di Lucrezia Rubini
INTRODUZIONE
Molti artisti mi stanno confessando, sommessamente, che, a differenza degli altri, stanno vivendo un periodo di grande serenità, di attività indefessa, estremamente proficua per la produzione di opere.
Nel silenzio e nell’isolamento del suo studio, l’artista, lontano dai clamori del mondo, svolge il suo percorso diverso di ricerca. Tali condizioni sono per lui abitudini mai dismesse, che pertanto non costituiscono una difficoltà in tempi di lockdown: siamo noi che non riusciamo a stare da soli, a guardarci dentro, ad ascoltare la nostra anima, ad introiettarci; siamo noi che abbiamo bisogno sempre di conferme dall’esterno, di riconoscimenti, di affetto esternato necessariamente fisicamente.
L’immagine iconica, quale è quella artistica, richiede l’abbandono di abitudini in noi radicate, sia nella produzione, sia nella fruizione. Siamo portati a pensare l’immagine come un prodotto consolatorio, destinato al piacere dei sensi, evasivo e incantante, frutto di virtuosismo estetico: essa è invece il frutto di un percorso profondo dell’anima e nell’anima. L’immagine è un riscatto dalla finitudine umana, segnata dai limiti che le sono propri: il tempo della morte e lo spazio della reclusione. L’isolamento e il silenzio sono il contesto topologico della contemplazione creativa.
Altra condizione fondamentale per la produzione creativa è il “vuoto interiore”, la tabula rasa su cui poter scrivere da capo, ab origine, rinunciando ai clamori del mondo e sacrificandosi, mediante una sorta di morte e resurrezione dell’anima. L’accoglienza e la contemplazione, la rinuncia, la segregazione, una sorta di vita monastica, permettono di purificare dall’inquinamento acustico, luministico, percettivo, dal bombardamento continuo dei mass media e, ancor più, dei social, restituendo all’essere la sua dimensione intima, riflessiva, nel senso di ri-flettente, ovvero ripiegante su sé stessa e in sé stessa, per guardarsi dentro.
Questo recuperato “spazio dell’anima”, in un luogo-non luogo, potrà aprire porte, regali, dove abitano gli invisibilia: strumento d’accesso a questi sono le espressioni dell’arte visiva e musicale (o entrambe nelle arti della danza o drammatica).
L’immagine è utopia nel senso filosofico del termine. Lo è in quanto è fuori dal luogo e dal tempo; per sua natura ci presagisce il futuro dell’umanità e del nostro stesso futuro.
Ecco, di contro alla depressione, allo scoraggiamento, alla paura, all’ansia, l’arte riesce ad attivare percorsi “altri”, salvifici, in quanto fa appello a dimensioni del sentire che vanno oltre la logica, oltre la razionalità.
Si tratta della dimensione del simbolo, del trasferimento in un luogo- non luogo di eventi che attraverso l’arte vengono trasfigurati e trasformati in qualcos’altro.
In questo senso l’arte, e, a mio avviso, solo l’arte, può apportare nei tempi odierni non semplicemente un contributo specifico, come potrebbe fare la psicologia, o la religione per chi crede, o la meditazione, ma essa costituisce l’unica via salvifica, in quanto diversa e divergente, eppure capace di approdare al nucleo del problema, attingendo dall’animo umano quelle risorse che, come corde intoccate e intoccabili, vengono agganciate e fatte emergere alla coscienza e alla consapevolizzazione, senza passare per la conoscenza.
Dunque dall’intuito e dalla dimensione patetica si potrà innescare tale processo di riconoscimento del sé profondo e indelebile, proprio perché immateriale.
Un processo induttivo che dall’universale, dal caos indistinto, approda all’individuo, per poi ritornare a rispecchiarsi di nuovo nel macrocosmo, di cui pure quell’individuo è, non punta d’iceberg, ma vettore.
La conoscenza, infatti, è inutile e impotente difronte a questo fenomeno salvifico, che l’artista veggente, sciamano, profeta, demiurgo, è in grado di innescare. Questo perché l’artista è recettore sensibilissimo, per la sua vibratilità fortissima; ha sentore di ciò che lo circonda, ne è sensiente, in quanto sensitivo e sapiente, e rivive in sé gli engrammi di warburghiana memoria, che vibrano nell’umanità[1].
L’artista, capro sacrificale del dolore del mondo, capace di accogliere gli antichi monstra, che ciclicamente si riattivano, rivive in sé un Tutto- Caos che poi riversa con un’implosione immediata, ovvero non mediata dalla logica, nell’opera d’arte, restituendo quel dolore come bellezza e armonia.
L’opera d’arte dunque si carica di energie, anzi riattiva engrammi, mediante flussi centripeti (implosivi) e centrifughi (esplosivi). Con un effetto ping-pong, l’opera sembra animarsi e vivere di vita propria, in una sorta di animismo recuperato: l’oggetto che stiamo guardando, allora, diventa soggetto e sentiamo che ci ri-guarda!
Quel crogiolo di energia ad alta tensione, che è la creatività, attiva processi dionisiaco-apollinei, che dialogano con l’immateriale. Se il male è materiale, il suo contrapposto potrà essere, non una materia più forte, ma un immateriale che saprà innescare energie da altri luoghi non topologici.
L’immateriale, a cui faccio riferimento, scaturisce da una dimensione mnestica, attinta dall’artista, mediante la sua azione intuitiva, al patrimonio primordiale dell’umanità, ovvero essa è memoria inconscia e collettiva, ereditata e poi rimossa.
Nell’opera d’arte, che ha caratteristiche materiali, si innesta, anzi emerge, un’eccedenza, un quid, che va oltre il visibile, che pure da quel visibile ha origine. Tale quid può essere identificato in un pathos primordiale, al quale è necessario risalire, per poter percepire quanto l’artista riesce a riversare, a caricare, nell’opera d’arte, per poi restituircelo, tramite il diaframma dell’opera d’arte stessa. Questo percorso del pathos, salvifico, cercherò di delineare in questa sede.
- DIMENSIONE ESTETICA DEL PATHOS[2]
1.Velleità della ricerca di un luogo della dimensione estetica
La caratteristica specifica della dimensione estetica—dove il termine dimensione è del tutto provvisorio, poiché neanche tale attributo definitorio gli si potrebbe dare—è di essere indicibile, cioè non logicizzabile, non razionalizzabile, non definibile.
È più facile, pertanto, dire ciò che non è: in seguito a tale operazione destruens, ciò che rimane, una sorta di scarto—o di eccedenza-- può fornire un indizio della dimensione estetica.
La dimensione estetica non ha neanche un luogo suo proprio, deputato, dove poterla andare a cercare. Sappiamo solo che è propria degli uomini e non degli animali.
