Agostino Bagnato
… E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annul’
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Giacomo Leopardi, La ginestra, vv. 41-48
Pensavo che la forte scossa di terremoto del 30 ottobre 2016 avesse potuto esaurire lo sciame aperto il 24 agosto scorso ad Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto. Sbagliavo.
Mercoledì 18 gennaio 2017 sono stato emotivamente travolto dal nuovo sisma che ha colpito la stessa zona. Una tragedia nella tragedia. L’Appennino centrale è investito da ripetute nevicate che hanno sommerso città, borghi, piccoli centri. La popolazione duramente provata dai lutti e dalle distruzioni, dall’abbandono delle proprie case e dello stesso territorio, sta vivendo in condizioni estreme. Chi ha lasciato la montagna per trasferirsi sulla costa marchigiana non soffre meno di coloro che sono rimasti. Ma chi trascorre questo durissimo inverno in condizioni disperate sono coloro che si trovano nelle zone colpite. Bisogna ricordarlo: si tratta di una zona vastissima che comprende i territori di Lazio, Abruzzo, Marche, Umbria. Certamente Amatrice, che ha subito il maggior numero di vittime e ha visto il centro della città completamente raso al suolo, è il simbolo della tragedia. Racchiude e simboleggia tutte le località. Nessuna esclusa. Il sindaco Sergio Pirozzi, che sta dando segni di grande capacità, responsabilità e civismo, ha sulle spalle il peso di questa dolorosa simbologia. L’Italia gli deve essere riconoscente per quello che sta facendo.
Ma a soffrire maggiormente sono gli allevatori che non hanno potuto abbandonare le zone investite dalla violenza del sisma. Come si fa a lasciare pecore, capre, maiali, vacche, vitelli, vitelloni, conigli, pollame sotto la neve all’aperto, con la temperatura che di notte scende anche a meno quindici gradi! Le stalle sono crollate, mancano fieno e mangime perché le forniture non riescono a raggiungere i poderi dove abitazioni e stalle e ricoveri per gli animali non esistono più. Cumuli di neve sommergono interi territori montani e le strade non sono agibili. Se uno spazzaneve riesce ad aprire una strada, la nevicata successiva ostruisce nuovamente la carreggiata. Gli allevatori si riparano come possono, nelle roulotte o sotto le tende, ma gli animali restano all’aperto, sotto la neve e il gelo. Le conseguenze sono la riduzione della produttività di latte e carne, ma soprattutto riguardano gli aborti e la mortalità non soltanto dei nuovi nati. Anche gli animali adulti presentano percentuali di mortalità elevati. Un danno economico enorme!
Ma sentire che le scosse non si fermano procura un’angoscia fortissima. Mentre scrivo questa breve nota, alle 14,30 circa, sento la scrivania tremare, il monitor del computer ondulare, vedo oscillare il lampadario e le tende, vedo piegarsi le cime degli alti pioppi nel giardino condominiale. Sento parole di solidarietà per le popolazioni colpite, ascolto i servizi degli inviati televisivi, ascolto le dichiarazioni delle autorità e degli abitanti dei luoghi duramente colpiti, a cominciare da Amatrice, il simbolo di questa tragedia nazionale, ma il senso di angoscia determinato dall’impotenza non diminuisce. Ad Amatrice è crollato il campanile della chiesa di S. Agostino, sopravvissuto ai precedenti terremoti, e l’inevitabilità accresce la frustrazione e lo spaesamento.
Come fare ad andare avanti? Si tratta di una tragedia sconvolgente. Cosa resterà di quelle zone? Chi rimarrà sulle montagne che sono la gloria della pastorizia e delle tradizioni alimentari dell’Italia centrale? Cosa ne sarà del vasto patrimonio storico, architettonico, artistico? Cosa possiamo fare noi dall’esterno? Ecco l’angoscia che nasce dall’impotenza. Mi sento impotente e quindi pressoché inutile. Mi domando anche se sia opportuno scrivere questa nota. Si tratta di uno sfogo o di una testimonianza?
Questa sensazione che ho provato a raccontare ha colpito anche Salvatore Miglietta, un artista che vive a circa mille chilometri di distanza, a Catanzaro Lido. Non ha sentito nessuna scossa di terremoto delle centinaia che si sono susseguite da quel tragico 24 agosto 2016, ma ha subito avvertito che qualcosa era mutato dentro di sé dopo quella terribile catastrofe. Ha immediatamente dipinto le conseguenze devastanti della prima scossa, fissandole simbolicamente sull’orologio bloccato all’ora del sisma e poi sul crocifisso sospeso nell’aria il giorno dei funerali: tre dipinti drammatici che costituiscono la manifestazione del dolore di ciascun cittadino onesto e sensibile di fronte a tanta umanità devastata.
Ora ritorna sul tema, colpito dalla sensazione di desolazione e lutto che procura la coltre di neve, l’assenza di vita, il vuoto attorno che spalanca le porte alla disperazione. Salvatore Miglietta esercita il proprio magistero artistico restando saldamente legato alla vita che vuole vedere tornare in ogni sua manifestazione: umana, animale e vegetale. Racconta la realtà e lascia uno spiraglio alla speranza attraverso l’emozione che suscita l’arte in sé.
Intanto il terremoto continua…
Roma, 18 gennaio 2017