di Armida Corridori

Grande e impegnativo affresco degli eventi della battaglia di Stalingrado, partendo dal romanzo omonimo di Vasilij Grosman. Non soltanto i protagonisti politici e militari, ma sono le figure dei combattenti da ambo le parti che creano uno squarcio sulla realtà della guerra, le sue atrocità, le speranze di sopravvivenza e il sogno del futuro

Mi incalza alle spalle i secolo cane-Lupo
Ma non ho sangue di lupo nelle vene.
Osip Mandel’ štam, Poesie
Garzanti, Milano, 1972

Né mi tacer, perché secreto piangi
Quando il fato di Grecia, e d’Ilio ascolti.
Se venne dagli Dei strage cotanta,
Lor piacque ancor, che degli eroi le morti
Fossero il canto dell’età future.
Omero, Odissea, VIII, 748-752
(traduzione di Ippolito Pindemonte)



Premessa
Per una circostanza imprevedibile, poco tempo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, 24 febbraio 2022, con le immagini di morte e distruzione, è arrivato nelle librerie il capolavoro di Vasilij Grossmann Stalingrado tradotto solo ora in italiano dopo settant’anni.
La città che Nikita Krusciov ribattezzò Volgograd in omaggio al fiume nelle cui acque è stato versato tanto sangue russo. Questo romanzo costituisce il primo tomo di una dilogia che comprende Vita e destino uscito in edizione italiana nel 2008. In realtà esiste anche un altro romanzo Il popolo è immortale composto nel 1943, sempre sullo stesso tema che non è stato ancora tradotto .
Nei due romanzi i personaggi sono in gran parte gli stessi e così è per la trama: Vita e destino riprende dal punto in cui si conclude Stalingrado , alla fine del Settembre 1942, quando i tedeschi erano sicuri di avere la vittoria in tasca.
Sono due narrazioni fluviali e avvincenti che non si fanno lasciare, ed è difficile costruire una visione d’insieme ma è un’esperienza etico-estetica di livello ben superiore a quelle che la letteratura contemporanea ci può consentire. Sullo sfondo della guerra si intrecciano note private e momenti storici, ambienti domestici e stati maggiori sia russi che tedeschi
Protagonista è anche la natura, la steppa, gli animali, il fiume, impotente a difendersi dalla follia degli uomini.



APPUNTI DI STORIA
Il 29 aprile 1942 a Salisburgo si incontrano Mussolini e Hitler, è l’ennesimo incontro tra i due sedicenti padroni dell’Europa che portava puntualmente ad una nuova invasione foriera di rinnovate sciagure nella vita dei popoli.
Sono trascorsi dieci mesi dall’invasione dell’URSS, le truppe tedesche avevano conquistata Lituania, Lettonia, Estonia, Ucraina, Bielorussia e Moldavia, occupato per intero le province russe di Pskov, Smolensk, Orel e Kursk e in parte quelle di Leningrado, Kalinin, Tula e Voronež,
L’invasione era avvenuta nonostante il patto di non aggressione tra la Germania e l’URSS, siglato nell’agosto 1939, il Patto Ribbentrop-Molotov che costituiva una evidente contraddizione per entrambi i dittatori.
Hitler nutriva un odio fanatico verso il comunismo e un disprezzo infinito nei confronti degli slavi, considerati una razza inferiore che sarebbe stato facile asservire. Nei territori slavi la Germania avrebbe trovato quanto le occorreva per renderla veramente invincibile: materie prime e forza lavoro.
Una visione così perversa aveva una vasta eco nel popolo tedesco, orgoglioso del Fürher che, sulle orme dell’imperatore Barbarossa dell’epoca medievale, partiva in una crociata per imporre la civiltà germanica al prezzo di atrocità inaudite. Per queste ragioni la campagna di Russia venne denominata Operazione Barbarossa. Di conseguenza, Hitler non aveva mai nascosto il suo progetto di espansione verso oriente, Stalin, capo del movimento comunista internazionale che fino ad allora era stato considerato da tutti gli antifascisti il baluardo più saldo contro le dittature di destra dopo l’incontro di Monaco del settembre 1938, si era sentito abbandonato dalle potenze occidentali.
Per queste ragioni sarebbe stato disposto a trattare anche con il demonio pur di evitare l’aggressione tedesca. Nella partita a tre in cui Francia e Inghilterra da un lato e Unione Sovietica dall’altro hanno cercato di stornare da sé l’aggressività tedesca, Stalin si era mosso con un tempismo e un cinismo maggiori fino a capovolgere la strategia unitaria antifascista.
Ma questo costituì un dramma per milioni di militanti comunisti e un vero e proprio colpo di scena politico-diplomatico.
Il 22 giugno 1941 le truppe tedesche e un corpo di spedizione italiano, iniziano l’invasione del territorio sovietico. Le armate del Terzo Reich compiono un’avanzata spettacolare fino alle porte di Mosca e tre milioni di soldati russi vengono fatti prigionieri e deportati nei Lager nazisti , mentre milioni di civili sono vittime di un vero e proprio annientamento.
Ma nell’autunno del 1941 alle porte di Mosca, l’attacco tedesco viene respinto e il fronte si stabilizza su una linea che va da Sebastopoli a Leningrado.
Nonostante il fattore sorpresa, gli enormi mezzi impiegati, l’incapacità dei generali sovietici succeduti a quelli uccisi nelle «purghe staliniane», l’esercito tedesco non è riuscito a sferrare il colpo risolutivo.
Il successo iniziale rischiava di essere capovolto dall’inverno russo dall’allargamento a dismisura del fronte, lungo ormai più di 1500 chilometri e dalla tattica difensiva dei sovietici che alternava una accanita resistenza a sganciamenti dal nemico talora superiori ai duecento chilometri. Questa tattica era già stata utilizzata da Kutuzov durante l’invasione della Russia da parte di Napoleone nel 1812. Ma un fattore decisivo fu la mobilitazione volontaria in parte forzata di tutto il popolo russo che mise in campo una inesauribile capacità di lavoro e di sacrificio. L’inverno era alle porte e, come ai tempi di Napoleone Bonaparte, si sarebbe rivelato un nemico insidioso per Hitler. La velocità di movimento, elemento fondamentale per il successo della Blitzkrieg, sarebbe venuta meno in quelle strade coperte di neve dove autocarri e mezzi corazzati si sarebbero impantanati.
Ne approfittavano le truppe sovietiche che, abituate al clima e con una conoscenza del terreno ben superiore a quella del nemico, passavano alla controffensiva riuscendo a far arretrare i tedeschi.
La guerra lampo si era trasformata in una guerra d’usura. Alla fine del 1941, i tedeschi conservavano gran parte dei territori occupati nell’estate ma avevano perso l’iniziativa e non sapevano come rimpiazzare le perdite. Dai paesi occupati militarmente ottenevano solo una collaborazione estorta con la violenza.
Mentre nel maggio e nel luglio 1942 gli USA sconfiggevano la flotta giapponese per iniziare poi la grande offensiva nel Pacifico sud-occidentale guidata dall’ammiraglio Douglas Mac Arthur, nella primavera-estate 1942 la grande armata nazista aveva ripreso ad avanzare sul fronte russo. Arrivati però alle porte di Stalingrado, cuore delle linnee sovietiche di difesa, gli eserciti tedeschi si fermavano iniziando il lungo assedio della città. La battaglia è stata la più lunga della guerra, dal luglio 1942 al febbraio 1943. Per mesi si sarebbe combattuto strada per strada, casa per casa con una ferocia inaudita.
Come è noto, Hitler aveva ordinato la resistenza a oltranza e i soldati tedeschi chiusi in una morsa continuavano a battersi disperatamente di fronte alla controffensiva dell’Armata Rossa. Solo all’inizio del febbraio 1943 sarebbe arrivata la resa: migliaia di soldati venivano fatti prigionieri e della maggior parte di loro non si sarebbe mai più avuto notizia. Anche del contingente italiano composto di 220.000 uomini, decine di migliaia morirono o furono presi prigionieri.
Stalingrado divenne da subito un mito per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, ma soprattutto dà inizio a quel rovesciamento di posizioni degli anni 1942-43 nel quale sarà determinante anche il gigantesco potenziale economico e umano degli Stati Uniti.

IL ROMANZO E L’AUTORE
Insieme a tanto altro Stalingrado è un tributo. L’autore intende rendere onore a quanti erano morti e dimenticati. Scrive dei tanti caduti in tante piccole battaglie dei primi mesi di guerra, “persone che si sono battute con grande accanimento proprio perché sapevano che il nemico era più forte di loro; persone che non hanno avuto esequie solenni, sono gli eroi senza nome del primo periodo di guerra. Se la Russia è salva, in larga parte lo deve a loro.”
Nel ricostruire il conflitto che insieme al titanico scontro di carri armati avvenuto nella pianura di Kursk diede una svolta alla Seconda guerra mondiale, l’autore tocca e fugge. Ai personaggi vengono dedicati capitoli spesso brevi e concisi, volte lunghissimi quasi fossero schede intercambiabili.
Chi era Vasilij Grossman (1905-1964) e come ha potuto ottenere un esito espressivo di tale portata? « Ho appena terminato un grande romanzo a cui ho lavorato per quasi dieci anni…» scriveva nel 1960.
Ucraino, di famiglia ebraica, era nato nel 1905 a Berdyciv, uno degli Shtetl più importanti d’Europa, la cui popolazione venne decimata dai nazisti che qui fecero terra bruciata con esecuzioni terrificanti e con la collaborazione dei nazionalisti ucraini.
Ancora oggi il terreno dei boschi limitrofi nasconde migliaia di scheletri. Anche la madre dell’autore, Ekaterina, fini inghiottita nel gorgo e la lettera d’addio che il figlio le attribuisce prima di morire fucilata, rappresenta uno dei passi più intensi e profondi di Vita e Destino: «Da bambino correvi da me perché ti difendessi. In questi momenti di debolezza vorrei essere io a nascondere la testa tra le tue ginocchia così che tu, forte e intelligente come sei, potessi proteggermi».


il ritorno di Vasilij Grossman a Stalingrado

A Berdyciv, quarantott’anni prima di Grossman, al tempo in cui questa terra da sempre martoriata e contesa faceva parte dell’Impero zarista, aveva visto la luce Joseph Conrad, uno degli scrittori che hanno fondato il sentimento moderno. L’autore, laureato a Mosca, lavorò per tre anni come ingegnere nella miniera Smoljanka nel Donbass dove oggi si è tornati a combattere: «La poesia del Donbass  – i fiumi di lampade che la notte punteggiano i sentieri – mi aveva conquistato». Così aveva scritto nel racconto Fosforo. Fin dai primi lavori letterari ebbe problemi con la censura come dimostra il carteggio con Maksim Gor’kij e con Stalin che aveva condannato a morte il popolo ucraino, decapitando i kulaki, piccoli proprietari agricoli refrattari alla collettivizzazione delle terre causando di conseguenza una sconvolgente carestia.
Allo scoppio della guerra diventò corrispondente dal fronte per il giornale Stella Rossa e indubbiamente le centinaia di pagine della dilogia sono la trasfigurazione stilistica di quella esperienza.
Lo scrittore, con i suoi occhialetti da intellettuale, vive interamente la condizione dei soldati impegnati al fronte. Respira la polvere, rischia la vita, interroga i protagonisti diretti, parla con tutti. Ha del miracoloso riuscire a mantenere un equilibrio prospettico, una lucidità invidiabile anche di fronte alle atrocità cui deve assistere. Va ricordato anche che è stato insieme a Ilja Grigor’evič Erenburg l’autore del Libro nero, che documenta il genocidio nazista nei territori occupati dal 1941 al 1945.
Grossman conobbe sulla propria pelle l’infamia dei due totalitarismi novecenteschi che pone sullo stesso piano. Ne è un esempio il dialogo che avviene nel lager tedesco tra il direttore Liss delle SS, tedesco di Riga che parlava russo e Michail Sidorovič Mostovskoj prigioniero, bolscevico di lunga data. Questa posizione era inaccettabile, di conseguenza i suoi articoli dopo essere stati pubblicati sui bollettini di guerra, furono a lungo insabbiati negli archivi e le sue opere ostracizzate.
Nei quattro anni di guerra trascorsi quasi tutti in prima linea, aveva avuto accesso pressoché libero a una quantità inesauribile di rapporti militari. I taccuini di guerra contengono centinaia di biografie sintetizzate, frammenti di conversazione, intuizioni fulminee e osservazioni inaspettate.
Non sono molti i corrispondenti di guerra che, solo in pochi anni e senza esserne usciti induriti nell’anima, hanno potuto fare un’esperienza simile.