Semmai si può parlare di oggetti, che hanno un valore strumentale ai fini del farla emergere—o scatenare--: le opere d’arte. Ma non vi è un luogo, individuabile nel soggetto, in cui si può dire che tale fenomeno si verifichi. D’altra parte ostinarsi a cercare tale luogo sarebbe del tutto velleitario, poiché collocare significa concretizzare, determinare, definire: caratteristiche tutte incompatibili con quelle specifiche dell’esperienza estetica.
- Pathos come sintomo della dimensione estetica
Benché l’esperienza estetica non sia localizzabile, essa non è tuttavia astratta, anzi è legata alla fisicità, in quanto fa appello al sentire. Tale possibilità esperienziale è propria, potenzialmente, di ogni essere umano ed è, pertanto, comune. Possiamo parlare, allora, di un sentire comune a tutti gli uomini, cioè di una dimensione universale. Questo significa, ancora, che coloro che sono coinvolti in tale esperienza, possono sentire insieme, collettivamente; possono condividere tale esperienza, ma non possono comunicarla intersoggettivamente mediante gli strumenti logici del linguaggio: possono solo partecipare ad essa.
Sentire, partecipazione, pathos, costituiscono uno stesso nodo tematico, di cui però, come dicevamo sopra, non si può individuare un luogo. Si può paragonare tale esperienza ad una strana malattia, di cui il paziente vive i sintomi, ne è affetto, ma non solo non è in grado di descrivere, definire tali sintomi, ma neanche di localizzarli, affinché si possano individuare le parti malate ed intervenire su di esse, impostando una diagnosi ed una conseguente terapia. Continuando con questa metafora, potremmo dire che tale malattia, pertanto, è incurabile, in quanto non è diagnosticabile, benché ne conosciamo almeno le cause scatenanti -- le opere d’arte, intese sia come arti figurative, sia come danza o dramma teatrale, sia come musica, sia come l’insieme di tutte queste manifestazioni.
Un’altra caratteristica dell’esperienza estetica, che intendiamo ora come qualcosa di patetico—o persino patologico--, è il suo carattere atemporale: gli uomini di tutti i tempi ne sono stati affetti; e di questo ci danno testimonianza gli antichi miti.
- Percorsi del pathos come rivisitazione di percorsi estetici.
Creare un nesso stretto tra l’esperienza artistica e il pathos non ha la pretesa né di individuare una definizione, né un luogo di tale esperienza: elementi definitori, questi, incompatibili con essa. L’esperienza artistica non si identifica, non si esaurisce, non si risolve nel pathos. Tuttavia questo ne fa parte integrante, ne è l’indice, il sintomo, ne denuncia la presenza in quanto ne condivide le caratteristiche di non definibilità, non logicizzabilità e, di contro, di coinvolgimento, di partecipazione, di pateticità.
L’esperienza estetica ha come caratteristica peculiare un’irrisolvibilità, che sarebbe pretestuoso, velleitario, snaturante, disumano, cercare di risolvere. Ciò che essa ci chiama a fare è di sentire, di vivere. Svolgere percorsi estetici allora può significare solo rivivere, identificarsi in tale esperienza universale e atemporale, attraverso il tempo, usando il pathos come un filo rosso sempre riemergente, sotto forme diverse: dai riti e i miti degli antichi Greci, alle feste fiorentine rinascimentali, alla riflessione, sullo scorcio dell’Ottocento, sul ruolo del sentire (leggi empatia), da parte specialmente di filosofi tedeschi.
Il presente saggio vuole ripercorrere il cammino del pathos, inteso come dimensione irriducibile dell’esperienza umana in toto, e di quella estetica, in particolare, intesa come elemento vitale, che trova nella tragedia attica e nella festa, sia essa religiosa o celebrativa, momenti di massima espressione, in termini di coinvolgimento e partecipazione, specialmente nell’antica Grecia e nei miti di Dioniso e di Apollo.
Tali temi si qualificano come estetici, in quanto il pathos costituisce, come cercherò di dimostrare, l’elemento peculiare dell’esperienza estetica, e seguirne i percorsi può aiutare a capire perché esso abbia costituito, sempre, una necessità connaturata all’uomo.
Tutto questo per prendere atto dell’insufficienza della conoscenza, persino dell’uomo moderno, di fronte ai fenomeni che eccedono la razionalità, che appartengono alla dimensione dell’opacità, dell’occulto, che sempre riemerge, e che non può essere repressa, né ignorata; di cui va anzi preso atto, va riconosciuta, persino conservata, affinché costituisca un ulteriore elemento di consapevolezza e riorientamento nel caos del tutto.
- ALLE ORIGINI DEL PATHOS: DIONISO CONTRO APOLLO
- Il mito di Dioniso come necessità primordiale
Il significato originario di mito, in greco, è ‘parola’, come ‘logos’. Solo in seguito le due espressioni avrebbero diversificato i loro significati per indicare: logos, la parola chiara, razionale, sensata; e mito, il racconto favoloso, fantastico. In Omero i due significati sono più chiaramente identificabili: logos è la parola pensata, ponderata, convincente, propria della scelta; mito è ‘la Parola’, la storia effettiva di ciò che è accaduto in passato e vive nel presente, parola sacra, espressione dell’esperienza primordiale, rivelatasi come verità.[3]
La verità rivelata è una potenza che si trasferisce necessariamente in un’azione immediata, che non è scelta ponderata, pensata, logos, appunto, ma è azione totale, che afferra totalmente l’uomo e conferisce una forma alla sua esistenza. Il mito è qualcosa di già dato, di sempre esistito, di non costruito dall’uomo e dalla sua intelligenza, e che l’uomo non può padroneggiare, perché è una forza inesorabile, che si è invece impadronita di lui. L’uomo è impotente di fronte al mito, la sua unica reazione possibile, e necessaria, inesorabile, inevitabile, è di vivere, partecipandola in un’azione immediata, la verità data. Tale verità non è logica, ma originaria.
- Prima il pathos, poi il logos
In quanto essere pensante e sociale l’uomo ha bisogno di ridurre il pathos, cioè il sentito informe, a linguaggio comunicabile: l’informe deve calarsi in una forma.
Tale forma, anzi forme, costituiscono il culto, che si espleta in azioni rituali, consistenti in danze, o realizzazione di immagini sacre o espressione di formule sacre.[4] Bisogna a questo punto precisare immediatamente due punti: I ) il logos, la parola, la forma, la chiarezza, presuppongono il pathos, l’informe, l’oscuro, il sentire che sconvolge; questi precedono, presuppongono, sono la condizione sine qua non di quelli; II) le forme cultuali, inventate dall’uomo pur di indicare in qualche modo il mito, il divino, questa particolare verità, non sono assolutamente sufficienti per dare una forma definitiva, chiara, esauriente di tale dimensione-- che potremmo chiamare per comodità pathos—e tuttavia è il pathos stesso che reclama una tale forma, che costituisce a sua volta una necessità per esso.
