di Armida Corridori

“ Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo”. Questa considerazione da un mullah a un americano dimostra la differenza abissale nel modo di pensare tra noi e loro.
Ci sono eventi che arrivano così con passo felpato, con passi di colomba, come affermava Nietzsche. La storia è ricca di eventi di questo tipo che sembrano secondari e invece rappresentano l’inizio di svolte decisive.
È stato così nella oscura ma decisiva battaglia di Kirkuk che ha visto l’abbandono da parte di Donald Trump, in Iraq dei Curdi alleati degli americani. È lo stesso scenario a cui stiamo assistendo oggi, con il successore Joe Biden che abbandona a se stesso un altro paese amico, l’Afghanistan.
Perché? Una grande potenza ha dei doveri nei confronti dei suoi alleati. Anche se possono sembrare lontani l’Afghanistan e la sua guerra, è devastante l’immagine di quella massa di donne, uomini e bambini che cerca di aggrapparsi alle ali degli aerei americani che lasciano Kabul.


I bambini e le donne sono i più colpiti dalla rigidità del nuovo regime

Non c’è dubbio che l’infamia è ancora più terribile di quella del 1975 a Saigon, considerata una data nera nella storia del declino americano. L’evacuazione penosa e raffazzonata ha causato un’onda d’urto che è partita da Kabul per spazzare via, da Taiwan ai pesi baltici passando per il mondo arabo, la fiducia che esisteva nella solidità, l’affidabilità, il rispetto della parola data degli Stati Uniti , ne ferisce il prestigio e ne ridimensionerà comunque l’interventismo.
Dal momento che abitualmente suddividiamo il mondo non solo sul piano geografico in Est e Ovest, in Oriente e Occidente, si può dire che quest’ultimo è stato sfrattato , almeno per ora, dal primo.
Il trionfo del jiad ha suscitato costernazione in Europa ma entusiasmo nello Yemen, in Siria, in Somalia e perplessità nelle nazioni limitrofe, Cina e Russia, pur soddisfatte per l’umiliazione subita dal loro principale antagonista. A ciò si affiancano le ambiguità di altri paesi di cui il Pakistan costituisce l’esempio principale: alleato degli Stati Uniti e al tempo stesso aiuto essenziale dei talebani, per i quali è stato un rifugio e in molti casi la patria politica.
A questo punto è importante ricordare che la storia e la geografia di quella parte di mondo è molto complessa e intricata. A iniziare dal nome Pakistan che è un acronimo.
Fu inventato negli anni trenta del ‘900 per indicare una nazione che non esisteva come non esiste oggi. Deriva dalle iniziali di Punjab, Afghania, Kashimir e Sind, mentre “tan” viene dalle ultime lettere di Belucistan.
L’islam ha costituito il riferimento dell’identità nazionale, pertanto il connubio fra islamismo e nazionalismo è connaturato con la stessa storia del Paese ma non è riuscito a evitare nel 1971 la secessione del Bangladesh.
Altrettanto complessa è la storia dell’Afghanistan da sempre crocevia strategico – oggi anche per le vie terrestri e marittime del petrolio – tra le aree mediterraneo-iranica, dell’Asia centrale e del subcontinente indiano.
È uno Stato del tutto artificiale. Nel 1890 nel Grande gioco, descritto da Kipling, fra gli imperi zarista e britannico rispettivamente per l’accesso all’Oceano indiano e per il controllo dell’Asia centrale, si decise di separare i due imperi con una zona cuscinetto.
Le frontiere , dall’Iran alla Cina, furono tracciate alquanto disinvoltamente dal colonnello inglese Durand. Esse non rispettavano le divisioni etniche, ci sono almeno 11 gruppi etno-linguistici. La conseguenza fu uno Stato debole e turbolento, eccetto per un breve periodo dopo la Seconda guerra mondiale.
Un ruolo fu svolto anche dall’Italia. I rapporti tra il clan reale e l’Italia cominciano nel 1929 quando il re Amanullah, costretto all’esilio, decise di accettare l’invito di Vittorio Emanuele e si trasferì in Italia. Qui rimarrà questo ramo della famiglia reale, tutt’ora rappresentato dai figli. A Roma è rimasta la principessa India d’Afghanistan da sempre impegnata nell’aiuto umanitario verso i bambini del suo paese.