I PERSONAGGI
L’autore rappresenta con identica delicatezza e uguale rispetto un generale dell’Armata Rossa, un soldato appena reclutato o una casalinga terrorizzata dallo scoppio delle bombe. Tre personaggi mi sembrano emblematici rispetto a questa modalità: un contadino, un minatore, un fonditore.
Pëtr Semënovič Vavilov kolchoziano si vide consegnare la chiamata alle armi una mattina di primavera. Si rammarica del momento meno opportuno, se il distretto militare avesse aspettato un altro paio di mesi, sarebbe riuscito a lasciare la famiglia con cibo e legna per un anno.
Quanto aveva sgobbato nella sua vita senza un attimo di tregua! Sapeva fare di tutto, carpentiere, montare i vetri alle finestre, aggiustare e affilare gli attrezzi, macellare il bestiame, costruire stufe tingere e cucire pelli.
Aveva lavorato tanto anche per gli altri: la diga, il mulino, spaccato pietre per costruire il granaio e la stalla del kolchoz, la scuola, una macchia bianca con le vetrate illuminate dal sole. Vavilov guardava le case, gli orti, la strada, i sentieri, la collina fuori dal paese coperta di sorbi e sambuchi. Guardava tutto questo come si guarda alla propria vita. Ricordava le discussioni con Puchov, un bastian contrario che rimpiangeva i tempi dello zar quando le scarpe costavano meno e la risposta delle donne che sottolineavano come adesso i figli potevano andare a studiare in città.
Quando era scoppiata la guerra, Puchov era convinto che con i tedeschi avrebbero potuto commerciare liberamente, che avrebbero avuto case, vestiti, tè, zucchero e biscotti, scarpe, cappotti di panno e stivali.
Poi i tedeschi gli avevano ammazzato tre figli e un cognato e il sogno era finito. Vavilov, invece, guardava alla guerra come a una catastrofe enorme, personale. La guerra si prendeva la vita della gente e lui lo sapeva.
Quando nell’estate del 1941 gli uomini di Hitler avevano attaccato la Russia, aveva detto alla moglie: «Hitler vuole portarci via le nostre terre, anzi vuole tutta la gleba terrestre da arare, lui». Aveva usato la parola gleba, e non globo, perché per lui la Terra era un enorme campo che la gente era chiamata ad arare e seminare. Ed era ai contadini e operai, alla gleba del popolo sovietico che Hitler aveva dichiarato guerra.
Il contadino che lascia la sua casa e va al fronte non pensa a gloria e medaglie, pensa che sta andando a morire. Per un attimo si sente in colpa verso tutto e tutti, verso i figli, verso la moglie sulle cui spalle avrebbe caricato il fardello delle responsabilità, verso la terra che non sarebbe riuscito ad arare.
All’improvviso gli tornò in mente l’ultima notte prima della guerra tra il 21 e il22 giugno, una domenica: la grande, sterminata Russia dei kolkoz cantava, suonava il bajan nei parchi e nei giardini, nelle sale da ballo, per le strade, nei boschi e radure, lungo i ruscelli.
Poi, all’improvviso, era calato il silenzio e i bajan avevano smesso di suonare. Ormai era un anno che sulla terra dei Soviet regnava un silenzio austero, senza più sorrisi.
Nel frattempo il governo sovietico aveva deciso di trasferire molti complessi industriali oltre la catena dei monti Urali in modo da poter incrementare la produzione bellica nonostante l’occupazione tedesca dei territori occidentali.
Questa scelta si rivelò decisiva, consentendo all’esercito russo poi di ribaltare l’esito dei combattimenti sfruttando le difficoltà nemiche nel sostituire e rifornire i propri mezzi d’assalto.
Fondamentale negli Urali era il lavoro nelle miniere di carbone, necessario per alimentare gli altiforni che producevano l’acciaio speciale per costruire aerei e carri armati.
Centinaia di uomini e donne lavoravano senza sosta notte e giorno per aumentare la produzione, consapevoli della responsabilità che gravava sulle loro spalle. In questo contesto, il lettore incontra un altro personaggio interessante anche se umile.
Ivan Pavlovič Novikov, minatore esperto, fratello del colonnello Novikov impegnato al fronte. Il buio del lavoro sotterraneo, la polvere di carbone e di silicati che si mangiava pelle e polmoni dei minatori, nulla potevano contro l’azzurro chiaro dei suoi occhi che guardavano al mondo con affetto e sincerità. Gran lavoratore, curioso verso le altre professioni, aveva fatto tanto nella sua vita: alle Svalbard nelle miniere di carbone, il cui sfruttamento poi non fu più remunerativo e la colonia Pyramide con tutti i servizi era stata abbandonata. Ancora oggi è intatta, nella sala da musica c’è ancora il pianoforte, l’unico così a nord del mondo e nei cortili passeggiano le volpi artiche al posto dei giochi dei bambini. Aveva lavorato nel deserto del Karakum nelle miniere di zolfo, sulle montagne del Tian Shan in cerca di piombo. Poi si riaffacciava la voglia di tornare e riprendeva la via di casa, la via del Donbass, del paese, della miniera. Era stato fortunato con la moglie Inna Vasil’evna, insegnante, che era sempre pronta a seguirlo. Ci metteva un attimo a preparare i bagagli e a partire con lui verso posti sperduti a insegnare il russo.
Poco prima della guerra avevano avuto una bambina che era di salute delicata fonte di tante preoccupazioni e questo aveva messo fine ai viaggi. Era tornato al lavoro sottoterra e da caposquadra apriva nuovi pozzi, scavava gallerie, eseguiva carotaggi.
Molti dei giovani cui aveva insegnato il mestiere avevano preso strade importanti: uno era deputato al Soviet supremo, un altro lavorava al Comitato centrale, ma lui considerava il suo lavoro non meno importante e fondamentale.
Non aveva mai dubitato di essere anche lui un uomo forte e riuscito nel lavoro e nella vita. Dopo la fine del turno prese la salita verso casa e si fermò a riprendere fiato. Da lassù si vedevano bene i dintorni: il fumo perlaceo sulle cokerie, le nuvole di vapore che sembravano stormi di oche bianche e pasciute fra i raggi del primo sole del mattino.
Ovunque però era evidente l’impronta della guerra, le privazioni, il duro lavoro, il vivere nei rifugi scavati sul fianco della collina e nelle baracche ma anche nelle casette a schiera degli ingegneri e capi operai
Si avvertiva anche in modo netto una sorta di parità, di uguaglianza tra la fatica e la quotidianità dei soldati dell’Armata Rossa in prima linea e la vita dei loro padri e fratelli al lavoro sugli Urali.
La prima volta che scendevano nel pozzo, le donne avevano più paura degli uomini, qualcuna gridava e piagnucolava, poi però facevano presto ad abituarsi e nella gabbia che scendeva nelle viscere della terra, si poteva sentire un cicaleccio di vita quotidiana. Parlavano di tessere del razionamento, stoffa per i vestiti. Le più giovani parlavano dei film e degli innamorati. Secondo Novikov le donne non capivano che il lavoro in miniera era una cosa seria, solenne quasi. Lui lo capiva. In un silenzio profondo i minatori che si preparavano a scendere sottoterra non parlavano granché: si concentravano ognuno con il suo personalissimo modo di vivere gli attimi del distacco dalla superficie. Erano momenti di silenzio e di angoscia, di attaccamento al mondo della superficie difficile da lasciare. Dalla sala lampade una nube luminosa scivolò via sempre più veloce, mentre vicino al castello del pozzo palpitava una nube densa che si infilava poi in una porta nascosta nell’oscurità.
Sopra la testa, nel cielo d’autunno scintillavano le stelle e un qualcosa, un’affinità, un legame sembrava unire i lumi dei minatori con il baluginio delle stelle nel nero del cielo. Nonostante tutto, la guerra non era riuscita a spegnere né le une né gli altri.
I nomi di alcuni personaggi ricordano figure famose e realmente esistite, in particolare l’autore rende omaggio al biologo e botanico Nikolaj Vavilov, vittima delle purghe staliniane insieme a tanti eminenti scienziati.
Grossman dà questo cognome a uno dei personaggi più avvincenti, il saggio ed eroico Pëtr Vavilov kolchoziano che nei primi capitoli del romanzo riceve la chiamata alle armi e verrà arruolato nel battaglione di Filjaskin.
Un altro personaggio che attraversa tutta la narrazione è lo scienziato Strum che lavora all’Istituto di Fisica e ha come modello Viktor Pavlovič Strum uno dei fondatori della fisica nucleare sovietica. Fu giustiziato nel 1936 con l’accusa di “trockismo”, imputazione comune a molte vittime del terrore staliniano.
Soltanto nel 2012 un gruppo di studiosi ucraini e russi hanno richiamato l’attenzione su una teoria da lui formulata negli anni Venti circa l’esistenza di particelle che si muovono a velocità superiore a quelle della luce- particelle che fino a quel momento si pensava fossero state ipotizzate solo nel 1962.
Sono molti i parallelismi tra la vita dello Viktor Strum del romanzo e quella dello Strum reale. Reali sono i contrasti all’interno dell’Istituto di Fisica dove lo scienziato lavorava verificatesi nel 1944 relativi al demansionamento di importanti scienziati e tecnici di laboratorio e la promozione di figure meno valide ma più servili verso il potere. Sicuramente i due si conoscevano bene ed è probabile che Lev Srum sia stato uno dei suoi docenti a Kiev. Se il personaggio centrale  della dilogia ha il nome, la professione, gli interessi, la famiglia di un “nemico del popolo”, non essendo Grossman un ingenuo, se ne può dedurre che lo scienziato sia stata per lui una figura di importanza straordinaria a cui doveva molto.
Nella sua struttura, la dilogia di Stalingrado è modellata su Guerra e pace e più volte Grossman fa riferimento a Tolstoj e lo interpella, ma tutto è cambiato rispetto al grande modello ottocentesco: nel cielo di Austerlitz pareva brillare ancora un ritmo leggero, ora invece è diventato oscuro e tempestoso. È l’epoca dei lupi, per usare l’immagine di Osip Mandel’štam.
Nell’autunno del 1941 era andato in visita alla tenuta di Jasnaia Poljana, a parlare per lui è il commissario politico Krymov. La sua vita si era plasmata in un mondo di idee comuniste, e quelle idee erano la sua vita.
Lunghi anni d’amicizia e di lavoro lo legavano ai comunisti di molti Paesi europei, dell’America e dell’Asia. Un tempo si incontravano a Mosca in piazza Sapožkovskaja di fronte ai giardini di Alessandro e alle mura del Cremlino: Macmanus, Katayama, Thorez, Thalmann.
Ricordava chiaramente che una volta, usciti dall’hotel Lux sottobraccio gli uni agli altri: italiani, inglesi, tedeschi, indiani, francesi, bulgari, avevano intonato una canzone russa. Era ottobre, buio, nebbia, una pioggia fredda pronta a diventare neve. Chi se la ricordava ancora quella canzone? Dov’erano tutti, chi era ancora vivo? Chi stava facendo la sua parte contro i nazisti?

Vittime di un pensiero insensato, speravate forse
che il vostro misero sangue bastasse
a sciogliere il polo eterno!
Non appena fumando è balenato
Sull’eterna immensità dei ghiacci,
ha soffiato l’inverno di ferro –
e nemmeno una traccia è rimasta
    F. Tjutičev, (14 dicembre 1825
    in Mattino di dicembre e altre poesie. Mondadori, Milano, 1993).