- Dioniso, dio del pathos primordiale: natura divina e ferina in un essere multiforme
Il mito di Dioniso è sicuramente il più significativo per indicare la dimensione patetica di cui qui ci occupiamo. Dioniso è il dio dell’occulto, dell’illusione, dell’inganno, delle metamorfosi, della contraddittorietà di sentimenti opposti-- gioia e dolore; è dio della vita e della morte, degli Inferi e del Cielo; dell’oblio, della perdita dell’autocoscienza, della misura e del controllo: è dio mostruosamente duplice e molteplice.
Fin dal momento del concepimento due nature, una divina ed una umana, si erano unite per dar vita ad un ibrido: un essere in cui convivevano l’essenza divina e l’essenza umana, quella celeste e quella terrestre.[5] La divinità si era rivelata agli uomini incarnandosi, l’informe si era fatto forma, ma aveva portato con sé una dimensione occulta e terribile, una verità non percepibile per l’occhio umano e perciò sconvolgente. Dioniso, dio della dualità, è detto il “nato due volte”: la madre Semele, al sesto mese di gravidanza, venne punita con la morte, per aver avuto la colpa di voler conoscere l’umanamente inconoscibile, la natura divina di Zeus,[6] e questi porta a termine la gestazione cucendo il feto nella sua coscia.[7] Appena nato rivela la sua natura metamorfica e sempre risorgente: quando i Titani, per ordine di Era, lo fanno a pezzi, egli, per intervento di Rea, risorge, dopo essersi trasformato in leone, serpente e toro. Vita, morte, resurrezione sono esperienze note a Dioniso, che è dio degli Inferi, della Terra e delle Acque. Come dio degli Inferi, discese nell’Ade e indusse Persefone a liberare la madre Semele; inoltre visse in una grotta, sul monte Nisa, affidato alle cure delle ninfe,[8] per sfuggire ad Era, dopo che era scampato ai Titani. Come dio della terra è signore della vegetazione: gli sono sacri la vite, l’edera, il melograno, il fico, il pino. Come dio delle acque scompare nel mare, dove viene accolto dalla dea Teti, per salvarsi dalla persecuzione di Licurgo, ostile al suo culto.
Dioniso ha anche una natura multiforme di tipo ferino, selvaggio, primitivo. Ho già parlato della trasformazione in leone, serpente e toro—tutti animali feroci, selvaggi e legati alla terra--, delle sue membra disjecta, di cui avevano fatto scempio i Titani. La tigre lo aveva aiutato, in Oriente, durante l’opera di diffusione della viticoltura, inviatagli in soccorso da suo padre Zeus, per attraversare il fiume Tigri. Presso il monte Nisa egli acquista le sembianze di un capretto e quest’animale è la vittima dello scempio da parte delle menadi invasate e infuriate che, dopo averlo fatto a pezzi, lo mangiano vivo. Solo per gli enti mostruosi del mondo dei morti troviamo belve divoratrici di carne cruda, come Cerbero, Echidna, l’Idra di Lerna e la Chimera, esseri del mondo degli Inferi, dell’occulto, dell’oblio, con cui Dioniso aveva dimestichezza.
L’oblio deriva dall’ebbrezza, data dal vino, che può avere proprietà curative e antidolorifiche, ma può anche portare alla perdita dell’autocoscienza e del controllo, all’allucinazione. Questa rovescia le strutture logico-temporali e spaziali della realtà, rendendo presente ciò che è assente, rivelando una realtà altra, quella di una verità primordiale, la cui vista è però insostenibile per l’uomo, lo sconvolge e lo rende demente. Con l’avvento del dio le forze dell’occulto emergono, si scatenano, spezzano l’aspetto del mondo ordinario e ordinato, rimandano al caos primordiale.
- Le Menadi: enti del pathos eccedente[9]
Il simbolo di tali forze occulte è reso efficacemente dall’immagine delle Menadi. Ce ne offre un esempio significativo la statua di Skopas: la sua Menade[10] è sconvolta da un moto esagitato, da un pathos esasperato e incontrollato; il busto è gettato all’indietro e avvinghiato in una torsione forzata, come la testa dai capelli scarmigliati. In preda al delirio, all’allucinazione, alla furia, le Menadi non riescono a distinguere talvolta neanche i propri figli, assassinandoli—come fa Agave nei confronti del proprio figlio Penteo, nella tragedia delle “Baccanti“ di Euripide. Si possono considerare piuttosto le Menadi, che Dioniso, le vere depositarie del pathos, di cui il dio è, invece, il consapevole generatore: esse, infatti, sono invasate, cioè rapite, sconvolte dal dio.
Che Dioniso sia l’abile regista delle situazioni da lui stesso create, che abbia sempre una funzione attivamente ingannevole nei confronti delle sue vittime-- uomini colpevoli di voler dominare la realtà con la razionalità—è dimostrato nella tragedia che porta il nome delle sue stesse seguaci, le “Baccanti” di Euripide. Qui tutta l’azione drammatica è basata sul concetto del rovesciamento: dei ruoli, dell’identità, del potere. Secondo Penteo le Baccanti praticano riti osceni, mentre si rivelano composte e ordinate; Dioniso induce Penteo ad indossare una grottesca maschera femminile, che gli fa perdere l’identità; quando Penteo crede che le Baccanti siano in carcere, queste, invece, sono fuggite miracolosamente; mentre egli è intenzionato a dar loro la caccia, esse diventano da prede, cacciatrici; egli vuole dare la caccia anche a Dioniso, ma delle sue membra sarà la stessa madre accecata a farne scempio; egli ha la presunzione di pensare di poter dominare il dio, ed invece ne è dominato; Penteo vuole vedere le Baccanti sul monte Citerone, senza essere visto, mentre sarà lui ad essere visto, senza riuscire a vedere. La tragedia delle Baccanti insegna che è velleitario cercare di uscire dai propri limiti umani, perché, ciò che vi è oltre, è inconoscibile per la mente umana, e terribile. La colpa di Penteo consiste nel ritenere di poter affrontare le forze dell’occulto, e dominarle, con la razionalità umana, come se tale dimensione umana, limitata, potesse contenerne una, divina, incommensurabile.[11]
Il legame di Dioniso con le Menadi è da ricollegare al carattere neolitico, primitivo e terrigno del dio, in quanto l’elemento femminile è indice primigenio di fertilità. Egli è sempre circondato da donne. Le Menadi sono in realtà quelle Ninfe, che lo avevano allevato da bambino nella grotta del monte Nisa. Le Ninfe sono esseri legati alle acque—e abbiamo visto che Dioniso ha dimestichezza anche in tale elemento—; il loro nome deriva da lympha, cioè acqua. Quando il piccolo divenne adulto, lo seguirono nelle sue scorribande e furono dette anche “balie”. Le Ninfe danzanti, trasformate per influsso del dio in Menadi sfrenate, da balie e nutrici che danno la vita, diventano terribili furie che danno la morte -- persino ai propri figli, come abbiamo visto.[12]
Alle grida e alle corse sfrenate, però, talvolta subentrano la paralisi del terrore, lo sguardo fisso e assente, il silenzio dell’ipnosi e della morte, che fissa il volto in una maschera.
