Natura come orgoglio e passione per essere se stessi. Storia territorio e cultura ambientale per parlare con gli altri
FRANCESCO NARDUZZI. OTTANT’ANNI DI ARTE E NON SOLO
(intervista di Agostino Bagnato)
Francesco Narduzzi nello studio di Monteromano
«Sono nato a Monteromano nella Tuscia viterbese. Un luogo magico da ogni punto di vista. Il territorio è impastato di storia, siti archeologici tra i più importanti del Paese, monumenti naturalistici e architettonici di fascino arcaico, gente laboriosa e fiera. Ho ereditato questi caratteri che mi hanno guidato nella lunga esistenza vissuta tra Monteromano e la Francia. Sono vissuto circa venti anni a Parigi, per lunghi periodi, ma i pensieri vagavano sui solchi tracciati tra le argille dall’aratro trainato dai buoi e poi dai trattori; ai boschi alle macchie e alle acque che hanno ospitato le divinità ctonie numinose e che sento ancora oggi; ai campi di grano duro spiegati al sole e al vento; alle erbe e ai funghi di queste crete miracolose; all’olio e al vino di palmenti e frantoi della mia infanzia quando il mondo si spalancava dalle colline verso il Tirreno dove navigavano ancora Enea ed Ulisse, navi fenice e triremi romane, pirati saraceni e velieri crociati. E le donne fiorenti di questa Tuscia fatta di bellezza e sensualità alle quali non ho mai potuto rinunciare…».
Francesco Narduzzi nello studio controlla le terrecotte
Così parla Francesco Narduzzi nello studio della sua abitazione sul cassero che sovrasta la porta d’ingresso di Monteromano, eretto a protezione di questa sorta di borgo rurale sorto nel XVI secolo come domus culta del Pio Istituto di S. Spirito di Roma. Abitazione luminosa, ordinata, accogliente. Non c’è angolo che non parli della pittura e della scultura di questo artista così misurato nel gesto e nel segno, sempre ponderato nell’azione pittorica, meditativo sulle sorti di un ramo o un tronco d’albero, di una trave centenaria sottratta a una demolizione, di una pietra arenaria o di un detrito etrusco o romano, di un grumo di argilla da modellare come assolcature da fecondare di poesia e mistero.
Francesco Narduzzi compie ottanta anni il prossimo ottobre. E’ schivo a parlare di sé, ma l’appuntamento è molto importante e si convince a lasciarsi andare a qualche considerazione sul suo percorso vissuto e sul futuro. Con la dolcezza, la mitezza e la profondità del sentire di sempre.
Francesco, cosa pensi di non avere fatto nella tua lunga vita di artista e che avresti voluto fare?
Ho fatto tutto ciò che ho voluto. In primo luogo ho creato un alfabeto segnico che è la cifra più importante del mio percorso artistico, che ho cominciato a utilizzare all’inizio dei lontani anni Settanta. Ho dipinto su tela di lino che facevo venire in rotoli dal Kenya, ho disegnato su ogni tipo di carta. Ho scolpito su pietra, legno e ho plasmato l’argilla. Ho realizzato installazioni con legno di ulivo, quercia, noce, castagno. Ho utilizzato rami di ulivo e di quercia per costruire sculture mobili, avvolte in tele dipinte. Ho raccolto tronchi e rami bruciati nel bosco e ne ho tratto magiche forme. Ho inciso le rupi di tufo lungo sentieri etruschi antichissimi e muraglioni di castelli medievali. Ho creato libri d’artista con lastrine di pietra, argilla e carta su cui tracciavo frasi sempre con verbi riflessivi, per testimoniare la mia interiorità. La natura che entra in me e si sostanzia in pensieri: questa è forse la sintesi della mia arte. Ma ho un rimpianto. Avrei voluto lavorare di più sui solchi della terra. Mi hanno ispirato fin dall’infanzia. Per me rappresentano il simbolo della fecondità, del rinnovamento delle stagioni e del divenire nell’universo. Questo tema mi ha sempre affascinato fin da quando andavo a lavorare nei campi con i miei genitori. Restavo talmente incantato da quella trama misteriosa che, tornato a casa, restavo lungamente a sognare.
Francesco Narduzzi, Tatiana Polo e Massimo Luccioli alla mostra Tolstoj oggi, Complesso dei Dioscuri al Quirinale, Roma 2010
Cosa ti aspetti nei prossimi anni?
Vorrei fare qualcosa d’importante sui solchi, appunto, qualcosa che resti per sempre. Non sarà facile. Potrei partire dal personaggio etrusco di Tagete, il fanciullo nato da una zolla di terra come fosse un germoglio di grano, secondo la leggenda tramandata da poeti e scrittori antichi, e che rappresenta la divinità più importante di quel mondo ancora misterioso, perché capace di predire il futuro. Da Tagete, Tages per i latini, Tarxies per gli etruschi, prende il via l’aruspicina[1]. Spero tanto di riuscire a fare questa opera che sarebbe il coronamento della mia attività all’aperto, dopo le iscrizioni rupestri a Blera, Roccarespampani e alcuni castelli nelle vicinanze di Parigi.