L’islam nasce come religione militare e concepisce le forza come dono di Dio, è l’unica fra le tre religioni monoteiste che non attende il Messia come gli ebrei o il suo ritorno come i cristiani affinché si realizzi la volontà di Dio. Al contrario, Maometto, l’ultimo e il più grande dei profeti, ha già compiuto, “sigillato il ciclo della profezia”.
Pertanto la perfezione della volontà divina è stata realizzata in questo mondo già all’epoca dei califfi. In ogni caso l’equilibrio fra potere spirituale e temporale, quindi fra significato ultimo della vita e della politica, è stato da quel momento conforme all’ordine divino e null’altro rimane da inventare : è possibile solo credere e sottomettersi.
Risulta evidente come una tale concezione neghi il principio del divenire che è il fondamento di tutto il pensiero occidentale.
La democrazia, lo sviluppo, la modernizzazione, la ricerca della felicità e del benessere sono valori che si collocano tutti dalla parte di una concezione dell’avvenire giudeo-cristiana, pertanto, secondo gli integralisti da rifiutare.
Un altro elemento connota la diversità tra i due mondi, è quello costituto dalla concezione del tempo. Per definirlo il mondo cristiano ha utilizzato alcuni concetti propri della cultura greca antica.
Kronos, il tempo che passa, quello della vita e delle stagioni, Kairos, il momento propizio, l’occasione da cogliere, Krisis  il momento critico, decisivo in positivo o in negativo.
Nel mondo cristiano Cristo rappresenta per eccellenza il Kairos che designa l’incarnazione, ovvero l’inizio di un tempo nuovo che continuerà fino alla fine dei tempi, mentre il momento della Krisis è quello del giudizio finale preceduto dall’Apocalisse.
Il tempo che intercorre tra i due, Kronos, in fondo non conta, è una specie di presente senza sostanza caratterizzato dall’attesa della fine dei tempi. Tuttavia  nel corso dei secoli si è affermato sempre di più il concetto di Kronos immaginando una progressione temporale illimitata, liberata dal termine ultimo della fine dei tempi. Nasce il tempo moderno senza più limiti caratterizzato dalla prospettiva del progresso.
Durante il XX secolo, questa idea e con  essa l’idea di futuro entrano in crisi. Dopo le due guerre mondiali e la shoah, era difficile credere ancora nel continuo progresso dell’umanità. D’altro canto la rivoluzione digitale, affermando il dominio dell’immediatezza indica il presente come il solo tempo possibile.
Nel momento in cui il futuro perde forza, l’accesso al passato avviene attraverso la memoria. Il passato traumatico coesiste con quello idealizzato nei cui confronti si prova nostalgia e a cui si vorrebbe tornare come dimostrano i fondamentalismi e i populismi.
Nei due casi si resta comunque fuori dalla storia, che invece, quando convoca il passato, lo fa a partire dalla prospettiva di un futuro verso il quale essa pensa che si dovrebbe andare. Le storie nazionali sono figlie di questo modello teleologico.
Forse era inevitabile che le delusioni portate dalla decolonizzazione, dall’oppressione, dall’ingiustizia sociale, dallo scambio economico ineguale, favorisse il rifiuto in blocco dell’intera eredità occidentale.
La nuova corrente diffusasi nel mondo islamico, detta “integralista” o “fondamentalista” ha guadagnato rapidamente consensi all’interno di vasti strati della popolazione dei Paesi musulmani, soprattutto tra i ceti più penalizzati dalla modernizzazione.
La piccola borghesia impoverita, i disoccupati, gli studenti senza prospettive, gli intellettuali scandalizzati dalla corruzione delle oligarchie dirigenti- comprese quelle sedicenti “rivoluzionarie”- le masse dei diseredati urbani.
Lo sguardo “occidentale”, ottimista nei confronti del futuro, ha contagiato per un periodo il Terzo mondo, ma solo superficialmente e a partire dagli anni Settanta un numero sempre crescente di musulmani si è indirizzato verso il fondamentalismo.
Questo fenomeno non è stato compreso e a lungo sottovalutato, la vittoria di una rivoluzione islamica nel 1979 in uno dei più importanti e ricchi Paesi l’Iran, colse tutti di sorpresa.
Si apri un capitolo completamente nuovo della storia dell’Iran e in generale dei Paesi musulmani. La Repubblica iraniana, dominata dal clero scita, divenne il nuovo grande avversario ideologico e politico dell’Occidente capitalista, soppiantando persino il modello rivoluzionario comunista.