Anche la casa di Tolstoj deve subire la bufera che in Russia non stava risparmiando né gli appartamenti di città, né le isbe di campagna e nemmeno i casolari sperduti fra i boschi, cacciando le persone dalle loro case calde nel nero delle strade d’autunno.
Neanche la casa di Tolstoj poteva avere requie e insieme a tutto il paese e a tutto il popolo doveva mettersi in viaggio sotto la pioggia e la neve. Come non pensare a  come il presente si fondeva con quanto egli aveva descritto con una forza e una verità tali da far diventare realtà una guerra combattuta centotrent’anni prima.
Sembra che Krymov veda poca differenza tra le due guerre, ma non è così anche perché le atrocità della Seconda guerre mondiale sono di ben altre proporzioni rispetto a ciò che Tolstoj aveva immaginato.
Da una parte la terra umida e fangosa, le foglie d’autunno che scricchiolavano sotto i piedi, la sensazione di solitudine e che angoscia all’idea che da lì a qualche giorno i tedeschi avrebbero riso, fumato, chiacchierato sguaiatamente e il tremore della terra per i rombi e i boati delle bombe sarebbe arrivato fino alle spoglie di Tolstoj dentro la sua tomba.
Guerra e pace non è mai stato letto così tanto come in Unione Sovietica durante il secondo conflitto mondiale. Le autorità consideravano l’autore un precursore del realismo socialista, inoltre permetteva di evocare un esito positivo della guerra in corso.
Il romanzo veniva trasmesso integralmente alla radio, riassunto in opuscoli e distribuito ai soldati. Lo stesso Grossman, come racconta la figlia nelle memorie in una lettera da Stalingrado, le racconta del rombo infernale delle armi che rende impossibile leggere qualsiasi cosa tranne Guerra e pace.
Per quanto Grossman si ponga come narratore onnisciente e imparziale, la sua opera è più personale rispetto a Tolstoj e il suo sguardo è più analitico in quanto ha vissuto in prima persona la guerra che descrive.

LA CINTURA DEI PARCHI
Una mattina del 1942 Andrej Eremenko colonnello generale del Fronte di Stalingrado, ha convocato una riunione con i direttori, i capireparto delle fabbriche e i segretari locali di partito. Il nemico ha passato il Don e davanti alla carta come un professore di geografia illustra la situazione e la disposizione delle truppe nemiche. Stalingrado è ormai sul fronte e Hitler pare abbia detto che il 25 agosto entrerà in città.
Dal Comando supremo è arrivato l’ordine perentorio n. 227 «Ne sagunazad» Stalingrado va difesa a ogni costo. Purtroppo il fuoco dei cannoni tedeschi stava arrivando a lambire la cintura verde della città costata tanti sacrifici.

La città si trova a ridosso della steppa e per difenderla dal vento che portava polvere e sabbia a suo tempo era stato deciso di piantare gli alberi. Venne elaborato il progetto e fu chiamato un botanico esperto a supporto che, studiato il contesto, aveva detto che era irrealizzabile.
Invece con grande tenacia e determinazione e un carico di lavoro spaventoso, nonostante i fallimenti iniziali, le piante avevano attecchito e alla fine la città era stata circondata da un anello verde di alberi di ciliegio di mele di tutte le qualità: renette, Antonovka, Aport, Rosmarina, della Crimea.
Dove una volta c’erano fossi, polvere, argilla, sabbia, ora c’era un paradiso di alberi in fiore e api, farfalle, ruscelli. Sessanta chilometri di parco, di fiori bianchi e rosa dove centomila persone potevano andare a riempirsi i polmoni di aria buona e profumata. Al confronto i Giardini di Babilonia erano da considerarsi un orticello. Inoltre era stato bonificato qualche migliaio di ettari di palude per impiantarvi le grandi fabbriche tra cui la Fabbrica Trattori che era arrivata a produrre cinquantamila pezzi. C’era un grande orgoglio per i risultati raggiunti nel giro di pochi anni da parte dei bolscevichi e ora ci si domandava : che cosa stavano calpestando e bruciando i nazisti? Le sofferenze, il sangue di un popolo, operai e contadini che poveri com’erano avevano sopportato tormenti senza fine per scardinare la povertà.

I TEDESCHI
A cosa si dovevano la ritirata e le pesanti tragiche disfatte dell’Armata Rossa in quei primi mesi di combattimenti? Al fatto che allo scoppio della guerra le truppe tedesche erano già tutte mobilitate. Centosessanta divisioni mosse da Hitler verso i confini dell’Urss che aspettavano solo il segnale per entrare in azione.
L’esercito sovietico invece male equipaggiato, impreparato all’idea di un attacco, era ancora intento a reclutare uomini. In più, da principio l’Armata Rossa non aveva carri armati, aerei e artiglieria pesante a sufficienza.
Infine un altro fattore era la mancanza in Europa di un secondo fronte che tenesse occupati i nazisti. Con le spalle coperte a Occidente, i tedeschi avevano potuto schierare tutti i propri uomini e mezzi e quelli dei propri alleati.
Come già esposto, Grossman si muove tra il microscopico e l’epico e mostra nei confronti dei personaggi tedeschi la stessa generosa comprensione che ha nei confronti dei russi.
Una delle figure più interessanti è il tenente Bach, un intellettuale ed ex dissidente che finisce per cedere infine alle lusinghe dell’ideologia nazista. Comandante di compagnia in una delle prime divisioni che attraversano il Don, avverte che sta prendendo parte a un’impresa di dimensioni epiche: «….gli sembrò che lo stivale prendesse a calci il cielo... Gli sembrava di sentirle con la pelle, con tutto il corpo, le vastità della terra altrui che aveva percorso»

LA STEPPA
La Russia non si intende con il senno, né si misura col comune metro:
la Russia è fatta a modo suo, in essa si può credere soltanto.
F.Tjutčev, (Poesie, traduzione italiana di T. Landolfi. Adelphi, Milano, 2011).

Parafrasando il poeta, una parte non piccola di territorio russo è costituito dalla steppa, anche lei vittima suo malgrado della guerra e delle sue conseguenze. Grossman in Stalingrado ne dà una descrizione intensa e struggente.
Per ironia della sorte in quell’estate del 1942 i tramonti erano particolarmente maestosi e sontuosi. Rifratti dalla polvere sollevata da milioni di piedi, ruote e cingolati, dalle bombe che esplodevano, i raggi della sera toccavano terra in mille colori. Simile al mare, la sera diventava rosa, poi blu, poi di un nero violastro. Straordinari poi erano anche gli odori, scaldate dal calore del giorno, la essenze rilasciavano il loro profumo, quello del fieno, del miele, dell’artemisia, delle foglie amare del marasco. Di sera la steppa canta. I suoni sfiorano l’orecchio e arrivano dritti al cuore. Sono il frinire dei grilli, quello delle starne, il frusciare dell’erba, l’affaccendarsi di topi e roditori, il grattare delle ali dei coleotteri, il grido delle civette e il ronzio delle falene.
Su tutto poi incombe il cielo della sera, terra e cielo si riflettono a vicenda, arricchendosi grazie al miracolo del duello fra buio e luce.

AGOSTO 1942
All’inizio del mese il nuovo comandante, il colonnello generale Eremenko arrivò a Stalingrado. Era un cinquantenne corpulento col viso tondo, il naso piccolo, i capelli a spazzola, gli occhi vispi dietro gli occhiali con la montatura metallica in uso ai maestri di campagna in là con gli anni. Zoppicava leggermente per una ferita alla gamba.
Eremenko conosceva le fatiche della guerra, dalle difficoltà di base dei soldati semplici alle altezze dei comandanti. La guerra per lui non aveva nulla di straordinario e l’uniforme da generale era come la tuta dell’operaio.
Come sede del suo Stato maggiore aveva scelto un sotterraneo profondo e soffocante, una stramberia pensarono in tanti ma il generale aveva disdegnato gli agi dei palazzi. Alle domande di un giornalista aveva risposto: «non cederemo mai Stalingrado. Troppa sarebbe la vergogna di fronte al popolo sovietico».


Un comandante di panzer della 24. Panzer-Division osserva l'orizzonte

Su disposizione del Comando supremo erano stati creati due nuovi fronti: quello Sud-orientale e quello di Stalingrado. Il primo doveva difendere il basso corso del Volga, la steppa calmucca, la zona dei laghi e gli accessi da sud alla città. Quello di Stalingrado copriva gli accessi da nord-ovest e da sud. La situazione per l’Armata Rossa era pesante su entrambi i fronti. I tedeschi disponevano di forze notevoli : centocinquantamila uomini, settecento panzer, milleseicento pezzi di artiglieria oltre all’appoggio della Luftflotte 4.
Ormai la distanza tra loro e il Volga si era ridotta a qualche decina di chilometri. Nonostante la superiorità delle forze e i successi ottenuti, i tedeschi non avevano compreso che l’impresa non avrebbe portato più vantaggi decisivi.
La battaglia di Stalingrado che non fu una battaglia come le altre, venne combattuta nel momento in cui un anno di lavoro della classe operaia e un anno di guerra stavano per azzerare il vantaggio dei nazisti in quanto ad armamenti ed esperienza bellica.
Era giunta l’ora di preparare la controffensiva che restava ancora segreta ma era chiaro il momento in cui intorno alle truppe di Paulus si sarebbe chiuso il cerchio. Il fiume sterminato della furia e del dolore umano, grazie alla volontà del popolo, del partito e dello Stato si era trasformato in impegno e fatica. Da est tornò a scorrere verso ovest, così che il suo peso tremendo finalmente facesse pendere la bilancia dalla parte russa.
Nella calda e polverosa serata del 18 agosto, nel suo ufficio allo Stato maggiore, il comandante della VI armata di fanteria, colonnello generale Paulus pensava alla presa di Stalingrado ritenuta ormai imminente.


Barricate a Stalingrado (foto Friederich Winkler)

Il comando del gruppo di armate riteneva che, con Paulus che aveva fatto cinquantasettemila prigionieri, requisito mille carri armati e settecentocinquanta pezzi di artiglieria ( cifre rese note dal Comando supremo nemico) la resistenza delle truppe russe fosse compromessa. Era convinto che la Germania doveva a lui la vittoria e in quei giorni d’estate si godeva un trionfo come raramente ne capitano a questo mondo.
Nell’estate del 1942, dopo che Kerc, Sebastopoli e Rostov erano cadute, la stampa berlinese aveva abbandonato la sua cupa compostezza e aveva dato fiato alle trombe gioiose della vittoria esaltando i successi della grandiosa offensiva sul Don.
A Berlino, nei palazzi del potere, treni e aerei ogni giorno scaricavano decine di personalità di spicco: industriali famosi, principi ereditari, primi ministri, generali. Arrivavano da tutte le capitali europee e ai berlinesi quegli ”ospiti” più o meno spontanei, nervosi e agitati, con lo sguardo cupo, spauriti come scolaretti scappava da ridere.
I treni merci portavano manodopera, frumento, legna, granito, marmo, sardine, vino, olio, minerali dai paesi conquistati. Molti credevano a ciò che Hitler aveva proclamato come verità: il sangue ariano che avevano nelle vene univa tutti i tedeschi sotto una sola bandiera di gloria, di ricchezza e dominio sul mondo. Tutto ciò accompagnato dal disprezzo per il sangue altrui e di assoluzione per le atrocità del potere. Le perdite ingenti di vite umane, gli orfani, le tombe dei soldati a non finire venivano giustificati in nome della vittoria del popolo tedesco.
A Berlino, per strada e nei parchi i tigli e i castagni sembravano ancora più rigogliosi come se partecipassero anche loro all’euforia generale. Però poi scendeva la sera e cominciava un’altra vita, arrivavano i demoni.
Discorsi sottovoce con i parenti e gli amici più cari, ore di pensieri, di lacrime nascoste per chi era morto sui vari fronti o per chi era sparito senza lasciare traccia. Ore di angoscia, di lamentele per la miseria, la fatica, i diritti negati, di dubbi e di paure per il potere implacabile del Reich e per le bombe inglesi che fischiavano.
Due correnti lambivano la vita del popolo tedesco in generale e di ogni tedesco in particolare. Uno stano sdoppiamento difficile da comprendere anche per chi lo viveva. Si sarebbero affermate forme di vita nuove e mai viste? Tutto ciò sarebbe durato? Queste erano le domande che consapevolmente o meno si ponevano tutti.
Ultimamente Hitler capitava a Berlino di rado, era quasi sempre a Berchtesgaden o al fronte, cioè nel suo quartier generale a cinquecento chilometri almeno dalla prima linea. Nello studio enorme per ampiezza, tra gli altri oggetti c’era un maestoso mappamondo, grande come una botte di birra ripreso nel film di Chaplin Il grande dittatore. Nel corpo di colui che camminava nella stanza c’era qualcosa che di solito è difficile trovare nella stessa persona.
Era magro e grasso insieme. La parte superiore, faccia, tempie, il collo e la nuca erano di un uomo magro, mentre il posteriore e le gambe grosse sembravano appartenere a qualcuno grasso e pasciuto. Chiunque avesse visto le centinaia di ritratti avrebbe creduto di vedere una persona diversa dal colorito poco sano del viso, le palpebre gonfie, gli occhi rossi. Tutto ciò lo faceva assomigliare a un essere umano ma la curva della sua parvenza umana scendeva man mano che finiva di prepararsi e controllava che la pettinatura, lo sguardo e le occhiaie corrispondessero al modello canonizzato.
Il colonnello Forster venuto da Stalingrado per riferire sull’andamento delle operazioni è molto in ansia per l’incontro con il Fuhrer che non ha mai visto di persona. Dopo aver aspettato per un tempo infinito, fu introdotto nello studio. Avvicinandosi si rese conto che non somigliava ai milioni di sue effigi. Era pallido, con i denti grandi, aveva gli occhi bluastri e umidi, le ciglia rade e grossi cerchi scuri sotto gli occhi. Infine restò colpito dalla voce, bassa e ordinaria: credeva che da quella bocca potessero uscire solo appelli fanatici, sinistri e taglienti come cocci di bottiglia per riuscire a ipnotizzare le folle.


