LE CAUSE DI UNA SCONFITTA E L’INCERTEZZA DEL FUTURO
Pietro De Carli
Il 15 settembre 2021 il mondo ha assistito allibito alla improvvisa e inimmaginabile riconquista del potere dei Talebani in Afghanistan, dopo vent’anni dal tragico attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che fece crollare due giganteschi grattacieli, le torri gemelle di New York, facendovi precipitare due arei passeggeri. È come se fossero state cancellate con un colpo di spugna le fragili istituzioni afgane faticosamente sorrette nel corso di due decenni. È apparsa in tutta la sua evidenza la sconfitta di una occupazione militare condotta dagli Stati Uniti con il sostegno militare di 45 nazioni. Non solo gli Stati Uniti, memori di precedenti sconfitte in Vietnam, in Somalia e in Iraq, ma anche la comunità internazionale, hanno perso la propria credibilità. Si è dissolto un esercito afgano formato da 330 mila soldati che non ha opposto resistenza all’avanzata dei miliziani talebani. Ma che potevano fare dopo che il presidente USA Donald Trump aveva concluso una trattativa di resa incondizionata con i talebani, il 29 febbraio 2020 a Doha in Qatar, senza coinvolgere il governo afgano e i partner della NATO, senza prevedere un governo di transizione e delle elezioni per consentire ai cittadini di quel Paese di scegliersi i propri governanti, dopo che i governatori e i governanti si sono arresi o sono fuggiti, dopo che la comunità internazionale si dava precipitosamente alla fuga? Un epilogo grottesco per una missione che il presidente George W. Bush aveva condotto all’insegna della “esportazione della democrazia”. Vent’anni prima i talebani erano considerati come la peste, da eliminare dalla faccia della terra, ed ora considerati interlocutori ineluttabili per giustificare una ritirata senza onore e senza gloria. È parso come se la storia, concepita come irreversibile, fosse rimbalzata improvvisamente all’indietro, rivelando l’inevitabile fallacità di una strategia basata sulla forza militare, a discapito della pragmaticità della diplomazia, accantonata per due decenni, per la ricerca di soluzioni sostenibili.
Le immagini degli ingorghi di traffico nella città di Kabul, degli afghani che cercavano di sfuggire all’arrivo dei talebani, dei funzionari delle ambasciate precipitosamente fuggiti in aeroporto, dalla ressa degli afgani ammassati sulle piste dell’aeroporto di Kabul per cercare di salire sugli aerei militari occidentali in partenza, dei corpi di afgani disperatamente aggrappati alle fusoliere di un aereo militare Usa mentre si alza in volo per poi inevitabilmente staccarsi come puntini neri, dall’alto, flagellandosi al suolo, lasciano una profonda amarezza e un’angoscia disarmante. Come pure i messaggi social di ragazze, donne e giornaliste afgane che testimoniano la loro disperazione e il loro timore per il futuro che li attende in un Paese ripiombato nel cupo grigiore di un regime che al genere femminile riserva la sottomissione e la privazione di ogni diritto. Per chi di noi ha operato in Afghanistan negli anni in cui ha prevalso nettamente l’impegno militare rispetto a quello, esiguo, della ricostruzione da parte della comunità internazionale, in un Paese lacerato da una guerra civile senza fine, sovrastato dalle macerie di un accanimento bellico oltre misura, l’amarezza è ancora più grande. Il primo interrogativo che sorge spontaneo è per quale motivo si è giunti a questo esito disastroso e alla catastrofe umanitaria che ne è conseguita. Nulla accade per caso. Ogni risultato ha delle cause precise, non addebitabili soltanto a chi si è trovato col cerino in mano a gestire le conseguenze di un groviglio inestricabile di decisioni prese nell’arco di un ventennio. Bisogna risalire alle origini di questo conflitto, alle falle di un intervento militare che si prefiggeva di esportare la democrazia con la forza delle armi, alla perseveranza di costumi tribali discriminatori nei confronti delle donne conservati da buona parte della popolazione anche durante il ventennio di occupazione delle missioni militari internazionali, agli immani finanziamenti sprecati negli armamenti riservando solo le briciole allo sforzo di ricostruzione di un Paese sommerso di macerie e privo di infrastrutture, al ruolo dei signori della guerra divenuti padroni delle istituzioni e detentori della produzione e del traffico di oppio, al crollo di fiducia della popolazione nei confronti di una corruzione dilagante, alla prova di forza di una spedizione militare sovrastimata contro un nemico invisibile in grado di continuare a seminare il terrore, all’impossibilità di reggere all’infinito una situazione militare in cui i talebani avevano raggiunto da tempo il controllo di oltre un terzo del Paese, un nemico che non si materializzava in una consistenza militare facilmente localizzabile, ma bensì sparso in molteplici frammenti, difficili da identificare, mimetizzati e protetti da Paesi confinanti compiacenti - come il Pakistan - e da una popolazione complice o intimorita. È il paradosso di una guerra che avrebbe potuto durare all’infinito impedendo all’avversario di conquistare il potere, ma senza mai illudersi di poterlo sconfiggere. Un intervento militare mal concepito, troppo oneroso, dall’esito inevitabilmente fallimentare.