Il gruppo dirigente komeinista attuò da subito un rigoroso programma di re-islamizzazione della società. Le donne iraniane dovettero indossare un velo nero lasciando appena visibile parte del viso o addirittura solo gli occhi.
L’arma della lotta internazionale contro il capitalismo americano divenne quella della “guerra santa”, in arabo jihad, letteralmente “sforzo sul cammino di Dio”, un’opera missionaria per la liberazione dall’errore, una guerra da combattere con qualsiasi mezzo, compresi attentati terroristici.


Sono decenni che le tribù afghane sono in guerra

L’Afghanistan, confinante con l’Iran , gravitava dalla fine della Seconda guerra mondiale, nella sfera di influenza sovietica. Temendo l’influsso della vicina rivoluzione islamica iraniana nel 1979 un trattato permise l’ingresso delle truppe russe  nel territorio afghano che si avviò a diventare un Paese socialista.
Fu intrapreso un programma di radicali riforme modernizzatrici, sociali e politiche che non fu apprezzato ma contrastato da parte della popolazione che viveva nelle campagne più tradizionaliste, preoccupata che la modernizzazione fosse contraria ai valori dell’islam.
Il 27 dicembre 1979 si arrivò all’invasione russa e cominciò una guerriglia che durò 12 anni circa, durante la quale gli occupanti non risparmiarono l’uso massiccio di armi distruttive anche contro la popolazione civile.
I guerriglieri afghani – i mujiahedin – si appellavano al fondamentalismo religioso e al diritto dei popoli di autodeterminarsi. L’imperialismo sovietico, per la prima volta, aggrediva un paese povero del Terzo mondo e per la prima volta veniva sconfitto.
Nel 1989 l’Armata rossa, duramente sconfitta, dovette ripiegare e abbandonare il Paese in base agli accordi di Ginevra dello stesso anno. I mujahedin avevano ricevuto l’aiuto militare occidentale oltre a quello dei paesi islamici ma, usciti di scena i sovietici, il regime di Kabul si dimostrò incapace di resistere all’avanzata dei guerriglieri islamici e crollò.
Nel 1994 emerse la fazione dei talebani o “studenti di Dio” che istaurarono un regime con una interpretazione e applicazione della dottrina islamica cosi repressiva da essere considerata dannosa per l’immagine dell’islam perfino dall’Iran komeinista.
Era l’aprile del 1989, la ritirata sovietica era stata appena completata quando al posto di confine sulla cima del passo di Khaibar, tra l’Afghanistan ed il Pakistan, separati da una sola catena, arrivò un camion pieno di mujiahidin.
I passeggeri però non erano afghani, c’erano arabi dalla carnagione chiara, volti dell’Asia centrale dagli occhi azzurri, facce scure dalle sembianze cinesi spuntavano dai turbanti avvolti rozzamente e dalle shalwar kameezes della misura sbagliata.
Portavano a tracolla cartucciere e kalashnikov e ad esclusione di un solo afghano che svolgeva le mansioni di interprete e guida, nessuno dei trenta stranieri parlava pashtu, dari o almeno urdu.
Provenivano da un campo di addestramento vicino al confine ed erano venuti per combattere insieme ai mujiahidin, imparare a usare le armi, fabbricare bombe, apprendere le tattiche militari in modo da portare il jihad nei loro Paesi.
Nel frattempo in uno di quei giorni il primo ministro Benazir Bhutto aveva organizzato una cena per i giornalisti a Islamabad e tra gli ospiti c’era il generale Hameed Gul capo dell’Isi, il servizio segreto pakistano molto felice per la ritirata sovietica.
Gli fu chiesto se non stesse giocando col fuoco invitando radicali musulmani dai paesi islamici che solo apparentemente erano alleati del Pakistan. Il generale rispose che stavano combattendo un jihad e quella che si stava formando era la prima brigata internazionale islamica nell’era moderna.
Già nel 1986 il capo della CIA William Casey aveva intensificato la guerra contro l’Unione Sovietica rifornendo i guerriglieri con missili antivelivolo Stinger per abbattere aerei sovietici e a fornire “consiglieri americani” per addestrare la guerriglia.
La CIA, il britannico MI6 e l’ISI si accordarono per lanciare gli attacchi fino all’interno delle repubbliche sovietiche del Tagikistan e dell’Uzbekistan dalle quali le truppe sovietiche ricevevano i rifornimenti. Il Pakistan aveva dato istruzioni a tutte le sue ambasciate all’estero per concedere visti a chiunque avesse voluto combattere con i mujahidin.