Hitler ispirava terrore anche ai suoi e perdeva spesso il contatto con la realtà

Hitler non è contento di come stanno andando le operazioni a Stalingrado, Rchthofen e Paulus non sono d’accordo sulla tempistica dell’attacco. Forster capiva però che dire la verità non era cosa da potersi permettere. D’altra parte c’era qualcuno che avrebbe avuto il fegato di farlo?
Durante il colloquio il colonnello si rese conto con sgomento che l’ordine di prendere Stalingrado non fosse scaturito da una perfetta conoscenza della situazione, da calcoli precisi, da un’analisi approfondita dei fatti. Capiva solo ora che Stalingrad muss fallen derivava da presupposti molto diversi rispetto alla realtà del campo di battaglia: lo voleva lui, Hitler! Era solo per ambizione personale.
Il tenente Peter Bach, giovane comandante di una compagnia motorizzata, sulla trentina, abbronzato e asciutto, era sdraiato fra l’erba sulla riva sinistra del Don e fissava il cielo senza nubi e provava un senso di pace. Sapeva per esperienza che dopo aver preso una testa di ponte ci volevano almeno tre-quattro giorni per concentrare le truppe prima di un nuovo attacco, dunque aveva davanti a sé un riposo lungo e beato. Gli tornò in mente l’ultima licenza finita da poco e il disprezzo e la compassione provati verso gli amici e persino per sua madre. Si rendeva conto dei problemi che attanagliavano la popolazione nelle retrovie: la carenza di carbone, le scarpe logore, i vestiti lisi, i buoni per i pasti e le tessere annonarie. Gli era sembrato che le persone fossero diventate anzitempo più vecchie e più brutte. Una sera che aveva bevuto, Luntz compagno di università, gli aveva delineato il quadro della situazione.
Il massimo delle virtù civiche ormai era l’obbedienza, l’assenza di pensiero e la capacità di adattarsi. Filosofia, scienza e arte cominciavano col Reich e finivano nel Reich. Non c’era posto per menti libere e ribelli, le menti bisognava sterilizzarle. L’amico gli chiese di non parlare con nessuno di ciò che si erano detti perché c’era una ragnatela sterminata, invisibile in grado di catturare ogni cosa: parole, pensieri, sogni, opinioni. Una ragnatela tessuta con dita di ferro.
Luntz che aveva un braccio atrofizzato, lavorava in una fabbrica e racconta che sopra le macchine c’erano dei manifesti enormi con scritto «Du bist, dein Volk ist alles» (Tu sei, ma il tuo popolo è tutto).
Le dittature amano gli slogan, ipnotizzate dalla loro apparente profondità. Il popolo! Una categoria cui si fa appello per dire alla gente: il popolo è saggio ma solo il Reichskanzler sa cosa vuole il popolo ovvero vuole le privazioni, la Gestapo e una guerra di conquista.
Bach era ripartito per il fronte demoralizzato. Aveva sognato così tanto la licenza, tornare a casa, la tranquillità, le chiacchiere con gli amici, le sere a leggere sul divano e confessare alla madre pensieri e sentimenti.
Invece era ripartito per il fronte con un certo sollievo, anche se solo il pensiero dei suoi commilitoni gli risultava sgradevole. Per anni si era sentito derubato nell’animo fra gli ultimi mohicani della libertà di pensiero tedesca.
Nell’attimo in cui dalla polvere e dal fumo era affiorata la percezione improvvisa di un cielo non suo e di una terra altrui ormai vinta, aveva compreso la forza oscura della causa cui si era votato.
Poi si voltò verso un rumore di passi. Il telefonista di turno stava correndo verso di lui per comunicargli che il comandante di battaglione lo stava cercando. Il riposo era stato revocato, l’ordine era di prepararsi all’attacco.

L’OFFENSIVA TEDESCA
La mannaia tedesca minacciava Stalingrado e insieme alla città minacciava anche la dedizione alla libertà, al sogno della giustizia, alla gioia del lavoro alla fedeltà alla Patria, agli affetti più cari e alla sacralità stessa della vita.
L’ultima ora di Stalingrado, la città di prima della guerra, non fu molto diversa dalle ore e dai giorni che l’avevano preceduta. Tutti erano affaccendati nelle solite incombenze: la fila per il pane, barattare e vendere al mercato latte, pane, zucchero grezzo e nelle fabbriche si continuava a lavorare.
Coloro che si è soliti definire “gente semplice”, “lavoratori comuni”, non sapevano ancora che, tra qualche ora, con la stessa semplicità con cui avevano lavorato giorno dopo giorno, molti di loro avrebbero compiuto gesta che le generazioni seguenti avrebbero definito immortali.
Sono le persone semplici a compiere le grandi imprese.
I primi bombardieri dall’Oltrevolga comparvero verso le quattro del pomeriggio. Si udì un sibilo seguito dalle prime esplosioni e sugli edifici in fiamme si levarono alti il fumo e la polvere. Il fischio delle bombe risuonò come un lamento profetico di morte e sventura. Era la voce di tutta Stalingrado, delle persone, ma anche dei palazzi, delle pietre, dell’erba e degli alberi nei parchi. Era il lamento dei viventi e di ciò che vivente non era. Tutti insieme avvertirono molto forte il presagio della distruzione.
Nonostante tutto la Fabbrica Trattori, la Ottobre rosso, le Barricate continuavano a funzionare e non avevano smesso di aggiustare blindati, produrre camion e mortai pesanti. Il pericolo si affronta meglio lavorando. Lo sa bene anche la bassa manovalanza della guerra: i fanti, i mortaisti, gli artiglieri.
Pavel Andreevič Andreev tra i migliori fonditori della Ottobre rosso, uno dei personaggi semplici ma straordinari del romanzo, non aveva mai provato niente di simile, né da quando era tornato in fabbrica anche se in pensione, né da giovane, quando le ore non avevano bisogno di un motivo per essere felici.
Dire addio alla moglie era stato un grande dolore. Rivedeva come Varvara Aleksandrova aveva guardato un’ultima volta le tende alle finestre, la porta chiusa a chiave della casa, il viso dell’uomo con cui aveva vissuto per quarant’anni. Era destino che rivedesse la moglie, suo figlio, suo nipote? Accanto all’amarezza dell’addio e, per un uomo con i suoi anni, allo strazio di veder crollare la sua quotidianità.
A lui chiedevano consiglio anche gli ingegneri. Consultava di rado i dati del laboratorio interno che analizzava un campione per ogni fusione e giusto ogni tanto dava una sbirciatina al foglio con i costituenti principali di ogni carica.
Lo faceva per gentilezza e per non offendere il chimico laureato all’Istituto per l’acciaio. Il rispetto per gli scienziati, l’ordine e l’organizzazione li esprimeva a fine turno, riempiendo tutte le schede e i piani di lavoro che avrebbe dovuto compilare prima.
Andreev fondeva l’acciaio secondo sue personalissime regole e misure. Aveva una sua percezione del tempo, della temperatura e della preparazione della carica fra ghisa e ferro di risulta consegnando ai reparti di forgiatura il suo ottimo acciaio. Andreev amava il suo mestiere di un amore appassionato e sereno insieme come Vavilov il kolkoziano e Novikov il minatore uniti da un’etica del lavoro straordinaria. Per lui qualunque lavoro era degno del medesimo rispetto e teneva in ugual conto i fonditori, gli elettricisti e gli addetti alle macchine- l’aristocrazia della fabbrica- come la varia manovalanza fuori e dentro i reparti.
L’internazionalismo operaio era per lui un principio ovvio e spontaneo e allo scoppio della guerra aveva chiesto di tornare in fabbrica pur essendo in pensione e nella domanda si era tolto tre anni per paura di un rifiuto.” Sono come resuscitato dai morti” aveva confidato a un amico. Il lavoro era per lui il metro delle persone e delle relazioni umane e gli dava una sensazione di forza e di libertà.
 Due secoli prima doveva averla provata un qualche vecchio del Volga che, lasciata casa e famiglia aveva seguito Stepan Razin alla conquista della libertà. Guardò il tetto della fabbrica, il vetro nero di fuliggine.
Oltre quel vetro l’azzurro del cielo estivo sembrava grigio, fumoso come se il lavoro della fabbrica avesse velato anche il cielo, il sole e tutto l’universo.
Guardò gli altri operai, i suoi compagni; erano le ultime ore insieme prima di salutarsi. Lì dentro era tutta la sua vita, lì aveva consacrato al lavoro le sue forze, la sua anima. Era destino che ci rimettesse piede in quella fabbrica? Come capita sempre quando una catastrofe saggia le forze interiori di una persona, molti si comportano in modo diverso da come ci si sarebbe aspettati.
Così anche nella Stalingrado in fiamme ci fu chi saccheggiò ciò che avrebbe dovuto custodire, chi corse a svuotare i depositi di viveri e di vodka, chi passò sull’altra riva quando per responsabilità e dovere era tenuto a restare in città.
Sono cose queste che dimostrano una brutta verità sul genere umano. Questa però è solo una parte della verità perché nelle fabbriche gli operai continuarono a lavorare, poliziotti, pompieri, soldati volontari, a prezzo della vita fecero il loro dovere.
 Le strade in fiamme di Stalingrado servirono a dare la misura dell’uomo. Giorno dopo giorno una città nuova – la città in guerra – cresceva fra le rovine di quella che era stata in tempo di pace.
A costruirla erano i soldati del genio, le staffette, i fanti, le milizie volontarie. Si scoprì che i mattoni erano perfetti per le barricate, che le strade non servivano a spostarsi ma a impedire che lo si facesse, pertanto vennero tagliate da trincee e cosparse di mine.
Si scoprì che alle finestre delle case stavano meglio le mitragliatrici dei vasi di fiori, cortili e portoni erano perfetti per i cannoni e le imboscate dei blindati e che i vicoli tra i palazzi lo erano per i cecchini. La “nuova città” sarà teatro di feroci combattimenti di lì a non molto.