Missione a Ghormach (Badghis) con comunità locali
1. Per comprenderne le cause, bisogna ripartire dalla filosofia propagandistica dell’intervento. Il motto sfoderato dal presidente George W, Bush di “esportazione della democrazia” aveva una funzione comunicativa senza alcun fondamento. La democrazia non è una merce di esportazione. È una conquista che si materializza solo quando sono i popoli a volerla e si adoperano per ottenerla. La Resistenza in Europa, che contribuì ad abbattere il nazi-fascismo, ne è stata la dimostrazione più eloquente. Più recentemente la “primavera araba”, tra fine 2010 e inizi 2011, ha prodotto risultati apprezzabili solo in Tunisia, mentre negli altri Paesi arabi è emersa una recrudescenza di regimi autoritari avversi ai diritti civili e alla laicità dello Stato. L’Afghanistan aveva conosciuto un'altra occupazione militare, quella dell’Armata Rossa, durata un decennio (dal 24 dicembre 1979 al 15 febbraio 1989), ed anche in quel periodo avvenne una forzatura su piano dei costumi e delle tradizioni locali. L’URSS non poteva esportare la democrazia, perché era una dittatura, sia pure con l’eufemismo “del proletariato”, ma introdusse ed impose delle riforme importanti come il diritto allo studio e al lavoro senza distinzioni di genere e l’abolizione dei matrimoni combinati. Provvedimenti che provocarono l’ostilità della popolazione afgana, prevalentemente rurale, nei confronti della introduzione di leggi che minavano l’interpretazione religiosa dell’Islam più radicale ed i costumi su cui si basavano le relazioni sociali tra le famiglie e nei confronti delle donne, accrebbe e cementò l’ostilità nei confronti degli occupanti. A sfruttare quel sentimento furono i mujaheddin che seppero approfittare del malcontento popolare. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Cina, il Pakistan, l’Iran, l’Arabia Saudita e Israele, nella contesa tra blocchi contrapposti, appoggiarono i mujaheddin che riuscirono a logorare le forze sovietiche fino a provocarne la ritirata nel febbraio del 1989. Questa scelta trascurò gli effetti collaterali che avrebbe generato. Dai guerriglieri mujaheddin, sorsero due categorie di soggetti politici che avrebbero influenzato il futuro dell’Afghanistan, e non solo: i signori della guerra da una parte e i talebani appoggiati dal Pakistan dall’altra, artefici di una guerra civile ininterrotta.
