli e tra padrone/dipendente, in un’epoca di forte accelerazione industriale. E’ stata una lettura che ha lasciato le vestigia per affrontare la prima e vera esperienza fuori della Calabria e da studente lavoratore. Leggevo ogni rivista che riuscivo a raccattare, L’Europeo, L’Espresso e ABC, settimanale quest’ultimo, marcatamente socialista. Assieme agli articoli squisitamente politici pubblicava anche quelli scandalistici e di costume, foto spinte, hard per l’epoca. Lo leggevo non solo perché di sinistra, anticonformista e anticlericale, ma anche per sbollire i pruriti giovanili in una realtà sociale bigotta e dal culto bacchettone. Mentre altrove i giovani studenti reclamavano la rivoluzione sessuale, nel mio mondo i contatti con l’altro sesso avvenivano per interazione di sguardi. Il corteggiamento avveniva in una seconda fase, quando lui seguiva lei da lontano con discrezione fin sotto casa, naturalmente nella speranza di non imbattersi con qualche malizioso parente. Gli approcci diretti erano estenuanti e inizialmente filtrati da qualche comune amico o amica. Tra l’ammiccamento, il consenso e il primo bacio passavano tranquillamente i tre mesi. Quasi mai si andava oltre. Si continuava a vedersi, ma raramente da soli e comunque per breve tempo: allorquando all’uscita dalla chiesa o della scuola o nelle feste estive quando si consumava, generalmente nel tardo pomeriggio sulla via principale del paese, il rito dello “struscio”. Una solenne consuetudine che consumava non solo le scarpe ma logorava le aspettative di trovare in momento magico per sfiorarsi, salutarsi o baciarsi. Le donne, con il vestito della domenica e i capelli acconciati con l’ultima tendenza, partecipavano allo “struscio” accompagnate dai genitori o dai parenti, autorizzati a spegnere qualsiasi impulso innocente o generoso verso l’uomo del desiderio e per non infrangere tabù e poteri ancestrali.              

Ricordo che mio padre, nonostante fosse di sinistra e di mentalità aperta, mi consigliava di leggere ABC di nascosto, di non farne a casa una libera circolazione, ammonendomi con un sornione sorriso: “Ricordati che hai due sorelle!”. Allora il direttore era Ruggero Orlando, il giornalista radiotelevisivo più popolare e amato degli italiani di quell’epoca, noto per il suo celebre: “Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando. Grande sostenitore per le emittenti private e la fine del monopolio televisivo, le cui battaglie gli costarono l’allontanamento dell’Azienda di viale Mazzini. La telecronaca che oggi mi riaffiora alla mente (con nitidezza e simpatia) è stata la diretta della storica ed emozionante notte del 20 luglio del 1969 in cui Neil Armstrong sbarcò sulla luna. Ebbe un concitato litigio con Tito Stagno, che conduceva la trasmissione in diretta da Roma, sull’orario preciso dell’allunaggio. Solo dopo anni si scoprì che Tito anticipò la notizia con 56 secondi, mentre Ruggero Orlando, dal Centro spaziale della Nasa, la ritardò di 10 secondi.