Cosi tra il 1982 e il 1992 circa 35mila musulmani radicali provenienti da 43 paesi islamici avrebbero ricevuto il loro battesimo del fuoco insieme ai guerriglieri afghani, in poco tempo sarebbero diventati 100mila.
Per la maggior parte di loro fu la prima opportunità di studiare nelle centinaia di nuove madrasse fondate in Pakistan e lungo i confini con l’Afghanistan, addestrarsi, combattere insieme e conoscere i movimenti di ispirazione islamica nati in altri Paesi.
Alla luce degli eventi accaduti negli anni successivi, ha dell’incredibile come nessuno tra i servizi segreti coinvolti e i rispettivi governi abbia voluto considerare quali conseguenze avrebbe avuto un tale raggruppamento di migliaia di estremisti  islamici addestrati alle armi.
Secondo Zbigniev Brzezinski ex consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, cos’era più importante sulla scena mondiale della storia, i taliban o il crollo dell’Impero sovietico e la fine della guerra fredda?
I cittadini americani si accorsero delle conseguenze solo quando militanti islamici addestrati in Afghanistan fecero esplodere una bomba al World Trade Center a New York nel 1993, uccidendo sei persone e ferendone mille.
Tanti di quegli islamici radicali si erano convinti che se il jihad afghano aveva sconfitto una superpotenza, l’Unione Sovietica, non avrebbero potuto sconfiggere un’altra superpotenza, gli Stati Uniti, e i regimi dei loro stessi Paesi?
Cosi, mentre gli Stati Uniti videro il collasso dell’Unione Sovietica come il fallimento del sistema comunista, molti musulmani lo intesero esclusivamente come una vittoria dell’islam.
Fra le migliaia di reclute straniere c’era un giovane studente saudita, Osama bin Laden, figlio del magnate delle costruzioni yemenita Muhammad bin Laden, intimo amico del precedente re Faisal e diventato favolosamente ricco con i contratti per rinnovare ed espandere le moschee sacre della Mecca e Medina.
Aveva sostenuto la guerra afghana e contribuito a finanziarla, cosi quando il figlio decise di parteciparvi, la famiglia approvò con entusiasmo. Fino al 1982 Osama tornò spesso in Afghanistan per incontrare i leader mujahidin portando donazioni saudite e le attrezzature necessarie per costruire strade e depositi.
Collaborò alla costruzione del complesso tunnel di Khost che la CIA stava finanziando come grande deposito di armi e centro medico nelle viscere di una montagna al confine col Pakistan.
Un po’ alla volta i guerriglieri guardarono a questo saudita magro e alto circa un metro e novanta, ricco e carismatico come al loro capo. Nel 1989 assunse il comando dell’organizzazione al-Qa’ida, ovvero “la base”, struttura militare e centro di servizi per gli afghani-arabi e le loro famiglie.
Nel 1990 deluso per i contrasti interni tra i mujahidin tornò in Arabia Saudita a lavorare nell’impresa di famiglia. Dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, avrebbe voluto che la famiglia reale organizzasse una difesa popolare del regno, invece re Fahd invitò gli americani.
Quando i 540mila soldati arrivarono, bin Laden criticò apertamente la famiglia reale facendo pressione sull’ulema saudita  affinchè  emettesse delle fatwa – decreti religiosi – contro i non musulmani che si sarebbero stabiliti nel paese.
Nel 1996 tornò di nuovo in Afghanistan e la Cia organizzò una cellula speciale per monitorare le sua attività con gli altri militanti islamici. Tuttavia furono i due attentati dell’agosto 1998 alla ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania, in cui perirono 220 persone, che resero il nome di bin Laden familiare nel mondo musulmano, in Occidente e la sua figura fu demonizzata.
Va ricordato che già dal 1992-93 i leader egiziani e algerini avevano avvertito Washington di tornare a occuparsi diplomaticamente dell’Afghanistan affinché fosse riportata la pace, ma gli avvertimenti furono ignorati.
Fino agli attentati in Africa e nonostante le pressioni americane perché smettessero di appoggiare i taliban, i sauditi continuarono a finanziarli, sordi anche all’invito di estradare Bin Laden.