- La maschera come epifania del dio e specchio gorgonico del pathos
La maschera è un altro mezzo dell’epifania del dio: ne indica la presenza, pur non rappresentandolo, in quanto irrappresentabile. La maschera ha un valore rituale e sacrale: è strumento usato nelle danze rituali, e mezzo di avvicinamento al dio, in quanto oggetto di venerazione. La maschera, con la sua rigida frontalità, è mera superficie, non ha nulla dietro di sé, si fa incontro al fedele, o all’adepto, mostrandosi e sottraendosi, ovvero mostrando un’immagine enigmatica, che rimanda ad altro da sé; è simbolo di ciò che è, e allo stesso tempo non è: immediata presenza e allo stesso tempo assoluta assenza.[13] La maschera è indice dell’epifania di Dioniso, che è coinvolgente e immediatamente sensibile ed è collegata con l’infinito enigma della duplicità e della contraddizione; la maschera lo rivela nella presenza, ma nello stesso tempo lo sottrae in una lontananza indicibile. Ci sconvolge con una vicinanza che è al tempo stesso un ritrarsi. La sua funzione non è rappresentativa, ma piuttosto si può paragonare ad uno specchio, che attrae, in quanto sembra riprodurre l’immagine di chi si avvicina, ma allo stesso tempo ri-flette, cioè si piega su sé stesso, si sottrae e rimanda al soggetto stesso, respingendolo: questo movimento andirivieni è però del riguardante, perché lo specchio-maschera è fisso e paralizzante, come una Gorgone.[14]
6.Dioniso e Apollo: una dualità complementare[15]
Apollo è il dio opposto a Dioniso, è il dio olimpico della solarità, del pensiero chiaro e misurato, che ispira la poesia; è il dio del “conosci te stesso”, dell’autocoscienza. Tuttavia vi è una coincidentia oppositorum tra i due. Anche per Apollo le Ninfe ebbero un ruolo importante, ma, a differenza di Dioniso, fu lui ad inseguirle: infruttuosamente, come nel caso di Dafne, oppure felicemente, come nel caso di Talia, con cui generò i Coricanti. Questi erano demoni appartenenti al seguito di Dioniso, e costituiscono pertanto un altro anello di collegamento tra le due divinità.[16]
Entrambi gli dei hanno poteri profetici. A Delfi i due si riconciliano: nei tre mesi invernali, quando Apollo si allontanava da Delfi per soggiornare negli Iperborei, veniva sostituito da Dioniso, come destinatario del culto; nel tempio del IV secolo uno dei frontoni conteneva la raffigurazione di Apollo e delle Muse, l’altro quella di Dioniso e delle sue sacerdotesse. Infine la mitologia colloca la tomba di Dioniso nel santuario stesso di Apollo, a Delfi:[17] così è proprio dall’Apollo delfico che vennero i più forti impulsi per dar vita al culto dionisiaco.
Fin qui la mitologia. Ma la mitologia è espressione di bisogni profondi, sentiti universalmente dagli uomini, e che, nel racconto mitologico, trovano una forma simbolica, metaforica, analogica: perché ciò che è pathos primigenio, come abbiamo visto, non si può dire, non si può ridurre a linguaggio logico, apollineo. Il mito è il luogo del terribile primigenio che, proprio perché si vuole dimenticare-- ma nello stesso tempo non si può eliminare, né razionalizzare--, viene esorcizzato mediante la maschera del racconto o del dramma teatrale tragico.
- Dioniso, indossando la maschera tragico- apollinea, si rende epifanico agli uomini
La rappresentazione, narrativa o drammatica, ci permette di rivivere il primordiale, ma allo stesso tempo di posizionarci rispetto ad esso con un certo distacco: ci coinvolge, mediante un certo grado di identificazione, ma non ci travolge, grazie alla separazione della scena.
In questo senso, Aristotele parlava di funzione catartica della tragedia: alla massima tensione dell’azione drammatica segue lo ”scarico” del pathos vissuto, cioè un senso di rilassamento, ma anche di ripresa di coscienza della realtà.[18]
Una funzione simile svolgono ancora oggi le favole-- dove il protagonista, dopo aver vissuto il pathos di tanti pericoli, assurge al loro ‘superamento apollineo’--;[19] o l’analisi psicanalitica, che facendo rivivere al paziente, cioè ricordare, situazioni traumatiche-- perciò cariche di pathos-- vissute nel passato dal paziente, gli permette di superarle, raccontandole.
Il pathos, in definitiva, richiede di essere calato in una forma, affinché sia comunicabile e condivisibile, cioè partecipato.
- Dioniso, per rendersi forma, deve dividersi
Fin qui ho definito Dioniso come un ente primordiale; pertanto si può definire anche come l’Uno primordiale, originario, indistinto, il Tutto, opposto al principium individuationis apollineo.
L’Uno originario è irrappresentabile e impensabile. Affinché l’individuo possa percepire, partecipare, essere coinvolto, pensare qualcosa, ha pur bisogno di oggettivare, concretizzare in una qualche forma tale percepito. Dioniso, pertanto, per potersi calare in una forma-- maschera, danza, musica che sia-- deve calarsi in una forma specifica, deve rinunciare alla sua unità e dividersi in una forma particolare, specifica, apollineamente individuale, altrimenti non si potrebbe neanche manifestare in alcun modo.
La necessità della divisione, intesa come lacerazione, sacrificio, rinuncia a qualcosa, morte di qualcosa, affinché la nascita, la formazione di qualcos’altro di nuovo—e sempre individuale—sorga, trova conforto nel mito stesso; basti pensare-- per rimanere nell’ambito tematico dionisiaco, allo smembramento (sparagmòs) e alla disseminazione del capretto da parte delle Menadi, ricordo di primitivi riti neolitici e ctoni di sacrificio.[20] Lo stesso fenomeno abbiamo osservato a proposito delle varie trasformazioni manifestate da Dioniso, smembrato dai Titani.[21] Tale processo si potrebbe sintetizzare nelle seguenti fasi: I) l’Uno viene ucciso, sacrificato, diviso e diventa Molteplice; 2) il molteplice, attraverso varie trasformazioni, approda ad una forma particolare, individuale.