In maniera amatoriale mi occupavo di musica leggera e no. Leggevo Big e Ciao Amici, ad acquistarli ci pensava il ridanciano amico Felice Gasparelli, che dopo averli sfogliati me li regalava. Due riviste musicali a tiratura nazionale e sempre più politicizzate che mi aiutarono a capire, in forma più immediata e agile, i fermenti politici e culturali che stavano esplodendo in America come in Europa. Ero un sassofonista con capacità assai modeste e “audace” compositore di canzonette per la band degli Arguti. La più famosa era Lisa che mi costò insinuazioni amorose, ma anche giudizi assai lusinghieri per il suo refrain: “Lisa, porti un nome così antico che il mare ha spazzato in un fiume di nebbia”. Ciao Amici aveva un approccio di un giornalismo impegnato e interattivo. Non solo pubblicava articoli e approfondimenti di politica e di critica sociale, ma ospitava copiosamente lettere dei lettori (compreso le mie), privilegiando i temi caldi della contestazione studentesca e dell’autunno caldo del 1969. Scoprivo la musica beat del Nord Europa, l’esperienza hippy e del free speech americani, il linguaggio del rock e della sfera politica coinvolgente e partecipata. La musica allora non era rimasta estranea alle richieste di cambiamento. Sulle note di Bob Dylan, Joan Baez o The Doors e tanti altri, scoprivo dai testi delle canzoni il pacifismo, l’ambientalismo , il consumismo, l’imperialismo, il razzismo. Dei tre artisti citati preferivo di gran lunga la band statunitense The Doors, non solo perché il loro rock, che si nutriva della musica classica, del jazz e del blues, aveva un potere seduttivo, né perché il loro cantante Jim Morrison rappresentava un simbolo dell’inquietudine giovanile, tanto da essere soprannominato Dionisio, divinità del delirio e della liberazione dei sensi. L’attrazione nasceva piuttosto da due fatti, uno musicale e l’atro culturale: 1) I Doors inizialmente erano privi del bassista, strumento indispensabile per il ritmo e per trascinare, assieme al batterista, la band. Una ricerca del 2017, del resto, conferma l’indispensabile ruolo di questo strumento. Il Dipartimento di Psicologia e Neuroscienze della Duke Università della Carolina degli Stati Uniti, ha emesso il suo verdetto: è il bassista il musicista più importante per tenere il tempo e il ritmo. E’ stato il tastierista che supplì in quel ruolo, suonando le note basse con la mano sinistra e la parte melodica con la destra. 2) Allora trovavo singolare che un cantante (Morrison) era descritto come un intellettuale, un uomo colto, divoratore di libri che influenzano le sue canzoni. La musica e le riviste cosiddette leggere rappresentarono una sorgente di utili informazioni per capire la coscienza generazionale dei miei coetanei che cominciavano a essere più autonomi dagli adulti, a parlare di temi allora tabù come libertà sessuale, fuga da casa, minigonne e capelloni, obiezione di coscienza, divorzio e aborto, di uguaglianza razziale e dei diritti, di pacifismo e di condanna alle guerre come quella che si consumava nel Vietnam. Un nuovo modo di fare e diffondere la cultura e la protesta politica, un sano e proficuo intreccio il cui emblema è rappresentato da Woodstock, dall’evento che ebbe luogo sul grande prato di Bethel nell’agosto del 1969. Con un’imponente partecipazione di oltre 500 mila giovani, accumunati dalla distanza culturale dai padri, dalla contestazione non violenta contro la società consumistica, dal movimento degli Hipps, pacifisti, simbolo di libertà, di parità dei sessi, con un abbigliamento lontano dai canoni classici, camice larghe e colorate, tuniche dai colori sgargianti, gonne lunghe, pantaloni a zampa di elefante e monili dal retrogusto esotico. Non fu solo un grande evento musicale che contraddistinse il fare di una generazione, ma è stato anche un’energia esplosiva e liberatoria per le aspettative di pace, di antimilitarismo a sostegno del ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam. Iniziato all’insegna di “Tre giorni di amore, musica e pace”, Woodstock diventa l’evento connettivo, al netto degli eccessi, di un inedito accesso alla fruizione culturale e a una nuova forma di partecipazione politica promossa dai giovani.

Dal baule della memoria spuntano anche riviste studentesche come La zanzara del liceo Parini di Milano. Nel 1966, in forte anticipo rispetto ai tempi, realizzava un’inchiesta sulle relazioni prematrimoniali e sui costumi sessuali dei giovani che portò alla denuncia e al processo dei suoi giovani redattori, divenuti poi firme importanti del giornalismo come Walter Tobagi, ucciso nel 1980 in un attentato terroristico perpetrato dalla “Brigata 28 marzo”, un gruppo terroristico di estrema sinistra. Nell’inchiesta, su un tema ritenuto scabroso, tanto da turbare la sensibilità e il pudore della cultura allora dominate, emersero molte delle moderne opinioni sulla educazione sessuale e sul ruolo della scuola nella società. Insomma, scoppiò un vero e proprio scandalo che divise il Paese: da una parte la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano e dall’altro la sinistra e i cattolici progressisti che intervennero in difesa degli studenti. La stampa benpensante bollò quell’inchiesta come un attacco alla morale comune, al senso di pudore, descrivendo gli studenti che l’avevano realizzata come incoscienti teppistelli. In realtà si trattò di un fenomeno antesignano che segna un irreversibile spartiacque nella cultura di massa, un evento di vasta portata che si sviluppò con la liberazione dei costumi sessuali degli anni Settanta, ispirati alle teorie del profeta della rivoluzione sessuale Wilhelm Reich. La rottura con la famiglia ha fatto da contraltare la trasgressività sessuale con rapporti di coppia del tutto autonomi e liberi, senza che ciò provocasse troppi traumi perché “era proibito non essere liberi”. Nella liberazione sessuale era forte l’idea non solo di demolire la corazza caratteriale, di sdrammatizzare la sessualità sui falsi miti come la deflorazione, il celibato, l’astinenza, ma anche di rompere con la cultura repressiva della società borghese, di rimproverare ai genitori progressisti di predicare bene e razzolare male, di aver inneggiato a valori liberali, ma di aver perseguito i principi chiusi e asfittici e di tenere in vita parole da parrocchia e da caserma come il mito dell’illibatezza femminile, della superiorità maschile, del matrimonio eterno.