IL CONTRIBUTO DELLE DONNE
La guerra è stata sempre raccontata dagli uomini , anche Grossman nella dilogia segue la stessa impostazione pur delineando un affresco potente della realtà. Si può raccontare in due modi: descrivere la paura, il dolore, il sangue, oppure concentrare l’attenzione sulle battaglie, la disciplina, le conquiste.
Nel primo caso, gli uomini appaiono sottomessi a un destino più grande di loro, a una Storia che li domina e li stritola cancellandone la voce. Nel secondo caso, almeno all’apparenza, sono convinti che siano le loro azioni a guidare gli avvenimenti. C’è anche un altro modo di raccontarla? Sì, quello delle donne.
 Quando il 22 giugno 1941 l’uragano di ferro e fuoco che Hitler ha scatenato verso Oriente comportò per l’Urss la perdita di milioni di uomini e di vasti territori. Centinaia di donne e ragazzi anche molto giovani dovettero integrare i vuoti di effettivi e alla fine saranno un milione.
Infermiere, radiotelegrafiste, cuciniere e lavandaie ma anche soldati di fanteria, addette alla contraerea e carriste, geniere, sminatori,
Alcuni di questi ruoli furono svolti dalle donne anche negli altri fronti di guerra ma nell’Urss il ruolo fu anche quello di donne combattenti.
In questi ultimi anni sono stati pubblicati testi e testimonianze che hanno fatto conoscere ad un pubblico più vasto il ruolo delle donne russe combattenti nella Seconda guerra mondiale.
Le donne non sono state solo le vittime dei disastri materiali e morali del conflitto, non hanno solo subito la Storia. All’opposto, le avevano chiesto un ruolo di primo piano, per fare della guerra un’occasione di emancipazione, cogliendo nel conflitto l’opportunità di allargare la propria sfera di libertà.
Non era bastata loro l’uguaglianza a scuola o sul lavoro promessa dalla patria socialista, avevano preteso anche la parità tragica e feroce delle bombe e della morte. Ce l’avevano fatta, dallo scontro erano uscite vincitrici dimostrando di valere anche più degli uomini.
Emblematico a questo proposito è la vicenda della formazione del 588° reggimento di sole aviatrici. Marina Raskova era la donna più famosa dell’aviazione sovietica, entrata nella storia in quanto protagonista di un volo eroico scritto con inchiostro indelebile nelle menti e nei cuori delle giovani donne sovietiche.
Nel 1938, con due compagne Polina Osipenko e Valentina Grizodubova volò per 6.500 chilometri senza scalo da Mosca a Komsomolsk-na-Amure attraversando l’interminabile gelata Siberia.
Un’impresa mai tentata prima e tanto più importante perché realizzata da tre giovani donne. Il volo è stato lungamente preparato. Stalin ha bisogno del record femminile.
Negli Stati Uniti, alcuni anni prima, Amelia Earhart aveva trasvolato l’Atlantico diventando una leggenda. Le donne sovietiche faranno meglio delle americane, batteranno il record di distanza della Earhart, dimostrando che nello Stato socialista le loro capacità non sono l’eccezione, bensì la regola.
Le aviatrici vennero insignite del titolo di “Eroine dell’Unione Sovietica”. Ora in quell’estate del 1941, Marina è convinta che le donne debbano dare il loro contributo alla difesa della Patria, vuole costituire un reggimento di aviatrici combattenti.
Qualche settimana prima ha parlato alla radio: «…Care sorelle, è arrivata l’ora di una dura ricompensa: entrare nei ranghi di guerriere per la libertà». Poi ottenuto l’appuntamento con Stalin argomenta la sua proposta.
Chiede che le donne facciano parte dell’aviazione militare, che vadano al fronte come pilote e navigatrici. La patria socialista è in pericolo, il nemico non si è mai fermato e ormai bussa alle porte di Mosca.
Lo sfondamento tra l’altro è avvenuto proprio contro l’aviazione sovietica che è semidistrutta. Di fronte alle obiezioni che le vengono mosse, la Raskova risponde; «Ženščina možet vsë!», una donna può tutto!. Una leggenda? Può darsi, sta di fatto che l’8 ottobre 1941, viene emanato l’ordine 0099 con cui si stabilisce la costituzione di tre reggimenti femminili di aviatrici.


Le famose “Streghe della notte”

In particolare un reggimento per il bombardamento notturno è formato dal Polikarpov, un bimotore semplice ed essenziale che da vicino assomiglia a un uccello goffo, quasi un giocattolo. È di legno, ricoperto di grossa tela, ha due posti, uno davanti per la pilota, quello dietro per la navigatrice. Una volta sedute le due aviatrici rimangono con il busto fuori senza alcuna protezione.
Non c’è alcuno strumento tecnologico e ottico per prendere la mira, non c’è posto per i paracadute, non si sa dove piazzare le bombe.
Eppure quell’uccello di legno e tela ha molte qualità: si mette in moto facilmente è maneggevole e di notte difficile da individuare, non ha bisogno di un aeroporto attrezzato, può atterrare in un terreno pianeggiante qualsiasi.
Infine pilotato con mani abili e audaci, può arrivare dove altri non possono, colpisce e fugge scomparendo nella notte. Così dopo un duro addestramento nel giugno 1942 cominciano le missioni. Proprio perché in grado di colpire e scomparire, i tedeschi le hanno chiamate Nachthexen, «Streghe della notte».
Compiranno 23.000 voli, e 1.100 notti di combattimento. Molte foto che le ritraggono sono di Evgenij Anaf’evič Chaldej, uno dei più famosi fotografi ufficiali dell’Armata Rossa.
 Sua è la foto simbolo della vittoria sul nazifascismo: il soldato russo che, dopo la resa d Berlino, issa la bandiera rossa sul Reichstadt. Chaldej ha ripreso le ”streghe” nella quotidianità della vita in guerra: sotto le ali di un Polikarpov, prima di un volo, mentre afferrano la cloche.
Sono immagini serene, vitali, spesso allegre con gli occhi che brillano per l’entusiasmo. Le donne di fronte all’obiettivo sorridono con orgoglio, come chi sta facendo qualcosa di speciale, di unico, di grande.
Volevano essere forti e coraggiose, difendere la Patria e diventare in tutto e per tutto uguali agli uomini. Il fotografo non può cogliere però la paura, l’abnegazione, il dolore per le compagne cadute, l’amore negato.
Nell’Unione Sovietica furono impiegate in prima linea non solo le donne pilota ma anche donne tiratrici scelte. Nel corso del conflitto si diplomarono nelle scuole per tiratori 2.000 cecchine.
La più famosa sniper fu Ljudmila Pavličenko (1916-1974), attiva sul fronte orientale durante gli assedi di Odessa e Sebastopoli.
Fu l’incontro casuale nel dopolavoro in fabbrica con un fucile da tiro Toz-8 calibro 22 a cambiare il corso della sua vita. Un piccolo fucile molto noto anche fuori della Russia, economico, forte, preciso, usato nei poligoni o per la caccia.
Ma lei aveva, stranezza della natura, un’attitudine naturale, quel caso in cui si ha quella giusta combinazione di coordinazione tra occhio e mano, stabilità muscolare, ottima vista e pazienza.
Infine possedeva quel quid, difficile da definire che non tutti i tiratori possiedono e che distingue il cecchino da un normale fuciliere. Ha dovuto fronteggiare difficoltà spesso insormontabili, è stata ferita più volte.
Poi anche per la volontà di vendicare la morte dell’adorato marito, ha continuato a lottare quando altri sarebbero caduti. Anche la storia della Pavličenko sta a dimostrare come, nonostante il regime politico, una fede incrollabile nel proprio Paese, abbia permesso all’Unione Sovietica di vincere la guerra.
Ore di attenta osservazione, calata mentalmente nei panni dell’avversario, tornando sul posto più e più volte, sempre pronta ad andare avanti senza alcuna garanzia di successo.
A Sebastopoli, durante la convalescenza dopo l’ennesima ferita, dagli assistenti della biblioteca della marina che ogni settimana raccoglievano i libri distribuiti in precedenza ai soldati offrendone di nuovi, scelse i Racconti di Sebastopoli di Lev Tolstoj.
Era passato a malapena un secolo dal 1854 e nuovi conquistatori si avvicinavano alla città con le medesime intenzioni. Il conte Tolstoj, giovane tenente di artiglieria trasmette con grande perspicacia i sentimenti di un uomo che avverte per la prima volta un pericolo mortale in battaglia.
Rimane colpita dal modo come vengono ritratti i compagni d’arme, gli ufficiali dell’esercito imperiale russo e dalle caratteristiche principali che formano la forza del russo: la semplicità e l’ostinazione.
Il suo ingresso nei ranghi dell’Armata Rossa il 26 giugno 1941,nel 54° reggimento fucilieri, è coinciso con la dura ritirata dai confini occidentali fino a Odessa. Durante la difesa della città ha ucciso 187 nazisti in due mesi.
Poi, durante l’assedio di Sebastopoli, nei ranghi dalla 25 divisione fucilieri Čapaev, il numero degli abbattimenti è salito a 309. In confronto con i cecchini maschi dei vari eserciti, è lei che ha realizzato il maggior numero di uccisioni anche rispetto a Vasilij Grigorevič Zajcev in azione a Stalingrado.
Va sottolineato che molti abbattimenti della Pavličenko sono avvenuti durante azioni in cui fermarsi a prendere nota del numero dei nemici uccisi era pericoloso, pertanto il numero totale rimane sconosciuto ma è assai probabile che fosse una cifra intorno ai cinquecento.
Nella sua autobiografia, menziona spesso i fucili usati, in particolare il Mosin Nagat modello 1891/1930 con mirino PE e il Sut-40 semiautomatico con mirino PU. Per ovvie ragioni non è possibile eseguire un calcolo accurato dei tedeschi uccisi complessivamente dai cecchini russi.
Ci si può fare un’idea di questa cifra impressionante dal fatto che le 2.000 cecchine diplomate nelle scuole per tiratori hanno raggiunto un totale ufficialmente accettato di 12.000 uccisioni, mentre i primi dieci maschi ne hanno totalizzate 4.000.
Gli scontri sul fronte orientale furono particolarmente brutali. Un cecchino catturato vivo veniva torturato a morte, per questo la Pavličenko teneva sempre l’ultimo colpo di pistola per sé, la fedele Tula-Tokarev chiamata affettuosamente Totosa dai soldati.
È diventata una delle donne più decorate a servire nell’Armata Rossa, ricevendo due volte l’Ordine di Lenin e nominata Eroe dell’Unione Sovietica.
Il 3 agosto 1942 la carriera militare della Pavličenko subì una svolta davvero inaspettata. Il presidente americano Francis Delano Roosvelt informava Stalin che dal 2 al 5 settembre Washington avrebbe ospitato un’assemblea studentesca internazionale ed esprimeva il desiderio che una delegazione di studenti sovietici combattenti partecipasse all’evento.
La Pavličenko fu scelta insieme ad altri due giovani a far parte della delegazione. Fu la prima cittadina dell’Unione Sovietica a essere ricevuta da un presidente americano.
La missione consisteva anche nel far conoscere agli americani la guerra in corso in modo che si rendessero conto che si trattava di una battaglia tra la vita e la morte per il futuro dell’intera umanità e perorare la necessità dell’apertura di un secondo fronte in Europa.
Nel colloquio con Roosvelt, il presidente la informò che pur comprendendo la situazione dell’Urss, gli americani non erano pronti per un intervento decisivo anche perché bloccati dagli alleati britannici. Dopo gli Stati Uniti la delegazione si spostò in Canada, in Inghilterra e il 5 gennaio 1943 fece ritorno a Masca. Il desiderio di Ljudmila di tornare a combattere non fu esaudito, divenne istruttrice per tiratori scelti fino al maggio 1944.
Dopo la liberazione di Kiev, l’Università statale dell’Ucraina ,spostata in Kazakistan era tornata in città. Nonostante le distruzioni aveva ripreso l’attività didattica e Ljudmila potè fare ritorno nella città della sua giovinezza per essere riammessa alla Facoltà di storia. L’esercito le concesse una licenza di un anno per terminare gli studi. Indossato di nuovo un tailleur e scarpe con il tacco, frequentò il quinto anno e nel maggio 1945 si laureò a pieni voti, realizzando così il suo sogno nel cassetto.
Un capitolo chiuso quello delle donne e la guerra? Per fortuna una generazione di giovani storiche sta provando a strappare il velo che ha coperto il ruolo delle donne nella guerra e nella Resistenza.
Per la Russia lo ha fatto Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura 2015, in La guerra non ha un volto di donna.
Ha raccolto in centinaia di conversazioni e interviste parole, fatti, sentimenti delle ex combattenti e ausiliarie al fronte che per troppo tempo avevano serbato in silenzio il segreto di quella guerra che le aveva segnate per sempre, con un carico di memoria difficile da sopportare e condividere.
Per l’Italia il libro di Benedetta Tobagi La Resistenza delle donne, Einaudi, in libreria dal 25 ottobre 2022 l’autrice è riuscita a cogliere il vissuto delle numerose resistenti con uno sguardo insofferente a perbenismi e tabù.
Sotto la guida delle studiose precedenti- ancora molto viva la voce di Anna Bravo- ma anche grazie alle “fotografie parlanti” trovate negli archivi storici viene fatta luce su zone del femminile rimaste in ombra.
C’è un dolore mai raccontato. All’indomani della Liberazione, quando esaurita l’adrenalina della lotta bisognava prendere atto dei propri morti, e nel contempo, zitte e buone, rientrare nei ranghi decisi dal patriarcato.
Ebbero senz’altro meriti morali superiori agli uomini della Resistenza. Non va dimenticato che furono tutte volontarie come le donne pilota e le cecchine dell’Armata Rossa. Nessuno le convocò, non furono condizionate dalla coscrizione come gli uomini obbligati a scegliere tra la guerra o la prigionia in Germania. Al loro maternage collettivo in tanti dovettero la salvezza da una morte certa. Non vanno schiacciate però sul paradigma materno, molte di loro si realizzarono prendendo le armi e combatterono.
Odiare la morte ma impugnare le armi per avere la vita. È la “guerra alla guerra” il paradigma che spazza via d’un colpo l’inutile dibattito di questi mesi sulla risposta armata dell’Ucraina che richiama alla mente le bionde ragazze – anche loro sorridenti – con il mitra tra le mani.
Il silenzio più atroce riguardò le donne torturate e stuprate dai tedeschi e dai fascisti, ridotte all’afasia da una società postbellica sessuofobica e pruriginosa. Neanche i tribunali resero loro giustizia.
Che cosa penserebbero oggi queste patriote democratiche del fatto che è stato eletto alla seconda carica dello Stato Ignazio La Russa, fiero collezionista di cimeli mussoliniani?