La forma individuale, pertanto, presuppone l’Uno, e anzi ne conserva una parte-- nella memoria--, non lo sopprime. Inoltre tale forma non è mai definitiva, perché rimanda sempre a quell’Uno originario ed anche a quel Molteplice, sempre originario, derivato dalla lacerazione-sacrificio dell’uno, che continua a vivere in essa, attribuendogli significati sempre molteplici. Da qui il carattere di molteplicità semantica e di irrisolutezza della forma estetica, che gli conferisce una problematicità tragica.
III DIONISIACO E APOLLINEO IN NIETZSCHE
- Il Pathos primordiale reclama una forma
Abbiamo già osservato che il pathos è primordiale, nel senso di precedente rispetto al logos, alla forma, al linguaggio; tuttavia dionisiaco e apollineo costituiscono due facce di una stessa medaglia: sono complementari, anzi sono necessarie l’una all’altra, l’una non può sussistere senza l’altra. L’apollineo non può mai liberarsi totalmente dal substrato dionisiaco, sempre risorgente, mentre il dionisiaco reclama pure una forma, un’immagine, come mezzo necessario perché possa esistere, sussistere, rivelarsi in qualche modo agli uomini, a cui fa appello.
L’immagine, la rappresentazione, diventa luogo, anzi mezzo di comunicazione, di trasmissione, di coinvolgimento—e non di comprensione esaustiva-- del pathos.
Il pathos non può fare a meno dell’immagine, della forma, perché è solo attraverso essa che può darsi al riguardante. Questi è chiamato a partecipare della polivalenza, della stratificazione semantica di cui l’immagine si carica, anzi si sovraccarica. L’immagine è come tesa fra due polarità: da una parte l’opacità, dall’altra la trasparenza. Per trasparenza si intende la capacità dell’immagine di essere verbalizzata, e per questa via comunicata logicamente, ma dall’altra parte si avverte che vi è una zona oscura che ci sfugge, che non può essere ridotta a linguaggio verbalizzabile, che fa appello al nostro sentire, e che può essere fruita solo mediante la partecipazione, il darsi, a sua volta, del riguardante. Questa dualità irrisolvibile, eccedente, sfuggente, ha un carattere tragico.
2. La tragedia come forma propria del pathos
L’immagine è dunque coinvolgente, perché non rimanda ad un fuori da sé, oggettivabile e dominabile, ma è una specie di gorgo mostruoso, attraente e respingente, che può risucchiarci nel suo dentro occulto, ci può far perdere la coscienza, si può impossessare di noi--come un Dioniso--, ci può far inabissare nel suo fulcro centripeto indefinito e illimitato.
Dobbiamo pertanto prendere la giusta distanza da essa, ridimensionarla, per renderla umanamente accessibile. Ho parlato sopra di tale funzione relativamente alla narrazione, al racconto; ma la forma propria del pathos, in quanto riesce a renderne il carattere primigenio oscuro e coinvolgente, è la tragedia. Essa ha sempre un carattere di dualità insoluta— tra due scelte opposte da parte dei personaggi rappresentati—e mette in scena, cioè ‘mette in mostra ’ i sentimenti, il pathos, in modo immediato, e pertanto coinvolgente per lo spettatore.
Già Aristotele, nel sostenere la superiorità della tragedia rispetto all’epica, la definisce “più concentrata”,[22] in grado di coinvolgere lo spettatore, a tal punto che “per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga”.[23]
- La nascita della tragedia: dionisiaco e apollineo in Nietzsche
Nietzsche, nell’opera La nascita della tragedia[24], sviluppa appieno le tematiche che abbiamo trattato finora, sia riguardo ai rapporti tra ‘dionisiaco’ e ‘apollineo’, sia fra questi e la tragedia. Egli sostiene che l’opera d’arte è legata alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco-- che costituiscono due impulsi opposti, del sogno e dell’ebbrezza--, che trovano espressione rispettivamente nella scultura e nella musica.[25]
La musica ha un carattere di immediatezza, che la qualifica come dionisiaca e originaria, e che non può mai trovare espressione piena nel linguaggio:
«…il simbolismo cosmico della musica non può essere in nessun modo esaurientemente realizzato dal linguaggio, perché si riferisce simbolicamente alla contraddizione e al dolore originari nel cuore dell’uomo primordiale, e pertanto simboleggia una sfera che è al di sopra di ogni apparenza e anteriore a ogni apparenza […]quindi il linguaggio, come organo e simbolo delle apparenze, non potrà mai e in nessun luogo tradurre all’esterno la più profonda interiorità della musica, ma rimarrà sempre, non appena si accinga ad imitare la musica, solo in un contatto esteriore con la musica…».[26]
Anche per Nietzsche il dionisiaco precede e sottende l’apollineo; Apollo deve combattere contro i Titani del Caos primigenio indistinto, ma questa lotta tra le due forze opposte approda ad un’illusione:
«… dall’originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia…».[27]
Dove nell’arte incontriamo l’”ingenuo”, dobbiamo riconoscervi l’effetto supremo della cultura apollinea: quest’ultima dovrà anzitutto avere abbattuto un regno di Titani e ucciso mostri ed essere risultata vittoriosa, per mezzo di forti immagini chimeriche e liete illusioni, su una terribile profondità di contemplazione del mondo e una eccitabilissima capacità di soffrire.[28]
Ma l’elemento dionisiaco si rivela irriducibile e l’apollineo non riesce mai a riscattarsene completamente:
«“Titanico” e “barbarico” appariva al Greco apollineo altresì l’effetto provocato dal dionisiaco, […] tutta la sua esistenza, e così ogni bellezza e moderazione, poggiava su un fondamento—mascherato—di sofferenza e di conoscenza, che a lui veniva di nuovo svelato da quel dionisiaco. Ed ecco che Apollo non poteva vivere senza Dioniso! Il “titanico” e il barbarico erano una necessità, così come lo era l’apollineo».[29]
Allo stesso modo può essere trasmesso all’uomo solo ciò che passa attraverso la trasfigurazione apollinea, “sicché questi due istinti artistici sono costretti a sviluppare le loro forze in stretta proporzione reciproca”.[30]
La forma artistica, in cui l’elemento dionisiaco è più vivo è, secondo Nietzsche, la tragedia greca delle origini, in cui aveva un ruolo fondamentale il coro, anzi egli sostiene che la tragedia “è sorta dal coro tragico”,[31] aderendo in questo, a suo dire, ad una tradizione ben consolidata. Infatti anche Aristotele legge nella musica e nel ritmo delle danze dei cori di satiri, che improvvisavano, l’inizio della poesia:
«Poiché dunque noi siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare, della musica e del ritmo (i versi, è chiaro, fanno parte del ritmo), dapprincipio coloro che per natura erano più portati a questo genere di cose, con un processo graduale dalle improvvisazioni dettero vita alla poesia. La poesia pio si distinse secondo la proprietà dei caratteri…».[32]
Per quanto riguarda specificamente la tragedia, Aristotele individua, nel suo sviluppo, tutte quelle tappe che, come vedremo, Nietzsche considererà degenerative:
«Sorta dunque da un principio di improvvisazione—sia essa sia la commedia, l’una da coloro che guidavano il ditirambo, l’altra da coloro che guidavano i cortei fallici che ancora oggi rimangono in uso in molte città—a poco a poco crebbe perché i poeti sviluppavano quanto in essa veniva manifestandosi, ed essendo passata per molti mutamenti la tragedia smise di mutare quando ebbe conseguito la propria natura. Eschilo fu il primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre la parte del coro e a conferire un ruolo rilevante alla parola; di Sofocle sono i tre attori e la pittura degli scenari».[33]
Dunque la tragedia: nasce dall’improvvisazione, cioè da un comportamento spontaneo; agli inizi il protagonista unico è il coro, che si esprime nell’immediatezza—perché non mediato dal dialogo—della musica e nel ritmo, libero, della danza; poi, gradualmente, il coro assume un ruolo sempre più secondario, sostituito in gran parte dagli attori e dal loro dialogo. Potremmo definire tutto questo processo una graduale logicizzazione-- una riduzione a linguaggio parlato, dialogico--, del pathos della danza.