NEL TEATRO DI TRENTO

Mi iscrivevo alla Facoltà di sociologia in piena tempesta dell’autunno caldo del 1969 quando l’Italia è attraversata da un’ondata di protesta e lotte sindacali, favorita dal clima del Sessantotto. La mobilitazione avviene in coincidenza dalla scadenza triennale di lavoro, in particolar modo quella dei metalmeccanici, categoria politicamente agguerrita e guidata dall’innovatore Luigi Macario. Sullo sfondo c’erano anche da rinnovare altri contratti collettivi di lavoro come quello dell’industria, agricoltura e trasporti. I salari italiani erano tra i più bassi di Europa, cui si affiancava uno sfruttamento di stampo ottocentesco come il cottimo: la retribuzione del lavoratore è remunerata in base al risultato ottenuto piuttosto che alla durata del lavoro. Alla scadenza dei contratti di lavoro si arriva nel Nord industrializzato con un fenomeno inedito e anomalo come la nascita dei comitati unitari di base, i Cub, in alternativa alla Cgil, Cisl e Uil, promossi dall’integrazione tra le lotte studentesche e operaie di estrema sinistra, per lo più in aperta polemica con la sinistra tradizionale del Pci e Psi. A Roma che la classe operaia vera e propria non c’è, nasce, invece, il “Consiglio della classe operaia”, che indirizzerà la sua attenzione verso i cantieri edili, non senza qualche risultato. La classe operaia, nelle frange di Potere operaio, Lotta Continua e Avanguardia Operaia, conquista una centralità e un sostegno come quello di Mario Tronti, Alberto Asor Rosa e Toni Negri. S’indicono scioperi e proteste che coinvolgono centinaia e centinaia di fabbriche, grandi e piccole e di ogni settore, compresa la Fiat, Montedison, Marzotto, Pirelli e via dicendo. Il movimento studentesco operaista percepisce l’importanza della lotta operaia e cominciò ad andare in fabbrica a tenere assemblee e volantinaggio sotto lo slogan “Studenti e operai uniti nella lotta”. Il sindacato alla fine del 1969 porta a casa un grande successo, ottenendo la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, aumenti salariali, nuovi diritti sindacali, riconoscimento dei delegati e dei consigli sindacali, preludio della nascita dello “Statuto dei lavoratori”.

Inizio a frequentare l’università nel clima surriscaldato dall’autunno caldo. Mi trovai di fronte ad uno scenario trascendentale e onirico. Le rivendicazioni andavano oltre le aule universitarie e assumevano la connotazione della contrapposizione ideologica e della lotta politica. Le riflessioni e le discussioni diventavano sempre più accese, dentro e fuori l’università. Iniziative di vario genere, dalla guerra contro il Vietnam, agli scontri radicali con le forze di destra, appoggio alle lotte operaie, scelte che coinvolgevano e turbavano l’equilibrio sociale di una piccola citta di provincia poco consona al clamore dei cortei. La tensione lievitò così che l’allora ministro della Pubblica istruzione nominò un “Comitato ordinatore” con scopo di svolgere un’opera di mediazione per ricomporre il rapporto fiduciario studenti/istituzioni. Ne facevano parte luminari come Norberto Bobbio e Beniamino Andreatta. Il corpo docente era di grande levatura: Franco Ferrarotti, Gian Enrico Rusconi, Chiara Saraceno, Pietro Scoppola, Bruno Manghi, Franco Fornaro, Alberto Izzo e fresco di laura alla Bocconi, Mario Monti. Le tensioni non si spensero. Sul modello della “Eine exemplare Aktion” di Theodor Adorno, e su quanto era successo tre mesi prima nella cattedrale di Berlino, durante l’omelia di padre Gino Sbalchiero, colpevole di aver criticato i metodi antidemocratici della politica sovietica, e su quanto era successo tre mesi prima nella cattedrale di Berlino, viene bruscamente interrotto da uno studente di sociologia Paolo Sorbi, dal nome di battaglia Paolino per la sua altezza, accentuando così il disagio tra l’università e i cattolici. Intanto l’occupazione a sociologia proseguiva fino a 67° giorno, quando il “comitato ordinatore” riconosce al movimento studentesco di essere una “controparte” dell’autorità accademica. Si avvia una sperimentazione con un nuovo piano di studi, il superamento delle lezioni tradizionali per optare a un’impostazione seminariale. Viene istituita una commissione paritetica tra docenti e studenti dove è possibile discutere di tutto, dall’attività accademica all’utilizzo degli spazi da utilizzare, all’attuazione di contro-corsi come forma di lotta antiautoritaria. Si sperimentano cose inedite come l’occupazione aperta o chiusa, l’amore libero, la politica creativa: una sorta di Berkeley all’italiana! E’ con questo background che mi dovevo misurare e i colleghi dalla stazza di Duccio Berio, Marco Boato, Mara Cagol, Renato Curcio, Mauro Rostagno, Vincenzo Rutiglione, Paolo Sorbi. Leader, assai diversi, che non posso dire di aver frequentato e conosciuto approfonditamente, sia perché molti come Curcio stavano lasciando la facoltà, sia perché ero uno studente lavoratore, che per sbarcare il lunario lavoravo a Moutier, nella vicina Svizzera, in una stamperia. Molti di quei protagonisti, come la storia ci insegna, sposeranno l’estremismo di sinistra e parteciperanno da protagonista alla drammatica esperienza della lotta armata. Mauro Rostagno, soprannominato il “Che di Trento”, forse perché andava in giro in poncho, assieme a Renato Curcio e sua moglie Margherita (Mara, nome di battaglia) Cagol e altri fonderanno le Brigate Rosse, un’organizzazione terroristica eversiva di sinistra estrema i cui obiettivi erano fondamentalmente di un “attacco al cuore dello Stato”.