2. Gli Stati Uniti ritenevano, a buon motivo, che la superiorità militare avrebbe avuto buon gioco del fragile assetto militare del governo talebano. Memori delle vittime subite dall’Armata Rossa (26.000 morti e 53.753 feriti) durante l’intervento militare sovietico del 24 dicembre 1979 - 15 febbraio 1989, George W. Bush si alleò con i signori della guerra afgani, coalizzati nella Alleanza del Nord, affidandogli l’intervento di terra contro i talebani, nella fase iniziale decisiva, supportandoli con l’aviazione, prima dell’invio delle truppe di terra. Ma nulla si ottiene senza niente in cambio. I nuovi alleati che si erano contesi aree di dominio territoriale, che controllavano miniere di pietre preziose e dominavano il business del traffico dell’oppio, con la nuova intesa ottennero ruoli di prestigio come governatori di province importanti o in qualità di ministri nel governo filoamericano presieduto da Hamid Karzai. Un compromesso che minò la fiducia della popolazione sulla effettiva credibilità del governo di rinnovare il Paese, soprattutto dopo l’approvazione di uno scudo penale in favore dei signori della guerra per sfuggire a condanne per i crimini commessi, della diffusione della corruzione, della ripresa indisturbata della produzione e della coltivazione dell’oppio (tra i principali trafficanti anche il fratello del presidente Karzai), dell’incremento delle diseguaglianze e dell’aumento della popolazione in condizioni di povertà assoluta.
3. Il maggiore azionista dell’intervento militare in Afghanistan erano gli Stati Uniti, a cui si aggiunsero altri 44 Paesi disponibili ad inviare propri contingenti militari. Questi ultimi lo fecero aderendo alla coalizione denominata ISAF (International Security Assistant Force) con il compito di garantire condizioni di sicurezza alle autorità provvisorie afgane insediatesi a Kabul in conformità alla risoluzione n. 1386 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 20 dicembre 2001, sotto il comando della NATO. La denominazione venne modificata il 1° gennaio 2015 in Resolute Support Mission, incentrata sull’addestramento alle forze militari afgane, senza più compiti di combattimento. Il presidente Usa George W. Bush non volle soggiacere alle regole di una coalizione Nato che agiva sulla base dei vincoli delle Nazioni Unite, per avere mani libere, dando vita alla operazione Enduring Freedom (libertà duratura), che alle forze armate unì anche mercenari e contractor (a dicembre 2009 ben 104.000 elementi delle milizie private agivano per conto del governo statunitense). La differenza tra militari e contractor era di non poco conto, mentre i primi dovevano sottostare a precise regole di ingaggio, i secondi non avevano vincoli da rispettare nello svolgimento del loro operato. Tra il 2007 e il 2012 l’America ha speso nelle sue operazioni militari circa 160 miliardi di dollari in private security contractors, motivando questa scelta come più “conveniente” sul piano dei costi rispetto ai soldati regolari. Diversamente da altre aree di conflitto, dove gli eserciti della comunità internazionale sono stati inviati sotto l’egida delle Nazioni Unite (come in Libano), con simboli, colori, divise e bandiere delle Nazioni Unite, in Afghanistan invece, per la irremovibilità americana di voler operare autonomamente senza dover assoggettarsi alle regole stabilite dalle Nazioni Unite, è avvenuta una sovrapposizione di contingenti militari con metodi e finalità diverse. La presenza di 45 eserciti stranieri, ciascuno con le proprie armate, i propri simboli e le proprie bandiere, in luogo di una forza militare sovranazionale di peace-keeping, non ha giocato a favore della comunità internazionale, alimentando l’ostilità, che naturalmente si insinua in ogni popolo fiero della propria libertà e sovranità, specie in quello afgano, noto per la sua ostilità nei confronti degli stranieri che non assumono l’unico atteggiamento ad essi gradito, quello di considerarsi loro ospiti. È in questo modo che contingenti militari che avrebbero dovuto garantire la sicurezza in una delicata fase di transizione favorire la riconciliazione nazionale, da forze amiche, hanno assunto progressivamente, nell’immaginario di ampi strati della popolazione, i connotati di una forza “occupante”.