In sintesi, possiamo riconoscere tali manifestazioni opposte, dell’azione libera e immediata della danza da una parte, e del dialogo dall’altra, come caratteristiche peculiari rispettivamente del pathos e del logos, del dionisiaco e dell’apollineo.
Nietzsche, nell’elemento patetico e partecipativo del coro dei satiri, quindi nel dionisiaco, legge lo specifico della tragedia. Questa è la manifestazione di una natura primigenia, che trova il suo simbolo nel Satiro, ed è mezzo di salvezza e di consolazione, per il Greco.[34] Anche per Nietzsche l’arte ha una funzione catartica: egli sostiene che attraverso il rivivere, partecipandola, la primigenia e terribile dimensione dionisiaca, la si può superare, e sopravvivere:
«…si avvicina come maga che salva e risana, l’arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni in cui possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei Satiri del ditirambo è l’azione salvatrice dell’arte greca».[35]
La partecipazione, tuttavia, può avvenire solo mediante un’identificazione in un tutto indistinto: è ciò che avveniva agli inizi nella tragedia greca, quando il coro faceva tutt’uno con lo spettatore, che quindi era co-protagonista di quanto veniva, non rappresentato, ma vissuto, in una specie di allucinazione collettiva, nella participation mystique con la natura.[36]
La causa del coinvolgimento e dell’identificazione è da cercare nell’eccitazione, nell’enthousiasmòs—cioè ancora nel pathos--, che fa appello all’agire della danza sfrenata e all’ascoltare la musica coinvolgente, mai al dire.
La musica in questo senso svolge un ruolo fondamentale, ipnotizzante e coinvolgente, in quanto fa appello non alle facoltà logiche, ma a quelle intuitive, istintive, primordiali, che permettono di attingere direttamente a quel sostrato comune e universale, ante re ormai perduto:
«Giacché la musica, come si è detto, è diversa da tutte le altre arti in ciò, che non vi è immagine dell’apparenza, o meglio, dell’adeguata oggettività della volontà, bensì immediatamente immagine della volontà stessa, e rappresenta dunque, rispetto a ogni fisica del mondo, la metafisica, e rispetto a ogni apparenza, la cosa in sé. […] …la musica dà invece il nucleo intimo, precedente ogni configurazione, ovvero il cuore delle cose. […] …i concetti sono gli universalia post rem, mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re».[37]
Se la musica è un mezzo del coinvolgimento e della partecipazione, la scena ne è il luogo. La scena fu pensata originariamente, insieme all’azione del coro, come visione, ed è il coro, che “produce fuori da sé la visione”,[38] mediante il simbolismo della danza e della musica. Vi è un’identificazione tra spettatore e coro, che porta all’annullamento dell’individuo – antitetico pertanto al principium individuationis apollineo— alla perdita di sé, in un tutto indistinto.[39]
Il tipo di percezione, che lo spettatore ha di fronte a tale manifestazione, si può indicare con le espressioni: incantesimo, sogno, illusione, visione, estasi, mai epos. Le immagini, che lo spettatore genera, sono costruite dal suo stesso stato allucinatorio; solo in seguito, per motivi scenici e drammatici, Dioniso viene ‘materializzato’ sulla scena, mediante una maschera, così come il suo opposto Apollo, deus ex machina risolutivo.[40]
Nel momento in cui il coro, dalla sua posizione immanente rispetto al pubblico—e pertanto coinvolgente--, viene spostato, per il nuovo ruolo svolto, quasi sulla scena-- in quanto viene relegato ad una funzione di commento, intercalata al dialogo tra gli attori, cioè tra i personaggi costruiti sulla scena--, la tragedia attica muore, e nasce la commedia attica nuova. Questo processo viene interpretato da Nietzsche non come una trasformazione della tragedia, ma come la sua fine, in quanto eliminare il ruolo del coro, significa eliminare, per lui, lo specifico, l’”essenza” della tragedia, che è una “ simbolizzazione visibile della musica” e una “manifestazione di stati dionisiaci”, rappresentati, appunto, in modo immediato dal coro, e non oggettivato sulla scena.[41] Questo depauperamento della carica patetica originaria della tragedia comincia con Eschilo e si conclude con Euripide, come ci ha spiega Aristotele, e il mezzo, che lo caratterizza, è la parola, il dialogo tra gli attori, il loro fare appello alla razionalità, all’obiettività, all’analisi descrittiva della realtà, intesa come tangibile ed umanamente delimitabile e definibile: insomma è l’apollineo.
Dalla creazione di miti, si passa alla costruzione della realtà, dall’intuizione del pathos, all’introspezione psicologica, dalla partecipazione collettiva, all’imitazione di una maschera fissa, dalla saggezza del Satiro, alla scienza del filosofo socratico, da una concezione del mondo tragica, ad una concezione del mondo teoretica: dal dionisiaco all’apollineo.