Nel 1970 le tensioni, lo stato di eccitabilità e l’acuirsi delle proteste costrinsero il direttore Francesco Alberoni, che aveva scelto la via del dialogo con gli studenti, a dimettersi a seguito di uno scontro con il fondatore e rettore della facoltà, Bruno Kessler. Si apriva così un’altra stagione. Nasceva il gruppo neofascista di Avanguardia Nazionale che darà origine a scontri senza quartiere con la sinistra studentesca. Gli episodi di guerriglia urbana si moltiplicavano, gli scontri con la polizia si facevano più aggressivi e intensi. S’iniziò a utilizzare negli scontri le prime molotov. La rottura radicale dei vecchi schemi didattici, il trionfo dell’utopia e con essa la fuga dalla realtà, il rafforzamento dell’oligarchia dei leader, il crescere del gregarismo, linee strategiche non avevano mio consenso. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, il casus belli forse è stata l’istituzione dei contro-corsi in cui Max Weber, padre della moderna sociologia, veniva identificato come un pericoloso borghese, in favore di Mao e Lenin e qualche spruzzatina di Guevara. Renato Curcio non amava particolarmente il Che, tanto che spesso e volentieri criticava il “filocastrismo”, bollandolo di avventurismo e di piccolo borghese in cerca di emozioni. Del resto, alla stella argentata del Che preferì la sghimbescia delle Brigate Rosse. Gli spazi per un sessantottino minore, per uno studente lavoratore, per chi voleva fare attività politica per il Pci e aveva fretta di laurearsi, si stringevano ogni giorno di più, diventavano una sorte di nodo scorsoio. Vivevo il clima di Trento come sempre più lontano dalle mie esigenze di studente. Cominciavo a stancarmi dell’università chiusa, delle manifestazioni velleitarie, delle assemblee infinite e piene di fumo e non solo, delle delibere “gestite” dai leader, anche se percepivo che la sociologia di Trento rappresentava una sorte di laboratorio della contestazione creativa e icastica. Del resto, non m’incoraggiava a cambiare idea l’ostentata tesi di Mario Rostagno: “Tu sei libero di alzare una mano per approvare ciò che altri per te hanno pensato, analizzato e deciso. O al limite, libero di non approvare”. In questa esibizione muscolare coglievo del narcisismo, una rappresentazione scenica, un comportamento discriminatorio e violento che soffocava ogni reale dibattito o confronto. L’atmosfera era da happening, soprattutto dopo il 30 luglio del 1970 quando un gruppo di operai e studenti, in prima linea Lotta Continua, di fronte alla provocazione del sindacato fascista della Cisnal di voler tenere un’assemblea di fabbrica, scoppiò un violento tafferuglio. Due operai dell’Ignis, la fabbrica più politicizzata del Trentino, venivano accoltellati. L’avvocato missino Andrea Mitolo e il sindacalista della Cisnal Gastone Del Piccolo venivano sequestrati dagli studenti e incatenati li facevano sfilare per le vie di Trento. Una sonnolente città chiamata a misurarsi con uno dei più avanzati movimenti della contestazione studentesca che lotta assieme agli operai sull’altare dell’egualitarismo e della dignità del lavoro in fabbrica.    

La verità è che all’università di sociologia di Trento ero solo un umile gregario, scarsamente integrato all’università sia per la mia storia personale che per cultura e tradizione. L’esperienza universitaria di Trento rimane per me nebulosa, una sorta di sbornia non ancora smaltita, ma vissuta con euforia e disinibizione, con il fascino del provinciale e dello studente lavoratore politicamente impegnato. In un anno avevo sostenuto solo un esame. Decidevo, obtorto collo, di lasciare l’università di Trento e di iscrivermi al neonato corso di sociologia a Roma, istituito presso la Facoltà del Magistero, sotto la direzione di Franco Ferrarotti che lasciava Trento, coadiuvato dal mai dimenticato Corrado Antiochia. A Roma, dove si era trasferita la mia famiglia, il clima politico del corso di sociologia appariva più rassicurante rispetto a Trento e anche rispetto all’Università della Sapienza e, in particolare, della Facoltà di Lettere e Filosofia, Giurisprudenza e Architettura, nonostante il neofascismo fosse molto forte nella capitale e che gli anni Settanta erano segnati da varie turbolenze. Dopo gli storici scontri di Valle Giulia, dove presero parte oltre 4mila persone con l’intento di liberare la facoltà nella sede distaccata di Architettura dalla polizia, con feriti tra le forze dell’ordine e studenti, e con il commento di Pier Paolo Pasolini che affermò “io simpatizzo coi poliziotti … perché figli di poveri”, a Roma i moti di piazza non furono più gli stessi. Mi trovai di fronte ad una Capitale con la presenza di slogan e scritti murali come “L’immaginazione al potere” o “Una risata vi seppellirà”, ma anche con i più bellicosi “Na-na-na-na- NAPALAN!”, oltre i “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung”.