Nel 1997 in parte per la sua sicurezza, in parte per tenerlo sotto controllo, i talebani spostarono bin Laden a Kandahar. Qui viveva in grande stile con la famiglia, personale di servizio, “commilitoni”.
Si accattivò ulteriormente i favori dei capi taliban inviando diverse centinaia di guerriglieri all’offensiva taliban nel nord del paese. Questi guerriglieri wahabiti aiutarono a eseguire i massacri degli sciti hazara e combatterono contro Massud.
Sempre più la visione del mondo di bin Laden stava diventando dominante, quando fu chiaro che Washington stava organizzando un altro attacco militare, i taliban provarono ad aprire una trattativa, avrebbero mandato via bin Laden in cambio del riconoscimento del loro governo.
La trattativa non raggiunse alcun risultato, bin Laden fu allontanato mentre i taliban garantivano il sancta sanctorum per i movimenti islamici più radicali che il mondo si trovava di fronte nell’era post-guerra fredda.
Ora l’Afghanistan era davvero un paradiso per l’internazionalismo islamico e per il terrorismo che avrebbe insanguinato gran parte del mondo.
Fondamentalismo è diventato un termine conosciuto e viene riferito a quello islamico ma in verità l’origine non è orientale ma cristiana. Nei primi anni del Novecento, negli Stati Uniti, nell’ambito cristiano protestante (in particolare battista) nacque un forte movimento d’opinione che richiamava l’attenzione su una lettura rigorosa della Bibbia
Si rifiutava ogni interpretazione storicizzata che cercasse di adattare il messaggio cristiano alle esigenze del mondo contemporaneo. Vennero pubblicati a Los Angeles una novantina di saggi dal titolo The Fundamentals in cui erano esplicitati i fondamenti della fede cristiana da interpretare letteralmente.
Bisogna seguire il principio della “inerranza” cioè nel testo sacro non possono esistere errori anche in ambito extra-teologico. Infatti non viene accettata ad esempio la teoria evoluzionistica darwiniana.
Più o meno negli stessi anni, nel mondo coloniale iniziavano ad affermarsi movimenti di lotta contro gli europei, in particolare il composito mondo islamico che aveva alle spalle una grande eredità e un’oggettiva subalternità al mondo occidentale, si poneva il problema della ricostruzione di una identità nuova.
Di tale esigenza si facevano interpreti alcuni gruppi “islamisti” che nutrivano la propria credibilità denunciando le élites nazionali occidentalizzate. Predicavano il ritorno ai fondamenti delle propria civiltà cioè la rivelazione coranica.
Ma movimenti di carattere integralista sono nati anche nell’ambito di altre religioni. Lo stato di Israele, nato dal sionismo laico e socialista, a causa del conflitto con i Paesi arabi, la guerra dei sei giorni del 1967, ha colorato di fondamentalismo religioso la vita politica. Il sentimento di appartenenza messianica alla nazione da parte di gruppi di ultraortodossi tende a mettere in secondo piano il pluralismo e i valori democratici.
La presenza di questi gruppi in parlamento, ostili alla nascita di uno Stato palestinese, costituisce un fattore negativo determinante nella soluzione della questione mediorientale e alimenta il terrorismo. Ci sono integralisti anche in India dove gruppi neo-hindù pongono la questione della integrità della tradizione etnica e religiosa induista in opposizione alla forte presenza islamica e di recente, cristiana.
L’altra grande religione asiatica il buddismo, vede nello Sri Lanka la nascita di gruppi integralisti che spingono alla presa di coscienza di una identità etnico-religiosa precisa. La conseguenza è un duro conflitto tra la maggioranza cingalese e la minoranza indù, i Tamil.
Dissoltasi la grande contrapposizione ideologica fra democrazie liberali e comunismo, due sistemi che si volevano universali, sono riemersi vecchi contrasti fondati sulle identità etniche e nazionali e su quelle religiose.
Si assiste allo sviluppo di una conflittualità di carattere locale ma non per questo meno intensa e drammatica per la difesa o la rivendicazione di identità collettive.
Il mondo è entrato in una fase di accentuata instabilità determinata anche dal venir meno in molti casi di quella struttura statale che aveva saputo contenere le spinte disgregatrici.
Messo a repentaglio sia dai processi di globalizzazione, sia dall’affiorare delle rivendicazioni localistiche e particolaristiche, lo Stato-nazione sembra aver concluso la sua parabola senza che sia possibile però intravedere che cosa sia in grado di prenderne il posto.