- Indissolubilità insoluta di dionisiaco e apollineo nell’opera d’arte
Abbiamo già osservato come Dioniso reclami una forma, affinché sia in qualche modo percepibile dall’uomo, e che tale forma gli viene fornita dall’illusione e dal sogno prodotto da Apollo, che approda all’opera d’arte. Ma questa ha come caratteristica sua peculiare, estetica, di non essere mai completamente decifrabile, dicibile, incasellabile nell’apollineo, in quanto ad essa sottende sempre l’elemento dionisiaco, che trapela, che travalica la forma tangibile, facendo appello a qualcosa di metafisico, che fa appello al sentire, al pathos. L’opera d’arte ha un carattere di insolubilità, in quanto risulta dall’unione indissolubile di due dimensioni antitetiche e incompatibili-- per quanto non possano sussistere l’una senza l’altra—: dionisiaco e apollineo. L’incompatibilità tra i due poli è dovuta—oltre ovviamente al carattere patetico dell’uno e logico dell’altro— al principio universale e a quello individuale a cui fanno appello, rispettivamente:
«Così l’apollineo ci strappa all’universalità dionisiaca e ci affascina con l’enorme violenza dell’immagine, del concetto, della dottrina etica e dell’eccitazione simpatica, l’apollineo solleva l’uomo dal suo orgiastico annullamento di sé e, sovrapponendosi all’universalità dell’evento dionisiaco, gli dà l’illusione di vedere una singola immagine del mondo, per esempio Tristano e Isotta, e di doverla vedere, per effetto della musica, ancor meglio e più intimamente».[42]
Dunque la forma apollinea non ci fa conoscere l’essenza del mondo, ma ci dà solo “l’illusione di vedere una singola immagine del mondo”; è come se tutto il mondo si caricasse, e fosse risucchiato, in quella singola rappresentazione artistica, cosa che non possiamo organizzare comprensivamente--perché non si tratta di una dimensione misurabile umanamente-- ma solo intuire, anzi sentire: infatti, come potrebbe, altrimenti, un individuale contenere un universale? Ci sarebbe una specie di implosione.
Trasfigurato, simbolizzato nella forma apollinea-- che pure aveva reclamato, pur di rendersi epifanico-- il dionisiaco preme, fino a trapelare-- cioè senza mai rivelarsi completamente-- nella rappresentazione artistica, in un rapporto dialettico inesauribile:
E con ciò l’inganno apollineo si dimostra per quel che è, cioè il velo che per tutta la durata della tragedia ricopre costantemente il vero e proprio effetto dionisiaco: il quale è tuttavia così potente, da spingere alla fine lo stesso dramma apollineo in una sfera in cui esso comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e in cui nega sé stesso e la sua visibilità apollinea. Così si potrebbe in realtà simboleggiare il difficile rapporto fra l’apollineo e il dionisiaco nella tragedia con un legame di fratellanza fra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in genere.[43]
Dunque, per Nietzsche, il fine supremo dell’arte tout court è di lasciare irrisolta la dualità dionisiaco-apollinea. In questo senso, allora, la sua posizione è antitetica alla funzione catartica che gli attribuiva Aristotele, di sfogare, di scaricare il pathos incontenibile del dionisiaco nella rappresentazione scenica. È vero, d’altra parte, come abbiamo visto, che Nietzsche attribuisce un valore salvifico all’arte. Tale salvezza, evidentemente, non è di tipo risolutivo, consolatorio, conciliante, delle due entità compresenti nell’opera d’arte. Ciò che l’opera d’arte suscita, in definitiva, è uno stato insoddisfatto di perenne irrequietezza, dovuta alla sua enigmaticità. Questa è la caratteristica peculiare della vera opera d’arte. Ci sono, infatti, secondo Nietzsche altre espressioni, consolatorie, divertenti, d’evasione, che però non sono opere d’arte, anzi sono “antiartistiche”:
«…nell’opera come nel carattere astratto della nostra esistenza senza miti, in un’arte inabissatasi a divertire, come pure in una vita guidata dai concetti, ci si era svelata quella natura dell’ottimismo socratico, tanto antiartistica quanto corrosiva per la vita». [44]
Concludendo, da quanto osservato sin qui sul pensiero di Nietzsche, possiamo dedurre alcune considerazioni provvisorie, che ci permettano di definire un’opera d’arte come estetica.
Perché sia tale, essa deve avere le seguenti caratteristiche:
- unione inscindibile di dionisiaco e apollineo;
- sostrato mitico e primigenio che sottende l’elemento apollineo;
- carattere enigmatico e solo parzialmente logicizzabile;
- carattere salvifico, ma non risolutivo;
- appello al pathos, all’istinto, all’intuizione del riguardante;
- coinvolgimento del riguardante come partecipante attivo e non come osservatore obiettivo;
- carattere di irrequietezza derivante al riguardante da tale esperienza;
- carattere di inesauribilità di tale irrisolutezza.
CONCLUSIONE
Solo ripercorrendo tali percorsi del pathos primordiale, che qui ho cercato di delineare, attinti dal moderno demiurgo-artista e tracciati nell’opera d’arte, l’Uomo potrà riconoscere sé stesso, l’altro e la Natura che lo circonda, riarmonizzando tale trilogia e sanando le ferite che l’antropocrazia, protratta per millenni, ha inciso nella Terra, nell’acqua, nell’aria, nelle piante, nei cibi, negli animali, nell’uomo stesso. Solo la reinvenzione, la metamorfosi, i simboli, la visione da un altro punto di vista, potranno rivelare altre possibilità di democrazia, di condivisione e di non prevaricazione, pur aprendo ad un futuro sviluppo sostenibile.
L’arte riscatta dalla dipendenza dall’Immagine – in quanto idolo e mito- e dalle immagini- in quanto ostentazione-, propinate dalla società; dalla materia, in quanto consumismo; dall’avidità, in quanto status symbol; dal potere e dal successo, in quanto vanità, mentre apre all’umiltà, alla condivisione, alla solidarietà, al sentirsi tutti parte dello stesso Tutto, pateticamente compartecipato, con senso di appartenenza. L’arte ha una funzione specificamente salvifica, ma non risolutiva: le soluzioni comportano scelte logistiche, affidate alla politica. Eppure, una politica che sapesse avvalersi di strategie creative, sarebbe in grado di escogitare nuove soluzioni per vecchi problemi, uscendo dai soliti schemi, dai soliti circoli viziosi oppositivi: perché la creatività è armonia degli opposti. Se la logica discrimina, ragiona, distingue, la creatività individua nuove connessioni, perché attinge ad una dimensione più profonda, che è quella dell’anima.