Intanto io riprendevo a studiare, lavorare e frequentare la sezione del Pci di via Flavio Stilicone, con la quale vivevo una fase di incomprensioni e anche di scontri. Partecipavo attivamente alle iniziative studentesche promosse dal Pci e con cautela e scarsa aderenza a quelle degli extra parlamentari come Potere operaio o Lotta Continua, per viva curiosità e per accompagnare Mara, la mia compagna di allora attivista fervente di quest’ultimo gruppo. Per questo a casa, tutti con la tessera del PCI, soprattutto quando cominciai a vestirmi come il Che, eskimo di color grigio verde, jeans, barba e capelli lunghi, benché con fronte assai spaziosa, stivali con i lacci, erano preoccupati che potessi fare uno scivolone emotivo per accontentarla sulle scelte politiche. Un abbigliamento che, pur in un clima di libertà, era tutto sommato vincolante e stringente, una sorte di uniforme giovanile che poco aveva a che fare con i “riformisti”, ma appagava le aspettative istintive della protesta giovanile. Lavoravo per mantenermi agli studi, facevo quello che mi capitava, compreso vendere i giornali la mattina di domenica ai semafori, un ante litteram, come fanno oggi molti immigrati di colore per sbarcare con dignità il lunario. Si scrisse a sociologia anche Dario Scorza, detto Pompidou per la sua straordinaria somiglianza al presidente Francese. Era un socialista e vice sindaco di Catanzaro. Mi presentò alcuni suoi cari amici del suo partito che mi diedero una mano a fare il direttore dell’Inasli, scuola serale regionale per la formazione per lavoratori, per tutto l’anno scolastico 1972/73. L’anno seguente fu chiuso per mancanza d’iscritti e soprattutto perché la Regione Lazio chiuse il rubinetto dei contributi. Benché pagato poco e a singhiozzo è stato un anno di relativa tranquillità economica, di studio e di partecipazione all’attività della sezione. Quell’incarico è stato, come nel racconto della Bibbia, una manna caduta dal cielo che mia ha consentito di frequentare l’università assiduamente.

Il collante con la mobilitazione studentesca, con quell’operaia e con il Pci non fu per me facile. Occorre aspettare il giovane Enrico Berlinguer per superare le timidezze e i sospetti delle proteste che nascevano al di fuori dall’orbita del Pci, dal suo potere e soprattutto dalle sue liturgie e riti. Sia Luigi Longo, già vicino ai 70 anni, che Pietro Ingrao annusano che c’è un mondo nuovo che si stava affermando e non si tiravano indietro, ma con cautela e attenzione. Ricordo che da vicesegretario Berlinguer, allora ero a Trento, riconosce che oltre al Pci stavano emergendo nuove realtà con cui fare i conti. Mi piacque molto quella presa di posizione e m’incoraggiò a ritenere che il mio partito mi era vicino. Naturalmente la destra del Pci, la cosiddetta “destra amendoliana”, contestò quest’apertura e occorrerà aspettare diversi anni ancora affinché la DC, chiusa in se stessa, con Aldo Moro comprenda che nella società civile in modo “imperioso e impaziente” nasce un movimento autonomo rispetto al potere dei partiti. Giorgio Amendola, leader dell’ala moderata e riformista, soprannominato “un democratico prepotente”, si oppose con fermezza a questa apertura, tanto che sulla rivista politico-culturale del Pci Rinascita scriverà sulla necessità di combattere il settarismo ed estremismo dei movimenti. Non mi convinse, così come non mi convinse quando bollò come “ stratega da farmacia” il Che Guevara (medico). Il Pci, con qualche lacerazione interna, riesce a non demonizzare il movimento studentesco e questo mi dava la forza, seppur con qualche affanno, a restare ferventemente berlingueriano.

 