4. La conferenza di pace di Bonn del 5 dicembre 2001 sulla ricostruzione dell’Afghanistan, è avvenuta con l’imposizione alle Nazioni Unite, da parte dell’amministrazione statunitense di George W. Bush, d’intesa con i signori della guerra afgani, di escludere dalla trattativa i rappresentanti dei talebani che, in quel momento erano allo sbando. Era il momento più propizio per coinvolgerli, avrebbero potuto ancorarsi a quella opportunità che gli veniva offerta per cercare di rimanere protagonisti del futuro del proprio paese, condividendo un percorso istituzionale fino alle libere elezioni, alle quali non avrebbero avuto alcuna speranza di vincere, dopo le malefatte di cui si erano macchiati. Ma si sarebbe creata una opposizione politica e non una guerra civile. Cosa diversa era Al Qaeda e il suo leader Bin Laden, che sarebbero rimasti dei fuori legge, con minori possibilità di raccogliere dei consensi. Oltretutto, il coinvolgimento dei talebani nell’intesa avrebbe agevolato una frattura salutare con al Qaeda. La comunità internazionale non seppe giocare un ruolo più incisivo, se non quello di accodarsi agli Stati Uniti. L’ex ministro degli esteri algerino Lakhdar Brahimi, che all’epoca aveva svolto l’incarico di rappresentante speciale per l’Onu in Afghanistan, non usò mezzi termini: «Ho ripetuto più volte che era spiacevole l’assenza dei Taleban a Bonn. Quando c’è un processo di pace bisognerebbe coinvolgere tutte le parti in causa (...) e io ho il rammarico di non averli fatti partecipare immediatamente alla conferenza di Bonn alla fine del 2001. Ma fu un’operazione impossibile».
5. Dopo l’incursione militare che sconfisse i talebani nel 2001, gli Stati Uniti gli consentirono di trovare rifugio e protezione nelle aree tribali di etnia Pashtun nel territorio pakistano oltre confine. Il governo pakistano che fin dai tempi della Benazir Buhtto, primo ministro dal 1988 al 1996, appoggiò il movimento dei talebani, è alleato degli Stati Uniti, da cui continua ad ottenere aiuti economici per sostenere le proprie spese militari, si è dotato di armamenti nucleari senza cadere nelle sanzioni riservate all’Iran, eppure non ha esitato a offrire protezione a Bin Laden che per dieci anni ha guidato le azioni terroristiche ai danni delle forze militari Usa in Afghanistan, rifocillando, armando e consentendo di organizzarsi anche ai guerriglieri talebani col chiaro intento di destabilizzare l’Afghanistan e impedire che la missione militare della comunità internazionale potesse avere qualche probabilità di successo. È difficile comprendere quale logica avesse la strategia degli Stati Uniti, dominata da un cumulo di indecifrabili contraddizioni, tra cui le relazioni con un alleato come il Pakistan, legittimato ad agire da amico e nemico allo stesso tempo. Gli effetti di quelle contraddizioni non potevano che avere un esito tragicamente fallimentare.
6. Nonostante tutto, c’era ancora una chance per l’Afghanistan, che non venne sfruttata. Le elezioni presidenziali del 2004 raccolsero un consenso di partecipazione popolare superiore alle aspettative, con un’ampia ed entusiastica partecipazione al voto anche della popolazione femminile, che dimostrò l’ampiezza del clima di fiducia che ancora si respirava. Era un attestato che richiedeva da parte del governo delle riforme capaci di corrispondere alle aspettative largamente attese, di miglioramento delle condizioni di vita. Ma poi, divenne chiaro che il quadro politico, economico e sociale, era ancora saldamente in mano ai soliti signori della guerra che si stavano impadronendo delle istituzioni e l’anno successivo, con le elezioni parlamentari ed amministrative, la percentuale dei votanti crollò improvvisamente, dimostrando come meglio non si poteva la delusione e la sfiducia che prese il sopravvento nei sentimenti della popolazione.
De Carli con Ettore Francesco Sequi, segretario generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, all’epoca ambasciatore d’Italia in Afghanistan. (foto di Maria Rubino, 2004)
7. Ci si potrebbe chiedere perché si siano sprecate ingenti risorse economiche per finanziare costosissimi contingenti militari e la onerosissima logistica di supporto, quando nei primi anni, dopo la caduta dei talebani, ne sarebbe stata sufficiente una quantità nettamente inferiore, destinando una parte di quella valanga di soldi in una sorta di piano Marshall per la ricostruzione dell’Afghanistan. Con tutti quei soldi, mediante appalti internazionali trasparenti, si sarebbero ricostruite infrastrutture ingenti e vitali per la rinascita del paese dando impulso allo sviluppo economico e sociale. Il risultato avrebbe cambiato il volto del paese, avviando un processo di modernizzazione che avrebbe attirato investimenti privati, sviluppato l’occupazione e opportunità di impiego, mettendo in circolo un volano economico in grado di aumentare i consumi, determinando un miglioramento nelle condizioni di vita della popolazione. La ricostruzione, quella vera e non la farsa dei piccoli aiuti insignificanti, avrebbe sconfitto inesorabilmente tutto ciò che riportava agli orrori del passato, compresi i talebani e i terroristi. Gli afgani volevano liberarsi del passato, ma non gliene è stata offerta la possibilità.
