L’arte di Ennio Calabria in un recente libro di Ida Mitrano
“La sua pittura non è compresa nei suoi aspetti innovativi, ma è interpretata attraverso la lente dell’informale o dell’espressionismo astratto mentre richiederebbe, invece, nuovi parametri di lettura per l’individuazione delle istanze innovative in essa presenti”.
Ci voleva questo libro di Ida Mitrano, Ennio Calabria. Nella pittura la vita, per iniziare un discorso che porta molto lontano, oltre gli spazi di questa rivista, oltre la stessa arte del grande pittore. Perché il merito di questo volume è quello di attaccare gli ismi a tutti i costi. Non solo le classificazioni che i libri –e molti critici- continuano ad usare contro ogni evidenza, ma le loro riprese che riguardano artisti impegnati a seguire loro proprie strade.
A furia di ragionare in termini di neoavanguardia, di transavanguardia, di impressionismi, espressionismi, cubismi, primitivismi, rischiamo di mettere su tante squadre simili-calcio, con le loro formazioni, i maestri-allenatori, i tifosi, i giornalisti più o meno amici e via scherzando. La Mitrano sa che non è così.
Lo sa soprattutto quando deve fare i conti con uno dei maestri dell’arte contemporanea che ha sempre tentato strade proprie, a rischio di isolarsi dai grandi contesti politico-culturali.
Il libro ripercorre gli stadi di un cammino che non fa mai a meno dell’impegno dentro la società, il che vuol dire, in momenti storicamente datati, impegno politico tout court, ma non assoggettamento ideologico. Le parole di Calabria nel libro stesso, le citazioni della Mitrano, danno un panorama di un’epoca in cui questo impegno era stato egemonizzato dall’allora Pci, e questo non è cosa da poco: vuol dire che, sulla scorta di quello che era accaduto dal 1917 fino alla morte di Lenin e poi, tragicamente personalizzato, sotto Stalin, l’impegno significava anche vicinanza al partito che rappresentava di fatto una cospicua componente della classe operaia e degli intellettuali. I quali avevano posto un limite alla libertà individuale per far parte di un movimento di redenzione dalla miseria e dall’oppressione. Con tutte le umane conseguenze del caso: quell’impegno andava a irretire componenti profonde dello spirito individuale che in ogni caso avrebbero premuto per uscire fuori in qualche modo, e il tragico destino di Pavese sta lì a dimostrarlo.
L’iter artistico di Calabria che emerge da questo libro è tutt’uno con quello di un uomo che vive in un proprio tempo, che ha una struttura psichica profonda in parte debitrice dei meccanismi bio-ambientali ed in parte strutturata sull’indeterminabile di heisenberghiana memoria. Non solo: la tecnica non è un dono piovutogli improvvisamente dal cielo, ma nasce, si modifica nel corso di uno sviluppo mai lineare in cui ciò che comunemente chiamiamo passato e futuro si amalgano, si separano in parte, si ricombinano in un fieri mai segmentabile. E questo Mitrano ha il merito di metterlo bene in chiaro, riportando spesso le parole stesse del maestro, a sua volta consapevole di questi meccanismi che in lui si fanno senza soluzione di continuità.
Gran parte della critica ha sempre –forse volutamente- ignorato questo elemento di mescidazione e metamorfosi che avrebbe in passato messo in crisi la concezione materialistica del marxismo ortodosso rispolverando i fantasmi filosofici di Bergson quando non del Freud più inquieto e dello stesso Schopenhauer, per non parlare delle “eresie” junghiane che gli ortodossi avrebbero volentieri bruciato sul rogo del meccanicismo deterministico.
Mitrano ci permette anche di guardare ad un Calabria -fin dagli anni Cinquanta- non databile, e questo è un altro pregio, sia delle scelte del critico che dell’arte stessa del maestro. Emerge una ricerca inesausta, e talvolta drammatica, del punto di snodo, del montaliano anello che non tiene, del momento critico che riveli altro da quello che le grandi narrazioni ideologiche intendevano e che diventi stimolo a sua volta di un inesausto conoscere nell’atto stesso di creare. Sì, alcuni tra i lettori avranno capito, il passo verso la ricerca di senso altro è stato compiuto, a patto di non vederlo come un gradino che sta lì, fermo, in attesa del passaggio. Il superamento del limen non è mai al medesimo punto, è una costante trasformazione in cui la spinta al passaggio si chiama talvolta angoscia, insoddisfazione, crisi, abbandono, paura. E però anche arte.
Paradossalmente una delle chiavi iconiche per avvicinarsi di più a questa dimensione (e assai propriamente Mitrano intitola un paragrafo Verso l’icona) è un’opera di Calabria non presente in questo libro: Dante si fa cosa del Cosmo. In questa acquaforte del 1995 sono presenti elementi che dicono molto dell’intera poetica di Calabria: la visione circolare ma infinita dell’essere, il sì al tutto attraverso una morte che si rivela parte di quel sì, con quel corpo-satellite, curvato come lo spazio dell’universo, ormai parte di un tutto indecifrabile ma sensiente. Il corpo di Dante non è rivolto verso il basso, ma il viso guarda verso di noi, a manifestare la acquisita dignità di parte di quel tutto che cela nella mistica (troppo è stato detto del Dante seguace della Scolastica e troppo poco del suo agostinismo mistico) tensione verso l’unità, la parte –complementare- della gravità, del peso, della contraddizione e della separazione.
Ma, a parte l’impossibilità di contenere in un volume l’intero apparato iconografico significante di Calabria, merito indubbio di questo libro è di averci offerto un’immagine nuova di uno dei maestri contemporanei, anche quando essa apparirebbe datata a parte obiecti, visto l’oggetto della rappresentazione, papa Giovanni Paolo II. Soprattutto nell’acrilico su tela Il vero nel falso (2005), che “legge” i funerali del pontefice, riaggalla la presenza popolare, intesa non più in senso politico e ideologico, ma in una accezione assai vicina a quella di Pasolini: un popolo che si muove non nonostante, ma in virtù delle sue contraddizioni (e poi contraddizioni da quale punto di vista?).
In due dei recenti quadri di Calabria si legge in modo più sensibile il senso cangiante di una ricerca mai appagata e appagante, la sofferenza del volto di Wojtyla in Le linee del dolore e L’uomo e la Croce (2016), esposta in occasione del Giubileo della Misericordia nella chiesa romana di sant’Andrea della Valle. Qui riesce ad apparire l’inesprimibile, e il mimetico si unisce al non-realistico in questa frazione di tempo e spazio in cui la sofferenza umana visita gli inferi della distorsione e della frantumazione, della percezione del dolore e della intuizione di altro. Il tremendo momento della sofferenza senza nome diviene segno, oltrepassando le divisioni di superficie, e qui il tutto assume la sua verità che comunemente non conosce lingua in grado di dirla. Non in contraddizione con le manifestazioni operaie, ma anzi, ora più che mai in grado di dire fino in fondo la drammatica completezza dell’essere uomo.
Marco Testi
Ida Mitrano, Ennio Calabria. Nella pittura la vita. Bordeaux, 2017, 182 pagine con tavole a colori, 24 euro.