Alla facoltà di sociologia di Roma non mancavano certo le contestazioni, ma era anche possibile seguire le lezioni e di studiare e di vivere quei fermenti e spinte innovative, privilegiando le forme del collettivismo, con parole d’ordine cariche di significato politico: Vietnam, Che Guevara, Mao, “maggio francese” e via dicendo. I testi dei libri di norma erano quelli che si richiamavano alla cosiddetta Scuola di Francoforte come Max Horkheimer, Theodor Adorno e Marcuse, amati dagli studenti per la forte critica alla società industriale, per l’impegno politico e sociale a favore dei popoli che oggi chiamiamo il via di sviluppo e degli emarginati, oppressi dalla civiltà dell’opulenza e del consumismo. Se La dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno si configura come una critica verso tutte le società ritenute totalitarie e verso la regressione che ha subito il processo di sviluppo rispetto al pensiero dell’illuminismo, in Eros Civiltà Marcuse utilizza categorie psicologiche superando così le tradizionali linee di demarcazione tra psicologia, politica e sociale. Ciò a sostenere che il progresso è fondato sulla repressione dell’”Eros”, sulla rinuncia alla felicità, ed è per questi motivi che civiltà e felicità sono incompatibili e rendono l’uomo irrazionale, mortificando in tal modo la fantasia e l’immaginazione, mentre né L’uomo a una dimensione, opera divenuta una sorte di manifesto ideologico del movimento studentesco, scriveva: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democrazia non-libertà prevale nella civiltà industrializzata avanzata, segno di progresso tecnico”. Insomma, la non-libertà mira alla graduale istituzionalizzazione, alla mercatizzazione, alla tendenza di uniformare le proprie esigenze, passioni e slanci istintivi alle regole dell’economia di mercato, a un sistema di società omologante. Le teorie della Scuola di Francoforte non furono l’unico elemento connotativo della mia formazione e revisione culturale. Il mito di Ernesto Guevara continuava ad esercitare un certo fascino soprattutto per la sua coerenza di far marciare di pari passo la teoria e prassi rivoluzionaria, per aver vissuto in nome di un ideale di giustizia sociale e di liberazione dalla schiavitù imperialista, per le battaglie fatte in ogni angolo del mondo sotto la bandiera del socialismo e per aver speso le sue energie per cambiare la società a favore dei più deboli. Un Che pragmatico e insieme idealista, un marxista-leninista pronto a “sporcarsi le mani” nel lavoro quotidiano. Intanto, cominciavo a scoprire oltre i testi sacri d’allora come La maggioranza deviante di Franco e Franca Basaglia, Zygmunt Bauman con Lineamenti di una sociologia marxista, dove evidenzia come la sociologia, soprattutto quando le acquisizioni teoriche e le evidenze empiriche diventano strumenti pratici e operativi, è una scienza idonea ad analizzare e comprendere la realtà sociale e a compiere una riflessione critica sulla società capitalistica. Frequentando il corso di filosofia morale, tenuta dalla moglie (non ricordo il suo nome) del noto giornalista per la conduzione in Tv della Tribuna politica, Jader Jacobello, mi fece amare Friedrich Nietzsche. Cominciai a leggerlo, su suggerimento della Professoressa, con “Umano, troppo umano”, un’opera scritta in forma aforistica, stilisticamente moderna per raccontarci il suo svincolarsi dalle sue esperienze giovanile legate alla filosofia di Schopenhauer e dell’arte musicale di Wagner. Tuttavia, il mio vero innamoramento culturale avvenne con la lettura dei “Quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci. Sui Quaderni, non ancora in librerie, nasceva un’accesa spy-story che coinvolse molti intellettuali sulla tesi della scomparsa di uno dei quaderni da dove sarebbe emersa la rottura di Gramsci con il pensiero e il mondo comunista e la sua conversione al liberalismo. La questione non mi affascinò più di tanto, mentre m’interessavano moltissimo gli aspetti umani del combattente politico, la sua critica allo stalinismo e al marxismo sovietico, la crisi dello Stato-Nazione, i dilemmi della modernità e il fondamento morale della politica. La scoperta del suo concetto dell’egemonia culturale, nel primo libro dei Quaderni, mi spinse a riflettere e a fare un rapporto comparativo con la strategia politica del Che. Egemonia gramsciana che si contrapponeva all’idea di “domino” di una parte sull’altra della società, semmai come potere basato sulla presenza contemporanea di forza e consenso, e quando il consenso prevale, per una compiuta e riconosciuta capacità di direzione e di governo, allora si realizzava l’egemonia. Il potere basato quindi essenzialmente sul consenso, sulla capacità di governare attraverso la persuasione e l’adesione a uno specifico progetto politico e culturale. Quando si perde l’egemonia culturale, morale e politica allora l’esercizio del dominio è destinato a cadere. Gramsci così prende le distanze dalla teoria fondata su un’autorità come avviene con la “dittatura del proletariato” elaborata da Karl Marx e Friedrich Engels per arrivare al comunismo attraverso l’abolizione di ogni forma di proprietà privata, socializzando i mezzi di produzione e di scambio. L’egemonia culturale gramsciana nulla a che fare con la strategia politica di Ernesto Guevara che predicava e attuava l’uso della lotta armata per sconfiggere l’imperialismo.

Se i libri citati li conservo nella mia libreria senza aver la pretesa di averli capiti completamente e correttamente, nella mia mente invece ho ben presente l’esperienza, immagini e sensazioni legati al mondo della musica, teatro e cinema di quel periodo. C’era un clima culturale negli anni Settanta avvolgente, che coinvolse trasversalmente il centro e la periferia, le metropoli e i piccoli centri. Il cinema per me, tra i consumi culturali di quel periodo, aveva una centralità marcata e di supporto alla formazione culturale. Benché nel 1970 con il boom economico la TV entrava in 10 milioni di famiglie, a casa mia però il televisore non c’era, arrivò nel 1973 assieme al frigo. L’assenza di fruizione del televisore era un motivo in più per frequentare le sale cinematografiche, dove si proiettavano pellicole in prima visione, seconda e terza, recuperando così i film di successo però a distanza di tempo. Per molto tempo ho frequentato la sale di terza visione, così come mi accadeva quando prendevo in treno: puntualmente la terza classe, panche di legno e portabagagli a stecche, carrozze sovraffollate o meglio stipati uno accanto all’altro. Con una direttiva comunitaria l’Italia si adeguava ad abolire la terza classe, ma all’italiana: con disinvolto e scanzonato maquillage gli scomodi sedili di legno diventano magicamente di seconda classe e quelle di seconda, per incanto burocratico, diventano di prima, assieme alle poche carrozze che erano nate come prima classe.