A differenza delle identità di tipo ideologico, quasi sempre protese alla realizzazione di un futuro diverso, le identità etniche che sembrano oggi dominare la vita politica guardano al passato, orientate alla conservazione di un patrimonio religioso, linguistico, culturale che viene considerato fondante e immodificabile.
Si appellano a un passato eroico, al ricordo di ingiustizie reali o immaginarie , a celebri vittorie o a sconfitte militari. Esse traggono forza dall’insicurezza, dalla rinnovata paura di nemici storici e dalla sensazione di essere minacciati da persone con differenti etichette come sta avvenendo con l’emigrazione.
A rendere paradossale questo fenomeno c’è che la diffusione di questo patrimonio antico avviene sfruttando tutte le potenzialità dei mezzi di comunicazione più moderni e tecnologicamente aggiornati.
Ma dal momento che non esiste un’assoluta purezza o omogeneità culturale, ogni politica basata su identità esclusive, oltre a essere fuori dalla storia come già detto, genere necessariamente una minoranza.
Ciò può condurre nei casi migliori alla discriminazione psicologica o economica, nei casi peggiori all’espulsione di popolazioni e al genocidio in una spirale distruttiva che il mondo ha già conosciuto e dimenticato. La prova che la conoscenza non serve sta nel fatto che tutto si ripete e la luce della ragione rischia di spegnersi di nuovo.
Non c’è dubbio che questi fenomeni sono una delle conseguenze della globalizzazione. Questo termine fa parte ormai del linguaggio comune ma sul suo significato e sulla sua effettiva efficacia  come categoria storica i pareri sono molto discordanti tra gli studiosi.
Comunque, in sintesi, globalizzazione significa il processo in seguito al quale gli stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro chance di potere, dai loro orientamenti, identità, reti.
Nel fenomeno confluiscono diverse dimensioni: la perdita dei confini dell’agire quotidiano nell’economia, nella tecnica, nell’informazione, nei conflitti al punto da trasformare radicalmente la vita quotidiana costringendo tutti ad adeguarsi.
Il denaro, le tecnologie, le merci, l’inquinamento oltrepassano i confini ma anche cose , persone, idee che i governi terrebbero volentieri fuori dal proprio Paese come droghe, immigrati illegali, critiche alla violazione dei diritti umani.
Con la globalizzazione in tutte le sue dimensioni, si va creando una nuova molteplicità di legami e vincoli trasversali tra Staiti e società ma anche il venir meno del complesso degli assunti di fondo in base ai quali finora società e Stati sono stati organizzati, rappresentati e vissuti come unità territoriali che si limitano a vicenda,
La conseguenza è la frammentazione di nuovi rapporti di potere e di concorrenza, conflitti e incroci tra unità e attori nazional-statali da un lato, e attori, identità, spazi sociali, condizioni e processi transnazionali dall’altro.


I Talebani hanno ripreso con facilità il controllo del paese dopo il ritiro degli americani

11 Settembre 2001 - 11 settembre 2021
L’acuirsi della ostilità antiamericana e antioccidentale, spinse Osama bin Laden attraverso la sua organizzazione al-Qa’ida a organizzare e portare a termine il più sanguinoso attentato terroristico di tutti i tempi l’11 settembre 2001.
Due aerei vennero dirottati e fatti schiantare sulle Twin Towers a New York, un terzo veicolo colpi il Pentagono a Washington sede del Ministero della difesa, mentre un quarto per la reazione dei passeggeri si schiantò in Pennsylvania senza colpire alcun obiettivo. I morti furono 2750.
In seguito agli attentati, l’amministrazione americana guidata da G. Bush jr. considerò la lotta contro il radicalismo islamico una priorità assoluta, era il nuovo “ Impero del male”.
Questi terroristi, pur non avendo uno Stato e non fossero potenze militari in senso tradizionale, avevano dimostrato di saper portare a termine azioni che potevano provocare migliaia di vittime.
Tra quelli che gli Stati Uniti consideravano “Stati canaglia” accusati di appoggiare più o meno esplicitamente gruppi terroristici  c’era adesso il regime dei talebani impostosi in Afghanistan dopo la ritirata dei sovietici e che aveva consentito all’organizzazione di Bin Laden di creare basi e campi di addestramento nel suo territorio.
All’inizio del 2002 gli americani decisero di attaccare il Paese con l’aiuto dell’opposizione interna al regime fondamentalista islamico e rovesciarono il potere dei talebani.