Cosa ostacola questo tuo progetto di grande suggestione?
L’insensibilità degli amministratori locali e di tanta parte dell’opinione pubblica. Molti pensano che intervenire sul terreno o sulla roccia sia un capriccio d’artista…
La tua arte legata strettamente alla natura, al rapporto tra uomo e ambiente ha lasciato un segno tangibile, secondo te?
Penso di sì. Coloro che hanno assorbito questo messaggio non sono molti, ma è stato rotto il dorso della incomunicabilità. Oggi c’è molta produzione artistica che trova nel linguaggio della natura un suo forte referente, ma risente da una parte della moda e dall’altra dell’effimero.
Cosa intendi per effimero naturalistico?
Mi riferisco a tante installazioni che si esauriscono nell’evento e di cui l’unica testimonianza resta una foto o un video. Si tratta di creatività legata all’istante che non lascia traccia duratura.
L’infortunio fisico di qualche anno fa, dopo una breve battura d’arresto, non ti ha impedito di riprendere il lavoro artistico. Cosa stai facendo attualmente?
Oltre ai disegni su carta, secondo una mia consuetudine che è diventata tradizione, mi sono dedicato alla terracotta. Ho tenuto alcune mostre importanti negli ultimi anni, da quella romana alla Biblioteca Vallicelliana a quelle viterbesi nella sede dell’Università della Tuscia e nella Chiesa di S. Lucia (verificare) Il critico d’arte Philippe Daverio che ha visitato il mio studio alcuni anni fa, è rimasto favorevolmente colpito dal mio lavoro.
Francesco Narduzzi
Cosa ha rappresentato il lungo soggiorno parigino?
Molto, moltissimo. Ho incontrato persone che mi hanno dato tanto sul piano umano e su quello artistico. Posso dire di avere completato il mio processo formativo proprio in Francia, sia per l’ambiente culturale ricco e vivace sia su quello caratteriale, tenuto conto della profonda valenza del rapporto interpersonale.
Quanto è rimasto dentro di quella lunga esperienza?
Quello che più mi ha sorpreso è stata la facilità di parlare con persone importanti. In Italia è difficilissimo parlare con il sindaco del proprio paese, per non dire di ministri, deputati, senatori, dirigenti politici. Non possono essere dimenticati in questo elenco negativo i dirigenti di ministeri, Regioni, enti pubblici. La burocrazia è davvero impenetrabile in Italia. A Parigi ho avuto modo di parlare con Laurent Fabius, uno dei principali dirigenti socialisti, collaboratore di François Mitterrand, primo ministro e successivamente ministro della difesa. Al Museo di Arte Contemporanea, meglio noto come Beaubourg, ero di casa. Nella Biblioteca sono conservati numerosi miei disegni e libri d’artista.
Mantieni ancora qualche rapporto con la Francia?
Sì, anche se non sono in grado di viaggiare. Qualcuno mi viene a trovare ogni anno e questo contribuisce a darmi la forza per andare avanti.
La Tuscia sta riscuotendo un meritato successo con migliaia di visitatori nei siti archeologici, nei borghi storici, nelle città d’arte, nei siti naturalistici. La Faggeta di Soriano nel Cimino è stata dichiarata patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco; Civita di Bagnoregio è candidata allo stesso riconoscimento. Cosa significa tutto ciò per quegli artisti che hanno fatto del paesaggio e dell’ambiente naturale la base della propria creatività?
Credo di avere dato un minimo contributo per affermare questa cultura del territorio e della natura. Pertanto, sono contento per quanto sta accadendo di positivo nella Tuscia. Mi auguro soltanto che il fenomeno si consolidi e non resti moda passeggera. Questo dipende dalle autorità politiche e amministrative, ma anche dalla popolazione e soprattutto dall’atteggiamento degli intellettuali e degli uomini di cultura.
Come viterbese ti consideri soddisfatto per quanto hai fatto a favore del tuo Paese?
Sì, sono soddisfatto.
E cosa hai ricevuto in cambio? Quali riconoscimenti, attestati, sostegni materiali?
Non ho ottenuto molto; anzi, quasi niente. Ma non ho chiesto mai niente di più di quanto spetti ad ogni cittadino, sulla base della legislazione vigente. Se qualche volta ho chiesto uno spazio espositivo e non l’ho ottenuto, beh, me ne sono fatto una ragione. Gli amici, gli studiosi, i collezionisti sono venuti nel mio studio. E continuano a venire.
Francesco, i primi ottant’anni stanno per trascorrere. Ci saranno molti anni ancora davanti a te per affermare ulteriormente il tuo talento…
Spero! Non sono stato molto fortunato sul piano personale, perché alcune persone a me carissime se ne sono andate molto presto, lasciandomi solo. Penso a Paule Andrée Moselle e a Manuela Feliziani… Provo un grande rimpianto per queste donne che hanno rappresentato un approdo fondamentale nella mia vita e che non torneranno mai più.
Auguri a nome di tutti coloro che ti vogliono bene. Hai collaborato con l’Associazione culturale “l’albatros” fin dalla fondazione e sai di avere moltissimi amici tra di noi. Puoi contare sul nostro affetto.