Il vento della contestazione investiva anche il cinema. La produzione lievitava e molti sono i giovani registi impegnati, che avrebbero con tempo contrassegnato la cinematografia con prove sempre più ispirate da una tensione politica e ideologica. Non ero certo un’eccezione a essere un attento e appassionato fruitore dello spettacolo cinematografico. Ricordo che tra un’occupazione e una manifestazione si andava al cinema, non solo come passatempo ludico ma anche per discutere, per confrontarsi, per una riflessione politica. Una gioventù cinefila che trovava nei film un orizzonte culturale essenziale, un medium su cui misurarsi, sperimentare, creare miti. Furono gli anni dei cinema d’essai, dei cineforum, cineclub e a luci rosse, a conferma, questi ultimi della libertà dei costumi sessuali, ma anche di una produzione politicamente impegnata e colta. Basti pensare, solo per fare qualche esempio, ai documentari d’inchiesta, d’informazione, al rilancio dell’attività del Centro sperimentale di cinematografia, al cinema d’avanguardia in chiave politica come La Cina è vicina, film di contestazione sull’ipocrisia borghese attraverso lo squallore della corruzione nei rapporti familiari, Amore e rabbia, sul dibattito studentesco e sull’avvenire della scuola o Nel nome del padre, sulle contraddizioni delle istituzioni educative del mondo cattolico, famiglia e scuola, tutte e 3 di Marco Bellocchio, o Teorema, in cui Pier Paolo Pasolini rappresenta lo sgretolamento della società borghese. Per non parlare dei fratelli Vittorio e Paolo Taviani che collocano in un passato indefinito e mitico le loro riflessioni sulle utopie rivoluzionarie, da Sotto il segno dello scorpione ai Sovversivi, da San Michele aveva un gallo a Allonsanfàn.  Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti, in cui è rappresentata la disgregazione di una famiglia meridionale con il contatto della civiltà industriale milanese o La caduta degli idei, dello stesso regista, in cui s’indaga sull’avvento al potere di Hitler attraverso le contraddizioni laceranti di una potente famiglia. Il vento del ’68 soffia sul grande schermo per raccontare, tra show e shock, lo spirito del tempo, i cambiamenti culturali predominanti come non ricordare Jean Luc Godard, con Bande à part, o Mike Nichols, con Il laureato, Stanley Kubrick con 2001 Odissea nello spazio, Dennis Hopper con Easy Rider o Fragole e sangue di Stuart Hagman?