Al-Qa’ida perse quindi un importante punto d’appoggio, ma l’organizzazione continuò ad attaccare obiettivi americani e occidentali nel mondo. Bin Laden verrà ucciso in Pakistan nel maggio del 2011 nel corso di un’operazione compiuta dai Navy Seal, un corpo speciale della marina statunitense.



Il 31 agosto 2021 gli americani hanno lasciato l’Afghanistan dopo un impegno durato vent’anni con le modalità già esposte e il Paese è stato riconquistato dai talebani.
Vent’anni inutili? Sono gli stessi di allora? Come sarà la loro azione di governo? Sono questi gli interrogativi che si pongono. Vent’anni di presenza occidentale hanno portato comunque dei cambiamenti: costruzione dei servizi come strade, scuole aperte anche alle bambine, ospedali, l’addestramento di un esercito che poi si è sciolto come neve al sole.
Tra tutti gli interrogativi che si pongono ce n’é uno in particolare che agita l’opinione pubblica occidentale. Il governo dei talebani manterrà la possibilità per le donne di poter andare a scuola, di lavorare, di avere una propria autonomia e un ruolo nello spazio pubblico.? Non lo sappiamo per ora, non resta che aspettare.
Il fallimento della presenza occidentale in quell’area del mondo impone una riflessione profonda in quanto ha messo a nudo come non mai il nostro modo di considerare gli altri, partendo sempre dalla convinzione della nostra superiorità.
Diversi studiosi tra cui il sociologo F. Ferrarotti, l’orientalista Olivier Roy, il filosofo della politica Michael Walzer, condividono le critiche all’operato dell’Occidente. In particolare il filosofo americano sostiene che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto impantanarsi in un impegno militare cosi lungo. Sarebbe stato più utile lavorare a  un’offensiva politica, diplomatica, economica.
Conquistare cuori e menti è impossibile se uccidi civili o sostieni un governo corrotto. In una situazione cosi complessa ad esempio sul piano politico si poteva provare ad aiutare l’Afghanistan a trasformarsi in una federazione visto che nel passato sono falliti tutti i tentativi di dar vita a uno stato centralizzato e all’adozione del suffragio universale.
Questo modello fu tentato nel Pakistan degli anni ’50 al posto della rappresentanza delle varie etnie e tribù. Il risultato provocò una instabilità permanente e la messa sotto tutela del potere politico da parte dell’esercito.
Invece non ci si è preoccupati di conoscere la storia e di capire il Paese, lasciando ogni impegno sociale ad altri, perché a costruire ospedali e scuole sono state le Ong e gli europei tra cui gli italiani che hanno avuto un ruolo importante, non il governo americano.
Un altro errore grave è stato quello di non essere riusciti a creare una classe dirigente affidabile fondata sulle energie migliori del Paese, indispensabile per poter costruire un progetto per il futuro.
Purtroppo per gli americani il conto in banca è l’unico carisma che conta e che detta i comportamenti anche perché non hanno un passato storico consolidato e non hanno un rapporto storico con altre culture.
In questa carenza formativa sta la presunzione di affrontare e risolvere i problemi applicando di fatto ancora i principi della dottrina Monroe esposta nel messaggio al Congresso del 2 dicembre 1823-“ America to the Americans”- “ l’America agli americani”, che si può tradurre anche nello slogan “Tutto per l’America e solo per l’America”.
Forse oggi sia gli Stati Uniti che l’Occidente hanno compreso che la democrazia non si può esportare e non si improvvisa. È il regime politico più difficile che c’è, in quanto richiede che si condividano i valori da parte della maggioranza della popolazione e una narrazione condivisa della propria storia.
Ma non basta , richiede un difficile esercizio di equilibrio continuo nella mediazione dei vari interessi e deve garantire l’accesso allo spazio pubblico a tutti anche agli antisistema.
Come si fa a costruire una comunità ampia, aperta e coesa negando il ruolo delle donne?
In questi giorni stiamo vedendo le immagini delle donne che a Kabul scendono in piazza nei loro abiti lunghi ma a viso scoperto, davanti a uomini che le odiano e le vorrebbero chiuse in casa. Per il momento non hanno paura di rischiare la vita, chiedono di poter lavorare e studiare il che comporta comunque uscire di casa.