Sono queste attestazioni che danno la forza di andare avanti.
Grazie.
Roma, 12 agosto 2017
[1] Il mito di Tagete è stato tramandato dalla poesia greca e romana. Nella cultura etrusca le tracce sono relative, essendo i testi pervenuti fino a noi molto scarsi. Il più importante riferimento resta certamente Publio Ovidio Nasone. Pochi versi ma significativi sulla importanza del mito nella tradizione etrusca, collegato a quello romano, sempre ispirato alla terra, all’acqua e alla fenomenologia della natura. «Non tamen Egeriae luctus aliena levare / damna valenti, montisque iacens radicibus imis / liquitur in lacrimas, donec pietate dolentis / mota soror Phoebi gelidum de corpore fontem / fecit, et aeternas artus tenuavit in undas. / Et nymphas tetigit nova res, et Amazone natus / haud aliter stupuit, quam cum Tyrrhenus arator / fatalem glaebam mediis adspexit in arvis / sponte sua primum mulloque agitante moveri, / sumere mox hominis tarraeque amittere formam / oraque venturis aperire recentia fatis: /indigenae dixire Tagen, qui primus Etruscam edocuit gentem casus aperire futuro…». (Quel prodigio impressionò le ninfe, e anche il figlio dell’Amazzone rimase stupito. Stupito come quell’Etrusco che arando vide in mezzo ai campi una zolla portentosa dapprima muoversi da sola, senza che nessuno la spostasse, poi assumere la forma di un uomo, perdendo la forma di zolla, e chiudere le labbra appena nate per rivelare il destino: un essere che gli indigeni chiamarono Tagète, e che fu il primo a insegnare al popolo etrusco il modo di prevedere l’avvenire…). Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1979-1994, Capitolo XV, vv. 547-559, pp. 630-631. Come tramanda la tradizione, il mito narra di un certo Tarchun (probabilmente uno dei Tarquini) che, mentre arava un campo, vide venire alla luce da un solco un bambino con la sapienza di un anziano. Il suo nome Tarxies venne poi latinizzato in Tages. Accorsero al prodigio i lucumoni, i massimi sacerdoti e, mentre il bimbo sentenziava, trascrissero i libri Tagetici, chiamati anche Acherontici, il fiume dell’oltretomba. Finita la sua recita, Tages scomparve come un dio. La leggenda tramanda che fosse figlio della Madre Terra e nipote del dio celeste Tinia. Vedi anche Marco Tullio Cicerone, de Divinatione, 2,23,50. «Sed quid plura? Ortum videamus haruspicinae; sic facillume quid habeat auctoritatis iudicabimus. Tages quidam dicitur in agro Tarquiniensi, cum terra araretur et sulcus altius esset impressus, exstitisse repente et eum adfatus esse qui arabat. Is autem Tages, ut in libris est Etruscorum, puerili specie dicitur visus, sed senili fuisse prudentia. Eius adspectu cum obstipuisset bubulcus clamoremque maiorem cum admiratione edidisset, concursum esse factum, totamque brevi tempore in eum locum Etruriam convenisse. Tum illum plura locutum multis audientibus, qui omnia verba eius exceperint litterisque mandarint. Omnem autem orationem fuisse eam qua haruspicinae disciplina contineretur; eam postea crevisse rebus novis cognoscendis et ad eadem illa principia referendis. Haec accepimus ab ipsis, haec scripta conservant, hunc fontem habent disciplinae».(Ma a che scopo dilungarci? Vediamo l'origine dell'aruspicìna; così giudicheremo nel modo più facile quale autorità essa abbia. Si dice che un contadino, mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su all'improvviso, un certo Tagete e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma il senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione il contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà. Allora Tagete parlò a lungo dinanzi alla folla degli ascoltatori, i quali stettero a sentire con attenzione tutte le sue parole e le misero poi per iscritto. L'intero suo discorso fu quello in cui era contenuta la scienza dell'aruspicìna; essa poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a quegli stessi principi. Ciò abbiamo appreso dagli etruschi stessi, quegli scritti essi conservano, quelli considerano come la fonte della loro dottrina).
Una testimonianza interessante è quella di Giovanni Lido, studioso e funzionario pubblico bizantino al tempo di Giustiniano, noto come Ἰωάννης ὁ Λυδός in greco e Iohannes Lidus in latino. E’ autore del trattato De Ostentis, I, 3 (in greco Περὶ Διοσημείων), sui prodigi e la scienza divinatoria, utile per lo studio delle tradizioni divinatorie greche ed etrusche. Egli descrive brevemente l'argomento e le caratteristiche stilistiche dell'opera ed afferma che fu scritta a modo di dialogo tra Tarconte, un aruspice da non confondere col Tarconte dei tempi di Enea, e lo stesso Tagete. Alla domanda «τῇ τῶν Ἰταλῶν ταύτῃ τῇ συνήθει φωνῇ», e rispondendo l'altro «γράμμασιν ἀρχαίοις καὶ οὐ σφόδρα γνωρίμοις ἡμῖν».