LA NUOVA OFFENSIVA TEDESCA
Il 25 agosto i tedeschi iniziarono a muovere verso Stalingrado da ovest, da Kalac, panzer e fanti nel frattempo erano arrivati al di là del lago Sarpa. Il 31 agosto, lanciarono una nuova offensiva sulla direttrice Basargino-Voroponovo.
Alcune unità della Sessantaduesima armata sovietica dovettero arretrare fino alla cintura intermedia della città che fu abbandonata il 2 settembre per poi ritirarsi oltre quella interna, l’ultima rimasta.
Nonostante la strenua difesa sovietica, a fare la differenza era ancora la disparità di forze in campo: per ogni soldato russo i tedeschi ne schieravano tre e per ogni cannone russo i tedeschi ne disponevano due.
La differenza più marcata era quella aerea. I tedeschi disponevano di centinaia di aerei da combattimento i cui raid erano favoriti dal campo aperto della steppa.
Nel pomeriggio del 13 settembre il nemico attaccava da ovest facendosi strada fin nei quartieri centrali di Stalingrado e una dopo l’altra tutte le vie del centro passarono in mano nemica. A metà settembre l’offensiva sovietica scattò a nord-ovest riuscendo a far arrivare dei rinforzi. A plotoni i soldati venivano caricati su motoscafi, chiatte e traghetti.
 Lo scalpiccio di centinaia di stivali pesanti sulle assi del ponte sembrava accompagnato da un rullo di tamburi. In mezzo alla nebbia e al fumo dei fumogeni si intravedeva la città rischiarata dal sole, bianca, tutta decorazioni e merletti, bellissima e viva da distante. Aveva però qualcosa di strano e tremendo: senza vetri che brillavano al sole era cieca e muta, pietra bianca senz’occhi.
Il calore dei raggi del sole scaldava i caricatori dei mitra, le canne dei fucili, il cuoio lucido dei portamappe, il rame dei bossoli e il ferro delle granate.
In quei lunghi minuti di traversata, i soldati restarono muti. Non potevano fare niente; né sparare, né scavare e nemmeno andare all’attacco ma potevano pensare.
Come spiegare a parole cosa teneva insieme il caos di speranze, paura, ricordi, amore, rimpianti? Migliaia di persone così diverse, padri di famiglia, giovani, gente di città e quella di campagna, chi arrivava dai paesi della Siberia, dai campi dell’Ucraina e del Kuban?
Non c’era una nuvola sopra Stalingrado, strade e piazze vuote di persone e piene di dolore. Le fabbriche mute non mandavano fumo, i negozi non vendevano, i mariti non litigavano con le mogli e i bambini non andavano a scuola. Nessuno cantava suonando la fisarmonica nei giardini.
Solo al suo arrivo a Stalingrado, Vavilov capì e sentì fino in fondo la guerra. L’enorme città era stata uccisa, distrutta, Quando era di guardia al crepuscolo avvertiva l’alito caldo della pietra incendiata e gli sembrava che fosse quello delle persone vissute fra quelle mura fino a poco prima.
Ma Vavilov, da grande lavoratore quale era, rifletteva alla fatica e al lavoro che erano stati necessari per costruire la città. Mostri orribili, ringhianti si erano presi gioco di migliaia di operai: questo gli sembrava.
«Hitler è questo» pensò a voce alta, la sua forza stava nella violenza dell’uomo sull’uomo. Una concezione della forza che Vavilov e milioni di altri come lui sentivano estranea e ostile.
È l’etica di un popolo a fissare i concetti di forza, giustizia, bene e lavoro. Pertanto chiunque affermi che il popolo ama la forza e la rispetta dovrebbe riflettere a fondo su cosa il popolo intende per forza e quale sia la forza che rispetta e riconosce.
Intanto le vedette tedesche che si erano arrampicate fino ai piani alti dei palazzi distrutti riuscirono a vedere un fiume di una bellezza da togliere il fiato: il Volga era dello stesso azzurro del cielo terso che rifletteva e, tanto vasto da sembrare un mare con le acque che scintillavano al sole.
Le truppe tedesche che avanzavano dentro la città, scattavano fotografie, prendevano appunti sui taccuini che sarebbero diventati reliquie familiari, vestigia di giorni gloriosi per nipoti e pronipoti.
Entravano nelle case e portavano via tutto quello che trovavano. Le strade si riempirono dei suoni striduli di centinaia di armoniche, di note di cori sgraziati e dei tonfi dei soldati che ballavano tra le fisarmoniche e le cornamuse.
Triste e solitario risuonava qualche giradischi sovietico ritrovato e acceso: la voce da tenore di Lemešev, quella da basso di Michajlov e la voce giovane di donna che cantava: «E chi lo conosce, perché strizza l’occhio…». Sono i versi della canzone Kto ego zhaet “ resa famosa da Lidija Ruslanova che si esibì anche a Berlino per i soldati davanti al Reichstag in fiamme.
Così doveva essere l’ultimo giorno di guerra per i tedeschi. Così se l’erano immaginato e così sembrava che fosse. I giornali che arrivavano in aereo dalla Germania e quelli locali dell’esercito uscivano con titoli a caratteri cubitali: «Der Fuhrer hat Gesagt: Stalingrad muss fallen!».
Riportavano anche le perdite immani subite dai russi, elencando i trofei conquistati, i prigionieri, i carri armati, i cannoni , gli aerei.
Di conseguenza tutto l’esercito tedesco -soldati e ufficiali- si convinse che l’ ora x era arrivata. «Dopo Stalingrado si torna a casa» dicevano tutti. La volta che il tenente Bach aveva detto al suo comandante che c’erano ancora spazi sterminati da conquistare.
La Siberia, gli Urali, che c’erano le truppe di riserva sovietiche, l’Inghilterra, l’America, si era sentito rispondere: «Sciocchezze! Presa Stalingrado le altre armate scapperanno e l’Inghilterra e l’America firmeranno di corsa la pace.
Noi ce ne torniamo a casa e lasciamo qui qualche compagnia di guarnigione per tenere a bada i partigiani». Quella notte Bach si avventurò fino al Volga, raccolse un po' d’acqua con il casco e la portò al comando del battaglione per mescolarla con la vodka.
Tutti brindarono, poi scrissero a casa per raccontare l’impresa.
«Che la collera magnanima come l’onda s’accenda
È una guerra di popolo, la nostra, una guerra santa».
    (Alzati, immenso paese. Canzone della II guerra mondiale.
    Aleksandr De Bode)

Era una tranquilla sera d’autunno quando il generale Schmidt si stava recando a fare rapporto al comandante Paulus, riflettendo su tutto ciò che avrebbe dovuto determinare la riuscita dell’attacco più feroce dall’inizio del massacro di Stalingrado.
Generali e ufficiali ritenevano che Paulus continuasse a dominare ogni piega della guerra. Invece la sensazione di dominare il tempo e le circostanze gli stava venendo meno.Tutto sembrava andare come doveva, ma anche come non avrebbe dovuto. Gli informatori riferivano che le truppe sovietiche si erano concentrate a nord-ovest e l’aviazione non era in grado di fermarle e sui fianchi dell’armata di Paulus, Von Weichs non disponeva di riserve.
In verità le imponenti vittorie a est e una breccia di oltre mille chilometri verso il Volga non avevano comportato la disfatta definitiva delle armate sovietiche. È questa la riflessione di Paulus che è convinto di vincere ma pensa che non ha più senso combattere a Stalingrado, non è più il centro delle comunicazioni e l’industria pesante è distrutta.