Non rinunceranno alla libertà che hanno conquistato e anche se costituiscono una minoranza che vive soprattutto nelle città, speriamo sia un segnale incoraggiante.
Le vicende della storia hanno dimostrato come l’esercizio del potere passa prima di tutto attraverso la costruzione di un mondo chiuso, buio, dove alle donne in particolare viene sottratta la possibilità di esistere se non a un unico scopo: la procreazione. Devono stare coperte perché nessuno sguardo si posi su di loro, mai. Il pensiero sottinteso a questo dogma è che se le donne fossero viste, diventerebbero naturalmente preda di un desiderio altrui.


L'uso del burqa è tornato ad essere imperante in tutto il paese

È altresì evidente come non si concepisca la possibilità di mettere un freno al proprio stesso desiderio.
Il mondo musulmano può sembrare ma non è immobile. Lo dimostra il fatto che Kahina Bahloul è la prima imam donna di Francia. Ha fondato la moschea Fatima d’ispirazione sufista e si batte per un islam moderno e liberale, purificato da paure e sclerosi.
Non è la sola, altre imam donne esistono in Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna in Italia dove Naima Gohani  dirige una preghiera mista nella moschea di Colle Val d’Elsa in Toscana.
Kahina Bahloul, racconta e sfida la tradizione musulmana nella quale la funzione di guida spirituale è sempre stata dominio esclusivo degli uomini. Il suo nome in arabo significa sacerdotessa, una predestinazione?
È stato dopo l’attentato terroristico del 2015 contro Charlie Hebbo che ha deciso di insorgere contro il fondamentalismo ed è diventata nel 2019 la prima imam di Francia.
Di fronte alle polemiche , all’ignoranza e all’immagine degradante della donna musulmana, Kahina risponde con un’attenta lettura del testo sacro.
“ Il Corano non specifica se la funzione d’imam deve essere appannaggio degli uomini o delle donne, quello che emerge è il concetto di guida spirituale o modello”. La lettura degli uomini ha preso il sopravvento sul messaggio di Dio.
I fondamentalisti obiettano che il corpo di una donna sarebbe provocante e potrebbe turbare la concentrazione degli uomini durante la preghiera. Lei chiude la questione rievocando il grande mistico Ibn’Arabi che riteneva la complementarità di maschile e femminile il principio della vita del cosmo.
Idem per l’assenza del velo, anche qui nessuna trasgressione, il velo non è un obbligo religioso. Quel pezzo di stoffa è solo un “simbolo dell’oppressione”.
Un altro esempio interessante è riportato dal Venerdi di Repubblica del 17 settembre 2021. In Egitto, un gruppo di ragazze sta rivoluzionando il settore degli inni coranici, finora appannaggio maschile.
Neema Fath nel 2017 ha fondato un coro composto da donne per esibirsi nel Maqam, termine con cui in arabo si indica la melodia cantata e in particolare la salmodizzazione del Corano.
È considerato blasfemo vedere donne impegnate nei canti sacri e per di più in luoghi all’aperto. Ma le offese, le minacce non l’hanno fermata. Il gruppo che si chiama Alhour oltre a rompere gli stereotipi sociali, conferisce anche uno stile nuovo a un’arte  che da sempre è dominata dagli uomini.
Anche se alcune donne della formazione originaria si sono dovute ritirare su pressione delle loro famiglie, nuove voci si sono aggiunte. Il sogno di Nema Fathi è quello di aprire una scuola in modo che sempre più bambine e ragazze possano apprendere l’arte del canto religioso islamico.
In un contesto familiare e religioso incompatibile con le libertà occidentali proprio le donne saranno la forza che libererà prima o  poi anche i paesi islamici. Sono il soggetto politico nuovo, non sono una minoranza bisognosa, vogliono una società fatta per due e non solo per uno.
Questa è la questione universale che in stagioni e modi diversi ci unisce tutte, non ci rinunceremo mai e cambierà il mondo. La forza femminile, cosi diversa da quella maschile, si farà strada comunque che gli uomini lo vogliano o no.
Sarebbe meglio lo volessero e studiassero  e ne scrivessero, e si dimostrassero intelligenti e nuovi anche loro, ma se non riusciranno a farlo, non importa. Lo faremo noi da sole, piano ma decise fino in fondo. Lo stiamo già facendo. Voi non fermerete il vento, gli fate solo perdere tempo.


Armida Corridori
Villanova di Guidonia, 18 settembre 2021

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