8. Se a questo aggiungiamo che la comunità internazionale non ha ottemperato agli impegni che si era formalmente assunta alla Conferenza di Bonn ed in quelle successive per la ricostruzione del paese, è facilmente intuibile quale fosse il comune denominatore di una popolazione che viveva in condizioni di estrema povertà e con intravedeva alcun spiraglio per un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Non a caso il tasso di povertà in Afghanistan è passato dal 33,7% del 2001 al 54,5% del 2016, aumentando le diseguaglianze tra ricchi e poveri. E questo mentre il Paese rischia di diventare l’epicentro del narco-traffico. Infatti, la superficie coltivata per la produzione dell’oppio è passata dai 74.000 ettari del 2002 ai 163.000 ettari del 2019.
9. Ci si potrebbe chiedere perché si sia sprecato un fiume di denaro (ben 2.261 miliardi da parte degli Stati Uniti, 8,7 miliardi da parte dell’Italia, senza contare quello degli altri 43 Paesi che hanno partecipato alle operazioni in Afghanistan) per finanziare costosissimi contingenti militari e la onerosissima logistica di supporto, quando nei primi anni, dopo la caduta dei talebani, ne sarebbe stata sufficiente una quantità nettamente inferiore a una sorta di piano Marshall per la ricostruzione dell’Afghanistan. Con tutti quei soldi, mediante appalti internazionali trasparenti con imprese debitamente monitorate, si sarebbero ricostruite infrastrutture vitali per la rinascita del paese e sostenere il rilancio di tutti i settori dell’economia nel rigoroso rispetto della legalità. Il risultato avrebbe cambiato il volto del paese, avviando un processo di modernizzazione che avrebbe attirato investimenti privati, sviluppato l’occupazione e opportunità di impiego, mettendo in circolo un volano economico in grado di aumentare i consumi, determinando un miglioramento nelle condizioni di vita della popolazione. La ricostruzione, quella vera e non la farsa dei piccoli aiuti insignificanti, avrebbe sconfitto inesorabilmente tutto ciò che riportava agli orrori del passato, compresi i talebani, privandoli del sostegno che gli ha consentito di riemergere vittoriosi.
10. Gli interventi di emergenza della cooperazione italiana che ho coordinato dal 2003 al 2007 hanno coinvolto un’area motto vasta del Paese: 22 distretti in 9 province, ricostruendo ospedali ridotti in macerie, scuole numerose finalizzate ad una frequenza senza discriminazioni di genere, pozzi e interventi di irrigazione in agricoltura, piccole aziende cooperative femminili autogestite, sostegno agli orfanatrofi e alla popolazione più vulnerabile.