La fontana di Barmalej a Stalingrado circondata dagli edifici distrutti

LA CONTROFFENSIVA SOVIETICA
Uno a nord, l’altro a sud, due magli fatti di milioni di tonnellate di metallo e sangue vivo aspettavano il segnale. Le prime a muovere furono le truppe schierate a nord-ovest di Stalingrado. Il 19 novembre del 1942, alle sette e mezzo del mattino, iniziò un imponente fuoco di copertura lungo la linea del fronte di sud-ovest.
Una pioggia di piombo si abbattè sulle posizioni occupate dalle unità della III armata rumena, poi toccò alla fanteria e ai carri armati.
Il morale delle truppe sovietiche era alle stelle, la LXXVI divisione andò all’attacco al suono delle fanfare. I corpi d’armata rumena vennero sbaragliati, poi i carristi e la cavalleria sovietica riuscirono ad aprire un varco di sessanta chilometri.
Secondo Tolstoj c’è un legame indefinito e misterioso che alimenta in tutto l’esercito la stessa disposizione spirituale, cioè quello stato di spirito che si chiama morale dell’esercito e che costituisce il nerbo principale della guerra.
All’alba del 20 novembre, mossero all’attacco le truppe concentrate nella steppa calmucca a sud di Stalingrado. Il silenzio incombeva denso, compatto. Non c’era più nulla: la steppa, la nebbia, il Volga, solo silenzio.
Poi la nebbia grigia si tinse di porpora e i suoni riempirono di colpo il cielo e la terra, cannoni vicini e lontani avevano unito le loro voci.
All’alba di quel 20 novembre il comando tedesco ebbe chiare le intenzioni dell’offensiva russa quando fu attaccata la IV armata rumena sull’ala destra di Paulus.
Il 21 novembre, le truppe d’assalto sovietiche piegarono il proprio asse di avanzamento e, riunite mossero verso il Don puntando alle retrovie del fronte tedesco.
Una delle unità migliori di Paulus, la 384 divisione di fanteria, dovette spostare il proprio fronte verso nord-ovest per mettersi in posizione di difesa.
Nel frattempo ,le truppe di Eremenko da sud, schiacciava la XXIX divisione motorizzata tedesca e il VI corpo d’armata rumeno. Il 22 novembre i carri armati sovietici giunti dalla steppa da nord e da sud si congiunsero, mentre i fucilieri coprirono efficacemente i fianchi delle truppe d’assalto.
L’obiettivo che il Comando supremo dell’Armata Rossa aveva assegnato alle truppe era stato raggiunto: in cento ore le truppe tedesche a Stalingrado erano state accerchiate.
Che cosa accadde poi? Chi determinò il corso della storia? Paulus e i comandanti di corpo d’armata a quel punto ritenevano che bisognasse ritirarsi anche perché non c’era modo di garantire i rifornimenti per via aerea alle truppe strette d’assedio.
Della situazione fu informato il quartiere generale del Fuhrer che impose di resistere e di sfondare l’assedio. La volontà di Hitler segnò le sorti funeste del Terzo Reich quelle dell’armata di Paulus, aggiungendo una nuova pagina alla storia militare tedesca.
L’idea espressa a suo tempo da Tolstoj secondo il quale non è possibile stringere d’assedio un intero esercito, si basava sull’esperienza militare dell’epoca.
La guerra del 1941-1945 ha dimostrato invece che un esercito può essere accerchiato e lo si può incatenare al suolo, stringerlo in una morsa d’acciaio.
Questo era possibile grazie alla straordinaria mobilità delle truppe che le unità accerchianti sfruttano al meglio mentre quelle accerchiate la perdono del tutto. Di conseguenza soldati e ufficiali delle truppe assediate vengono sbattuti fuori dalla civiltà moderna e ricacciati in quella passata.
E allora assediati e assedianti finiscono per riconsiderare non solo la forza degli eserciti in guerra e il suo futuro ma anche la politica patria, il carisma dei leader, il carattere nazionale e il futuro del proprio popolo.
Come è noto, il trionfo di Stalingrado determinò l’esito della guerra, ma il duello silenzioso fra popolo e Stato- vittoriosi entrambi- non finì lì. Da quel duello dipendevano il destino dell’uomo, la libertà.

I DUE DITTATORI
A questo punto della narrazione, Grossman con finezza psicologica e in modo molto efficace, descrive i pensieri, le emozioni, le paure e le visioni che agitano l’anima dei due dittatori in attesa di notizie dal tritacarne di Stalingrado.
Al Cremlino Stalin aspettava che il comandante del fronte gli facesse rapporto. L’avanzata dei carristi e della cavalleria del fronte di sud-ovest era stata più rapida del previsto. La fanteria si era mossa e le unità motorizzate si preparavano a entrare nella breccia aperta dall’artiglieria.
Guardava il telefono: non suonava. Con la matita in mano avrebbe voluto segnare sulla mappa lo spostamento delle truppe ma per scaramanzia la posò sul tavolo.
Era convinto che in quel momento Hitler stesse pensando a lui come lui stava pensando a Hitler. Rifletteva su Churchill e Roosevelt che avevano fiducia in lui ma non una fiducia piena.
 Lo interpellavano, è vero, ma prima si accordavano sempre e comunque fra loro Che rabbia! Non vedevano in lui un leader europeo ma un despota orientale.
In una situazione così difficile si scoprì a pensare agli occhi intelligenti, spietati e taglienti di Trockij e per la prima volta rimpianse che non potesse essere lì per chiedergli consiglio.
Dall’inizio della guerra provava un senso di mestizia e anche quando partecipava agli incontri pubblici e tutti si alzavano per acclamarlo, aveva sempre l’impressione che ridessero alle sue spalle per come si era perso d’animo nell’estate del Quarantuno.
A volte avrebbe voluto poter scaricare la responsabilità su chi aveva fatto fuori nel Trentasette, su Rykov, Kamenev e Bucharin: che ci pensassero loro a guidare le truppe e il Paese. Ogni tanto, poi, provava una sensazione spaventosa: a sconfiggerlo sul campo di battaglia non erano solo i nemici del momento.
Dietro i carri armati tedeschi, in mezzo alla polvere e al fumo, gli sembrava che avanzassero tutti quelli che aveva punito, represso, domato. Sbucavano dalla tundra, dai ghiacci eterni che si aprivano sulle loro teste, strappando il filo spinato. Dalla Kolyma e dalla repubblica di Komi arrivavano tradotte cariche di redivivi.
Una folla di donne, di bambini con i visi smunti, sofferenti, sfiniti che camminavano verso di lui e lo cercavano con i loro occhi tristi senza odio. La storia non è l’unica a giudicare i vinti e lui lo sapeva più di chiunque altro.
Quei brutti momenti di debolezza duravano poco, pochi minuti al giorno, a volte pochi giorni ma il senso di oppressione restava accompagnato da vari disturbi fisici: bruciori di stomaco, dolori cervicali e capogiri che lo preoccupavano.
L’ora della forza era scoccata. In quei momenti si stavano decidendo le sorti dello Stato fondato da Lenin, il futuro della propria vita politica e personale ma anche quello dell’Europa e le sorti dei contadini e degli operai russi, la libertà del pensiero russo, della letteratura e della scienza russe.
Finalmente il telefono squillò e domandò se i carri armati si erano mossi. All’altro capo Eremenko riferì che la fanteria aveva ripulito la prima linea ma i carri armati non avevano ancora sfondato. Lo faranno la mattina del 22 novembre. Nel momento in cui era arrivata la notizia che a Stalingrado i tedeschi erano stati accerchiati, Stalin aveva accanto a sé Poskrebysev , il suo segretario. Rimase qualche momento in silenzio a occhi chiusi.
Era l’ora del trionfo, non solo su un nemico in carne e ossa ma anche l’ora della vittoria sul passato. Nelle campagne, l’erba sulle tombe del 1930, sarebbe cresciuta più fitta, il ghiaccio e le montagne di neve del Polo avrebbero mantenuto un profondo silenzio.
Chi vince ha sempre ragione e lui lo sapeva meglio di chiunque altro. In quel momento avrebbe voluto accanto a sé i figli e la nipote, la figlia del povero Jakov. Si fanno strada i ricordi di quando era piccolo, la frescura di un giardino, il gorgogliare lontano del fiume.
Lentamente, senza aprire gli occhi, con voce suadente e gutturale iniziò a canticchiare; «T’ho acchiappato uccellino, non fuggirai dalla rete! Per nulla al mondo ci separeremo».
Poskrebysev guardò i capelli bianchi di Stalin, la sua calvizie incipiente, quel viso butterato, gli occhi chiusi e sentì un brivido gelato tra le dita.

HITLER
Nel bosco autunnale di Gorlitz al confine tra Prussia orientale e Lituania piovigginava. Un uomo di media statura in impermeabile grigio, camminava lungo un sentiero tra gli alberi alti.
Al suo passaggio le sentinelle trattenevano il fiato e restavano immobili con il viso bagnato dalla pioggia. Aveva avuto voglia di prendere una boccata d’aria, di restare solo. La pioggerellina era fresca, gradevole e camminare sul tappeto morbido delle foglie gli dava un grande piacere.
Al quartier generale lo avevano esasperato. Non aveva mai provato rispetto per Stalin, lui. Prima o poi anche Churchill avrebbe capito il ruolo tragico della Nuova Germania che aveva fatto scudo al bolscevismo asiatico di Stalin.
Lo pensava continuamente, lo disprezzava, lo voleva umiliare perché aveva incrinato il suo senso di superiorità. Stalin era un bottegaio del Caucaso vendicativo e crudele. I problemi con la VI armata lo distraevano, gli impedivano di essere se stesso.
Finchè era onnipotente suscitava entusiasmo e commozione e sapeva di incarnare li spirito teutonico. Tuttavia, da quando la potenza della Nuova Germania e delle sue armate aveva cominciato a vacillare anche la sua saggezza era sbiadita e offuscata.
La passeggiata solitaria nel bosco non era servita a scuotergli di dosso il peso della quotidianità, a trovare in fondo all’anima la decisione più giusta a cui la bassa manovalanza dello stato maggiore e della direzione del partito non poteva aspirare.
Si sentiva di nuovo un uomo come tanti e lo strazio era insostenibile. Per fondare la Nuova Germania, per innescare la guerra, accendere i forni di Auschwitz e istituire la Gestapo non sarebbe bastato un uomo.
Il creatore, il leader si era dovuto lasciare alle spalle il genere umano. Era convinto che i suoi sentimenti, i pensieri, esistevano al di sopra e al di fuori degli altri uomini.
Ora che i blindati russi lo avevano ricacciato al punto di partenza, quel giorno lo aveva riportato fra gli uomini. Gravato da questi pensieri, la solitudine in mezzo al bosco che prima lo aveva rasserenato, adesso gli faceva paura, come al bambino delle fiabe in un bosco buio e stregato.
Aveva voglia di urlare, di chiudere gli occhi e correre a rifugiarsi tra le braccia della mamma come faceva da piccolo. Non lo rassicurava che in mezzo agli alberi centinaia di uomini addestrati vegliassero sulla sua sicurezza, Nessuno doveva sfiorargli un capello. Fece dietrofront e, reprimendo il desiderio di correre, si avviò verso l’edificio del suo Stato maggiore.
Nelle prime ombre del crepuscolo, oltre gli alberi, le finestre illuminate gli portarono alla mente le fiamme dei forni crematori accesi e provò un umano e immenso terrore.