Erano anni di una vitalità esuberante, carichi di fermenti e spinte innovative che stravolsero le più radicate naftaleniche convenzioni. Si impongono parole d’ordine come “Cambiamento”, Funzione sociale dell’educazione”, ”Rapporto studio-lavoro”, “Comunicazione creativa”, “Territorio come struttura formativa e laboratorio di acculturazione”. Sono gli anni della riforma della scuola a tempo pieno, della riforma universitaria, della conquista delle 150 di studio per i lavoratori, dello Statuto dei lavoratori, delle prime elezioni regionali, della legge sul divorzio, entra in vigore la Comunità Europea dei Nove, del movimento di liberazione della donna, la chiusura dei manicomi. Elenco scritto di getto, frugando nei miei ricordi e per questo non certo esaustivo e senza alcun rigore. Naturalmente, accanto al rinnovamento e al progresso sociale e politico, non mancarono le contraddizioni, le distorsioni, i percorsi impervi di certe ribellioni, che portarono l’energia del movimento, quando non incontra la politica, verso la violenza con prezzi umani alti e dolorosi. Schegge impazzite del movimento hanno scelto la lotta armata inseguendo una rivoluzione impossibile. Non sono stato mai attratto dal “tutto e subito” o dall’“esproprio proletario”, temi cari al Movimento del ’77. La mia insofferenza, fastidio e polemica contro i partiti o le istituzioni erano aspri, ma li manifestavo restando dentro il Pci, soprattutto dopo il 1972, quando con il XIII congresso iniziava l’era assai difficile di Enrico Berlinguer. Erano giorni che richiedevano uno sforzo e un’abilità politica straordinaria. L’editore Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dei Gap (Gruppi d’Azione Partigiana) salta in aria sotto un traliccio dell’Enel, e la versione ufficiale fu che, con quindici candelotti di dinamite, voleva arrivare ad un black out su Milano il giorno in cui cominciava il congresso del Pci. La strategia della tensione faceva sentire i suoi effetti, la società appariva sempre più divisa, nascevano a destra (Nuclei Armati Rivoluzionari, Ordine Nuovo, Ordine Nero, Terza Posizione, Avanguardia Nazionale) e a sinistra (Nuclei Armati Proletari Gruppi d’Azione Partigiana, Prima Linea, Comitati Comunisti Rivoluzionari, Proletari Armati per il Comunismo, Brigate Rosse). All’interno del Pci fermentava gradatamente la grossa e pesante “grana” dell’espulsione del gruppo del Manifesto. Le mie scelte politiche si avvicinavano sempre più a Berlinguer che ascolta i giovani, segue con accuratezza il movimento studentesco, affida ai partiti un ruolo pedagogico, di mediazione e sintesi politica e sociale. Confesso che per me sarebbe temerario, audace e azzardato, avventurarmi in un tema ricco di molteplici aspetti e relazioni qual è il profondo rinnovamento che egli seppe portare non solo al Pci ma tutta la politica in generale. Eviterò con cura di cadere nella trappola di tentare qualsiasi analisi se non quella di riportare qualche emozione che la sua politica mi ha dato. Naturalmente, inutile dire che l’11 giugno del 1984, dopo essere stato colpito da ictus su palco mentre teneva un comizio per le elezioni europee, per la sua morte ho provato tanto dolore che piansi a dirotto come un bambino. Al suo capezzale sfilarono milioni di militanti e simpatizzanti, ma anche di avversari politici come il segretario del movimento sociale (Msi) Giorgio Almirante che assorto e a capo chino si fa il segno della croce di fronte alla bara di legno chiaro. Una folla variopinta assai emozionata dagli occhi lucidi di pianto, segni della croce e pugni chiusi, esprimeva ammirazione e amore a un leader carismatico e riconosciuto capo e segretario del più grande partito comunista occidentale. Partecipavo ogni qual volta potevo ai suoi comizi ricavandone sempre un beneficio politico, di democrazia e di cultura. Leggevo, meglio studiavo, puntualmente e avidamente i suoi articoli né “l’Unità” e “Rinascita. Seguivo con venature fideistiche la politica berlingueriana del dialogo con i cattolici, del compromesso storico, della ricerca di un nuovo modello di sviluppo compatibile, della condanna dello spreco e dello sperpero. Una politica innovativa e strategia incentrata nella scelta di riconoscere il Patto Atlantico e di conseguenza la graduale di distanza dell’Unione Sovietica per costruire un Pci aderente alla realtà italiana, che aveva come obiettivo la nascita di un socialismo democratico e di una politica eurocomunista con i francesi e spagnoli, anche per rimarcare sempre più l’autonomia dal sistema sovietico. E’ la questione morale che gli stava più a cuore fino a farne il perno della sua politica. Tema che, con famose le cinque interviste rilasciate a Eugenio Scalfari, si diffuse a macchia d’olio. La questione morale cui si riferiva Berlinguer non riguardava solo i casi di disonestà e illegalità sperperati nei partiti, nel mondo delle imprese e della classe dirigente, ma anche e soprattutto “l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”. I partiti, compreso lo stesso Pci a livello locale, ma tutti gli altri anche a livello nazionale, stavano alterando la democrazia italiana. Le istituzioni sono e devono rimanere, per il segretario del Pci, custodi degli interessi generali dello Stato e i partiti strumenti di congiunzione tra il popolo degli elettori e le istituzioni, tra la società, i ceti sociali e le categorie professionali. Il venir meno di questo rapporto rompe l’equilibrio, la democrazia si deforma e il populismo invade lo Stato. Problema di scottante attualità perché l’autonomia delle istituzioni non è stata raggiunta, anzi la loro occupazione ha toccato il suo zenit, soprattutto con il ventennio berlusconiano. Una parte del movimento studentesco percepì la nuova politica di Berlinguer un tradimento nei confronti della classe operaia e la fine di ogni opposizione nei confronti della Democrazia Cristiana. Intorno ad una esigua minoranza, ma ben determinata e risoluta, scelse l’estremismo politico, con Milano capitale dell’eversione e dove ebbe inizio il Movimento del ’77, con il Festival del proletariato giovanile organizzato nel giugno 1976 dalla rivista settaria e dogmatica Re Nudo. Una generazione di estrema sinistra, legata a dottrine e pratiche violente e contigue alle organizzazioni terroristiche, che aveva tra i principali nemici i sindacati e il Pci.

Sulla scia e gli insegnamenti della politica di Berlinguer seguivo e partecipavo da studente lavoratore agli eventi politici e sociali romani, senza trascurare lo scopo che attivava tutte le mie energie e desideri: laurearmi. Avevo una gran voglia di finire l’università e iniziare a lavorare. Conseguire la laurea per me avrebbe significato realizzare un vero e proprio riscatto sociale: nessuno aveva puntato su di me, né i professori dell’ Itis, né gli amici calabresi, né tantomeno mio padre. Avevo una voglia matta di gridare a tutto il mondo: “Ce l’ho fatta, sono un dottore in sociologia!” Quando accadde nel 1974, con la tesi sugli effetti economici e sociali dell’automazione, con massimo dei voti e lode e tra i primi cinque del corso di laura, consumai l’agognato traguardo limitandomi a un intimistico e liberatorio compiacimento. Continuai a occuparmi di politica con la solita passione, tanto che i miei paesani mi chiesero di candidarmi a sindaco. Mi sentii lusingato e accettai senza riflettere. Così nel 1975 divenni sindaco di Argusto e la mia passione verso la politica attiva la coltivai fino a ricoprire incarichi governativi: Commissario al Porto di Gioia Tauro, Presidente della Commissione di riserva dell’Area protetta di Capo Rizzuto e Commissario straordinario del governo per le Emergenze zootecniche.

A 50 anni del 1968, con il disincanto dell’uomo attempato, pensionato e deluso da una sinistra sempre più divisa e dilaniata, rivivo quel periodo personalizzando a mio uso e consumo la citazione da Papà Goriot di Bazac: chi non ha fatto il sessantotto non sa nulla della vita umana. . .

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