Ecco, ritengo che è attraverso queste dimensioni, che una moderna politica potrebbe caricarsi di valenze neoumanistiche, di respiro universale e non individualistico, ed è per questo che considero l’arte, l’unica via possibile di salvezza per l’Umanità, da intraprendere con urgenza.
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-Idem, Polarità di apollineo e dionisiaco in Aby Warburg, “l’albatros”, VII, 2006, n.3 luglio-settembre, pp.51-57.
-Idem, Aby Warburg: la figura della ninfa nelle opere del Rinascimento, “l’albatros”, VII, 2006, n.4 ottobre-dicembre, pp.87-91.
-Gianni Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, Gruppo Editoriale Fabbri (1974), 1990.
- Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing [Gesammelte Schriften, Leipzig-Berlin, B.G.Teubner, 1932], a cura e con introduzione di Gertrud Bing, Firenze, La Nuova Italia (1966), 2000, pagg. 1-58.
-Aby Warburg, Introduzione all’Atlante Mnemosyne (1929), in Italo Spinelli (a cura di), Mnemosyne. L’Atlante della memoria. Catalogo della mostra (Siena, 29 aprile-13 giugno 1998), Roma, Artemide, 1998, pagg. 37-43.
NOTE
[1] Su queste tematiche si veda Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, 2000, pp. 1-58.
[2] Le tematiche qui trattate sono la rielaborazione di un capitolo della mia tesi di laurea in filosofia estetica, conseguita nel 2002 presso la Facoltà di Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, dal titolo “Percorsi del pathos: dalla tragedia attica ad Aby Warburg”, relatore il prof. Giuseppe Di Giacomo, pp. 11-35.
[3] Cfr.Walter Friedrich Otto, Il Mito, Genova, Il Melangolo, 2000, pp. 30 ss.
[4] Ivi, pp.38 e ss.
[5] Cfr., per il mito di Dioniso: Walter Friedrich Otto, Dioniso, cit. e Micaela De Rubertis, Mito, tragedia, filosofia. Percorsi euripidei. Isernia, Cosmo Iannone, 1997, pp. 241-278.
[6] È significativo il fatto che Semele muoia perché non riesce a sostenere la vista dei fulmini di Zeus, e ne rimane folgorata: cioè la vista umana, da intendersi in questo caso come conoscenza, non può sostenere la vista della divinità, pena l’accecamento (cfr. De Rubertis, p.243).
[7] L’adozione di Dioniso da parte di Zeus sancisce la sua appartenenza al mondo degli Olimpi, allo stesso tempo l’intervento di Rea, che è la Madre Terra e la nascita da Semele, che viene identificata con la luna o la terra, ne indicano anche la natura terrestre: da qui la duplicità del dio (Cfr. De Rubertis, ibidem).
[8] Le cure ricevute da parte delle ninfe-- che poi faranno parte del suo stesso seguito--, l’essere stato nutrito da queste col miele, conferiscono a Dioniso anche la dualità del femminino e del mascolino, che talvolta egli metterà in atto nei suoi travestimenti (De Rubertis, pp.244-245).
[9] Si veda anche il mio contributo su questo tema e su come gli engrammi delle antiche menadi rivivano nell’arte rinascimentale, secondo l’interpretazione di Aby Warburg: Aby Warburg: la figura della ninfa nelle opere del Rinascimento, “l’albatros”, VII, 2006, n.4 ottobre-dicembre, pp.87-91.
[10] Cfr. Copia romana, da un originale del 330 a. C. circa, Dresda, Albertinum.
[11] Cfr. De Rubertis, pp. 266-272. L’elemento della passività del soggetto, derivante dall’illusione dello stesso di poter gestire una forza che è potente e lo prevarica, è peculiare sia della presenza di Dioniso, sia del pathos stesso.
[12] Otto, cit., pp.180 e ss.
[13] Sul tema della funzione della maschera dionisiaca, nel pensiero di Nietzsche, cfr. Gianni Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, Gruppo Editoriale Fabbri, 1990.
[14] Sul tema della Gorgone e dell’orrido, nella percezione dell’arte, cfr. Jean Clair, Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Milano, Leonardo, 1992.
[15] Su questa dualità si veda anche il mio saggio: Polarità di apollineo e dionisiaco in Aby Warburg, “l’albatros”, VII, 2006, n.3 luglio-settembre, pp.51-57.
[16] Pierre Grimal, Enciclopedia dei miti, Milano, Garzanti, 1990, pp. 53-57.
[17]Durante la festa delle Jacinzie venivano recati, a Jacinto, doni attraverso una porta di bronzo che era alla base del monumento di Apollo, anche prima di aver sacrificato al dio stesso. Tale Jacinto, il cui mito narra che Apollo lo aveva amato e ucciso per disgrazia, è strettamente imparentato con Dioniso (cfr. Otto, Dioniso, pp. 199 e 212-213).
[18] Cfr. specialmente, nella Politica (1341b 32-1342° 22) il concetto di Katharsis dove Aristotele distingue canti di educazione e canti di eccitazione, utili allo svago e nella Poetica (49b 26-28), la definizione che dà di tragedia: ”persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni” e i concetti di “rovesciamento” (51° 22-23) e di “riconoscimento” : “riconoscimento è, come dice anche la parola, il volgere dall’ignoranza alla conoscenza”(52° 29-31), inteso come riappropriarsi di una dimensione consapevole.
[19]Cfr. Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba e, idem, Le radici storiche dei racconti di magia, Roma Newton Compton, 1992.
[20] Cfr. De Rubertis, e, per quanto riguarda i riti neolitici sacrificali: Antonio Capizzi, L’uomo a due anime, Firenze, La Nuova Italia, 1988.
21 Cfr. De Rubertis, p.245.
[22] Cioè densa, concitata, ricca di avvenimenti, e pertanto più coinvolgente: cfr. Poetica, 62b 1-15
[23]Ivi, 53b 4-5
[24]Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 2000.
[25] Ivi, p.21
[26] Ivi, p.49-50
[27] Ivi, p.32
[28] Ivi, p.34
[29] Ivi, p.37
[30] Ivi, p.162.
[31] Ivi, p.50.
[32]Poetica, 48b 20-25
[33] Ivi, 49a 10-23
[34]Nietzsche, p.55 e ss.
[35] Ivi, p.56
[36] Ivi, p.58
[37] Ivi, p.108-109
[38] Ivi, p.61
[39] Ivi, p.60. È da evidenziare, in questo illuminante passo nietzschiano, il carattere “epidemico” di tale fenomeno, come se si trattasse di una malattia.
[40] Ivi, p.62
[41] Ivi, p.97
[42] Ivi, p.142
[43] Ivi, p.145
[44]Ivi, p.160