La foto originale con cui si è composta la copertina del libro

LA DISFATTA TEDESCA
La morte e il gelo custodivano la scena della disfatta nemica. Caos, sbandamento, sofferenza. La neve intrappolava, congelava tutto, preservando nell’immobilità del gelo l’ultimo moto di disperazione, l’ultimo spasmo di macchine e uomini che avevano percorso quelle strade.
 L’esercito sovietico marciava verso occidente, i prigionieri di guerra verso oriente. Era incredibile! Molti erano piccoli, con il naso grosso e la fronte bassa, con ridicole boccucce di coniglio e piccole teste di uccello, foruncolosi , pieni di lentiggini e ascessi.
Gli altri, la nazione che aveva marciato con il mento in avanti, le bocche altere, i capelli biondi, gli occhi azzurri, la pelle candida e il petto di granito erano scomparsi. Quella folla di uomini brutti era simile alla folla dei soldati sofferenti , sventurati figli di madri russe che i tedeschi avevano spinto a colpi di bastone verso i campi di concentramento a ovest nell’autunno del Quarantuno.
 Come non ripensare a quanto i tedeschi avevano riso con scherno della miseria delle isbe russe. Guardavano stupiti e disgustati le culle, le stufe, i quadri alle pareti, le botti, i galletti di terracotta colorata. Il mondo meraviglioso e amato, in cui erano nati e cresciuti i ragazzi che fuggivano nel ‘41 di fronte ai loro carri armati.
La controffensiva russa a Stalingrado aiutò i soldati e la popolazione civile a prendere coscienza di sé. Cominciarono a guardare a se stessi e alle altre nazioni con occhi diversi. Ormai la storia era la storia della gloria russa non quella delle sofferenze e delle umiliazioni patite.
La logica degli eventi fece in modo che una guerra che era del popolo, raggiunto il suo momento di pathos supremo desse a Stalin la possibilità di proclamare l’ideologia del nazionalismo di Stato e affermare l’identità russo-sovietica in ogni possibile ambito.
Intanto a Stalingrado in un bunker veniva aperta una cassa piena di piccoli alberelli di Natale avvolti nel cellophane. Su ogni alberello c’era un filo dorato, qualche pallina e qualche caramella.
Il profumo della resina aveva invaso il sotterraneo scacciando l’odore di obitorio e di fucina, l’odore della prima linea. Il vecchio generale che l’estate precedente aveva guidato la divisione di fanteria motorizzata fino al Volga, sedeva su una cassa di legno davanti alla stufa. I suoi capelli bianchi sembravano emanare profumo di Natale. L’aria si era scaldata e la neve si posava a grandi fiocchi sulla terra con riflessi grigio-azzurri. Aveva saturato l’aria, fermato il vento e soffocato gli spazi, confuso terra e cielo in un corpo unico, morbido, grigio e indistinto. I fiocchi scendevano sul Volga ammutolito, sulla città morta, sulle carcasse dei cavalli e sotto la neve spariva tutto- i cadaveri dei caduti, le armi, i vestiti putridi, i sassi, il ferro ritorto- Ma era il tempo non la neve a posarsi strato dopo strato sul massacro della città. Il presente era già passato e non sembrava esserci alcun futuro nel baluginare lento e soffice della neve.
Il colonnello Adams, aiutante di campo di Paulus, insieme all’attendente Ritter stavano bruciando i documenti del Fedelmaresciallo e preparavano la valigia da cui sporgevano i calzini bucati.
Paulus, fin dai primi momenti dell’assedio aveva capito che i suoi uomini non sarebbero riusciti a sostenere a lungo i combattimenti sul Volga. Tutte le condizioni che in estate gli avevano garantito la vittoria erano venute meno e i vantaggi si erano trasformati in svantaggi.
Aveva parlato con Htler; coordinandosi con Manstein, la VI armata doveva spezzare l’accerchiamento verso sud-ovest, rassegnandosi all’idea di dover abbandonare buona parte dell’artiglieria pesante.
Quando il 24 dicembre Eremenko aveva sconfitto Manstein, ogni singolo comandante tedesco aveva compreso che a Stalingrado non si poteva resistere. Un solo uomo, uno solo, non lo capì, anzi ribattezzò la VI armata “avamposto” di un fronte che si estendeva dal Mar Bianco al Terek.
Tutto questo mentre Stalingrado si era trasformata in un campo di concentramento per prigionieri di guerra armati. Ma la risposta di buon senso non arrivò, Paulus ne ricevette un’altra, la nomina a Fedelmaresciallo.
Fece un ultimo tentativo per far valere le proprie ragioni e ottenne l’ordine massimo del Reich: la Croce di cavaliere con fronde di quercia. Erano titoli postumi e a quel punto capì che Hitler lo considerava già morto.
Non a caso la propaganda di Stato aveva già proclamato santi e martiri le centinaia di migliaia di uomini ai suoi ordini. Invece erano ancora vivi, facevano il brodo con la carne di cavallo, davano la caccia agli ultimi cani e ai corvi della steppa, schiacciavano le pulci.
Nel frattempo in Germania, Hitler ordinava quattro giorni di lutto nazionale e le radio di Stato trasmettevano musiche funebri e solenni in onore degli eroi ormai consegnati alla terra.
“Sono morti perché la Germania potesse vivere”, l’aura del martirio a cui Hitler aveva votato la VI armata avrebbe dato a Paulus e ai suoi uomini una vita nuova, un posto nuovo nel futuro della Germania.
Ma Paulus aveva disobbedito e si era arreso. Tutto era andato come aveva previsto e per quella disfatta provava suo malgrado una soddisfazione strana e straziante: aveva avuto ragione. Adesso lo aspettava una nuova vita, ma che vita e dove? In Siberia, in una prigione di Mosca, nella baracca di un lager? Poi arrivò il tenete colonnello Michajlov, capointerprete militare della VII sezione della direzione politica dello Stato maggiore del fronte per scortare Pulus al quartier generale della LXIV armata. Ora sulle macerie della città, da un balcone un soldato sventola la bandiera rossa.
La notte precedente dall’Oltrevolga il cielo sopra Stalingrado si era acceso di mille colori. Soldati, ufficiali e marinai della flottiglia militare del Volga, carichi di fagotti con pane e scatolette avevano attraversato il fiume senza che qualcuno avesse dato l’ordine. Alcuni portavano persino la vodka e le fisarmoniche. Insieme a loro, inerpicandosi sulle rive, passavano il fiume vecchi coperti di scialli, donne con pantaloni imbottiti da soldato, ragazzi e ragazze che trascinavano piccole slitte cariche di fagotti e cuscini.
Ogni epoca ha una città che la rappresenta e ne costituisce l’anima, e in quegli anni Stalingrado è stata la capitale del mondo.


Il realismo sovietico ha esaltato anche in pittura le imprese dell'Armata Rossa

I PARTIGIANI SOVIETICI NELLA RESISTENZA ITALIANA: UNA STORIA DIMENTICATA
Una delle conseguenze dell’aggressione all’Ucraina da parte della Russia è stata quella di rifiutare le espressioni della cultura russa. Autori di teatro, di musica, di balletto già programmati sono stati cancellati dalla programmazione di alcuni teatri italiani.
Ma ancora più grave è stata la cancellazione di corsi di grandi autori della letteratura russa in qualche università, accogliendo le richieste del governo ucraino. Sono episodi che rasentano il grottesco e si commentano da soli.
I rapporti tra l’Italia e la Russia sono stati molto stretti. Fin dall’Ottocento il nostro Paese ha ospitato colonie di artisti e di esuli politici dalla repressione zarista.
C’è una pagina della nostra storia poco conosciuta, quella dei partigiani sovietici morti combattendo per liberare l’Italia. Tra il 1943 e il 1945, durante il periodo della Resistenza, operarono sul suolo italiano 4.981 partigiani sovietici, in prevalenza azeri, georgiani e russi, con 425 caduti.
Per ragioni politiche, nel dopoguerra questa storia è stata sottaciuta e rimane misconosciuta ai più.
Da quasi vent’anni, la ricercatrice torinese Anna Roberti, insegnante di russo, traduttrice e interprete, figlia di una ex staffetta partigiana, non ha mai smesso di fare da ponte tra due mondi così lontani ma anche così vicini collegando l’Italia con la Russia e gli altri Paesi dell’ex-Urss.
L’incontro con Ivan Subkov un ex partigiano che nel 1944 aveva combattuto in Piemonte la porta a scoprire che a combattere il nazifascismo in Italia ci furono anche tanti stranieri tra cui molti russi.
Come sono arrivati in Italia? Durante la travolgente avanzata tedesca in territorio sovietico, furono fatti molti prigionieri. Tra questi i georgiani, gli azeri e i kazaki ritenuti ariani, non vennero trucidati o imprigionati nei campi di concentramento.
Furono utilizzati come reparti della Wehrmacht contro gli alleati. In un primo tempo sul fronte orientale ma, viste le continue diserzioni furono spostati in Occidente soprattutto in Italia e Francia e impiegati anche nella logistica.
Erano soldati ben preparati dall’Armata Rossa, sapevano muoversi in terreni accidentati e montuosi e conoscevano molto bene i tedeschi.
Ebbero pertanto un importante ruolo di guida e supporto strategico e tattico nei gruppi partigiani soprattutto per i giovani che non si intendevano di guerra e non avevano la preparazione necessaria a combattere.
Da sola, aiutata anche dal lavoro di Nicola Grosa, un ex partigiano piemontese che nel dopoguerra aveva riesumato a mani nude oltre 900 corpi di partigiani per dare loro degna sepoltura, è riuscita a restituire un’identità a centinaia di sovietici, molti dei quali riposano all’interno del cimitero monumentale di Torino, alcuni nel cimitero di Palestrina in provincia di Roma.
Oggi sul Web il suo nome è il primo punto di riferimento per tante famiglie russe, ucraine, kazake e georgiane che ricercano le sorti dei loro antenati scomparsi.
Spesso sono i familiari a cercarla e molti scelgono di venire in Italia.
Un episodio tra i tanti, le è rimasto impresso in modo particolare. Vachang, un ragazzo georgiano cercava suo nonno e l’aveva contattata. Insieme sono stati in Val di Susa dove nel cortile di una scuola c’è un monumento che ricorda i ribelli georgiani. Su quella pietra il ragazzo ha visto il nome del nonno. Finalmente un cerchio era stato chiuso.
La Roberti racconta la grande emozione che prova quando al nome riesce anche a trovare una foto” riesco a guardarli finalmente negli occhi”. La loro presenza più importante si era attestata in Emilia Romagna e nelle Prealpi che vanno da Brescia a Novara e in Veneto.
Alcuni nomi che hanno ricevuto commemorazioni: Pore Mosullishuili, Sikor tateladze, Filip Andreevič, Tamara Firsova, Mendi Huseynzde, Javad Harkmli, Asad Gurbanov.
Nel Lazio sono stati ospitati alcuni campi di prigionia allestiti dal Ministero della Guerra, tra cui quello di Monterotondo. Nel corso di un bombardamento aereo inglese, i prigionieri riuscirono a fuggire. Tre sovietici riuscirono a raggiungere l’entroterra tiburtino, aiutati dalla popolazione e dai primi partigiani della Resistenza romana impegnati nei Castelli Romani e sui Monti Prenestini. Nel corso di un combattimento con i nazifascisti, dopo l’armistizio di Cassibile, sulle montagne a ridosso di Palestrina, caddero Nikolaj Demjačenko, Anatoli Kurepin e Vasilij Skorochodov. Furono sepolti nel cimitero di Palestrina, dove un monumento in pietra ricorda il loro sacrificio. Ogni anno, il 4 novembre, l’Anpi e il Comune di Palestrina depongono una corona di fiori; altrettanto fa l’Ambasciata russa. Quest’anno l’omaggio è stato particolarmente solenne, grazie all’intervento dell’archimandrita ortodosso di Roma.
Ma ci sono storie assai complesse come quella di Chariton di cui si sa ancora poco: un leggendario partigiano sovietico della brigata Stella Rossa, che operò nella zona di Monte Sole, nel bolognese, nota per essere stata teatro di uno dei più violenti eccidi della storia nazista.
Emblematica è la storia di Giorgi Varazashvili, nome di battaglia “Monti” che mantenne il grado di “Capitano” di artiglieria. Divenne uno dei comandanti della brigata Piave, affiancando il Barba (Giovanni Morandini) e Giuseppe Castelli.
Dopo la presa della guarnigione di Tarzo, ci fu la rappresaglia guidata dalla MAS che riuscì ad accerchiare i partigiani tra le colline fra Tarzo e Vittorio Veneto.
Castelli fu catturato, Monti e Barba si tolsero la vita facendosi saltare con una bomba a mano. Il loro sacrificio permise al resto del gruppo di mettersi in salvo. Secondo le testimonianze, la spoglie del Capitano Monti furono sepolte fuori dal cimitero di Tovena in un punto contrassegnato da un cipresso.
Nel 1971 e Giorgi fu assegnata la Medaglia di Bronzo al Valor militare dal Presidente Saragat.
Oggi, con il conflitto in Ucraina il lavoro di ricerca è diventato più complicato per la difficoltà di mantenere i rapporti con gli studiosi russi e ucraini. Ma è proprio in tempi come questi invece che bisogna continuare a parlare di certi temi e coltivare la memoria di coloro a cui dobbiamo la nostra libertà.
Conosciamo poco la storia e la cultura degli altri, è necessario invece conoscere e raccontare tenendo presente che non sta a noi decidere cosa sia giusto o sbagliato tramandare a chi verrà dopo di noi.


BIBLIOGRAFIA
V. Grossman: Stalingrado. 2022 Adelphi Edizioni S.P.A. Milano
V. Grossman: Vita e destino, 2008 Adelphi Edizioni S.P.A. Milano
R. Armeni: Una donna può tutto, 1941: volano le streghe della notte. Ponte alle Grazie, Salani Editore, Milano, 2018
S. Aleksievic: La guerra non ha un volto di donna. Bompiani / RCS Libri S.p.A. Milano, 2015
L. Pavličenko: La cecchina dell’Armata Rossa, Casa Editrice Odoya srl 2021
A. Bravo, A. Foa, L. Scaraffia: I nuovi fili della memoria. Vol. 3°. Edizioni Laterza 2003
L. N. Tostoj : Guerra e pace. Epidem, Novara, 1974
B. Tobagi: La Resistenza delle donne. Einaudi Torino, 2022

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