Clinica di Nharin (sul tetto la bandiera italiana sventola a fianco di quella afghana) 27 febbraio 2006
Tutti i progetti realizzati con fondi stanziati dal governo italiano (12,3 milioni di euro in quei quattro anni) sono stati conclusi con il 100% dei fondi spesi e rendicontati, in stretto rapporto con le comunità e le autorità locali. Sarebbe stato facile, per chiunque l’avesse voluto, farci del male, se fossimo stati presi di mira. Eppure abbiamo svolto il nostro lavoro, indisturbati, per tutto il tempo che vi siamo rimasti. E questo non solo a Kabul, ma anche nella sede distaccata di Pol-i-Khumri, nella provincia di Baghlan, oltre le cime montuose dell’Hindukush, in quella di Nangarhar e nell’ufficio di Khost, in prossimità con il confine con il Pakistan, dove le agenzie delle Nazioni Unite avevano cessato le attività per motivi di sicurezza. La spiegazione la troviamo nella bandiera italiana installata e custodita dalle comunità locali sul tetto della clinica di Nharin che abbiamo ricostruito dalle macerie del terremoto del 2002. La troviamo nella petizione popolare spontanea delle comunità dei villaggi dispersi nelle zone montuose oltre la catena dell’Hindukush, con la quale esprimevano gratitudine al sostegno che gli davamo nel garantire il funzionamento dei loro centri di salute e ne chiedevano la continuità. La trovammo, esplicitamente, nelle parole degli anziani dei villaggi che visitavamo dove avevamo i progetti in nove province dell’Afghanistan, quando ci assicuravano che eravamo loro ospiti e nessuno ci avrebbe torto un capello. Quando il governo italiano volle imitare l’esperienza degli americani in Vietnam, assoggettando la cooperazione italiana ai contingenti militari, obbligando i tecnici di cooperazione a gestire i progetti con la protezione di mezzi militari per dare più visibilità “umanitaria” all’esercito, contravvenendo al principio di lavorare armati solo di penna e block notes, un altro capitolo importante di aiuto alla popolazione locale perse l’efficacia del ruolo che avrebbe dovuto assolvere.
Centro di formazione femminile a Kabul
11. Guardare al futuro oggi è più complesso. Il ruolo della Cina in quell’area geopolitica diventerà più ingombrante. Gli effetti della sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan influirà accentuando la probabilità che Xi Jinping intenda appropriarsi dell’isola di Taiwan con un intervento militare. Dopo questa sconfitta la Cina dubita che gli Usa vogliano immischiarsi nuovamente in una guerra che assumerebbe dimensioni globali. Ne immagina che l’Occidente possa adottare sanzioni economiche che gli si rifletterebbero contro, dopo avergli consentito di divenire la fabbrica del mondo da cui dipende l’economia mondiale, con la delocalizzazione di gran parte di produzioni e componenti per trarre profitto dai minori costi del lavoro. La Cina ha sostenuto i mujaheddin ai tempi dell’invasione sovietica, molti dei quali hanno abbracciato il movimento dei talebani. A Xi non interessano i diritti civili (sollevati dall’Occidente nei confronti dei talebani) e non si intromette mai nella politica interna dei Paesi con cui intrattiene rapporti, l’unica cosa che gli interessa sono gli affari e l’espansionismo dell’influenza economica e politica cinese. Vorrebbe fornirgli aiuti economici per espandere la sua egemonia e concretizzare la via della seta in quell’area, ma non è certo di potersi fidare dei talebani dalla tentazione di intrattenere legami con i potenziali terroristi della minoranza cinese degli Uiguri, di regione islamica, nella regione autonoma cinese dello Xinjiang. L’Afghanistan ha bisogno di aiuti economici e non disdegna quelli occidentali, ma l’Occidente esige il rispetto dei diritti umani, cosa che contraddice la concezione religiosa medioevale dei talebani. A dettare le carte saranno gli affari. Entrano in gioco altre potenze interessate alle risorse minerarie di cui l’Afghanistan dispone, tra cui le terre rare. È il caso, oltre al Pakistan, protagonista e sostenitore del ritorno al potere dei talebani, dell’India, della Russia e della Turchia. Si aprono nuovi scenari dall’esito ancora incerto che influiranno sul nuovo emirato talebano in un’area geopolitica come l’Asia che rappresenta ormai l’epicentro dell’economia mondiale.
De Carli con l’ex sovrano Mohammed Zahir Shah, l’ultimo re afgano, vissuto in esilio a Roma per 29 anni, rientrato in Afghanistan nel 2002 con il riconoscimento di “Padre della Nazione”, dov’è deceduto il 23 luglio 2007 (Kabul, 15 marzo 2006)
Ultimi articoli
Russia > Ucraina
Ricordando Roberto Bagnato
centenario pasolini
Dante
MAKSIM GOR’KIJ E L’ITALIA
Ricordo di Ernesto Che Guevara
IO CONTINUERÒ. LEONARDO DA VINCI
SARDINE
Afghanistan
Rocco Scotellaro
Il ritorno al potere dei Talebani
- Details