Il Manifesto per l’arte dell’associazione culturale In Tempo

Marco Testi

La “soggettività dell’essere nella storia” è uno dei punti di consistenza del Manifesto per l’arte promosso dall’associazione culturale In Tempo. L’iniziativa, recita il sottotitolo, riguarda la pittura e la scultura ma ha una più mediata finalità interdisciplinare. Che cosa si propone questo manifesto? Se volessimo essere sintetici, la riscoperta della soggettività nel mondo contemporaneo, e già su questo ci dobbiamo soffermare un attimo. Le classificazioni hanno dei limiti che emergono sempre più prepotentemente in un’epoca di massificazione della comunicazione, con l’abbattimento delle mediazioni –giornalistiche e culturali- e con il rischio delle fake news, le bufale diventate messaggi virali. Soggettivo rischia di essere associato a soggettivistico, che poi scivolerebbe a sua volta verso individualistico, e poi verso il famigerato relativistico che secondo molti ha a che fare con dinamiche culturali emerse soprattutto con il Settecento illuministico. Come se il Settecento e l’illuminismo fossero una sola dimensione impermeabile e come se all’interno dell’illuminismo stesso non si fossero articolate posizioni non solo dialettiche, ma in qualche modo oppositive: basti pensare alla parabola umana e filosofica di Rousseau.

La soggettività di cui parla uno dei 16 punti del Manifesto è però specificamente relazionata con l’essere nella storia: il processo creativo, vi si legge, è immerso fin dal principio nel processo storico. I firmatari hanno di fronte a sé una storia che, al contrario, sembra imbrigliata dalla “robotizzazione” (punto primo), dalla “convenienza” (punto secondo), dalla “riproducibilità dei processi mentali” (nono), dalla negazione “di ogni punto di riferimento” (dodicesimo).

Un pianto intonato sul O tempora o mores di generazionale ricorrenza, dunque, o c’è qualcosa di più? Se guardiamo alla cultura, all’esperienza e alla caratura tecnica di alcuni artisti sostenitori dell’iniziativa, si comprende che il manifesto non è frutto di una reazione generazionale, né una folata anti-politica e contro il sistema. E questo è un elemento ulteriore di approfondimento. La presenza di artisti e critici che hanno militato politicamente significa che il Manifesto ha dietro di sé visioni del mondo che vengono da lontano, non solo dalle loro codificazioni sette-ottocentesche, ma dalle infinite modificazioni nel corso della storia di filosofie e ideologie che provengono anche dalla pòlis greca e che quindi sottendono il concetto di piazza, di partecipazione. Secondo il Manifesto le grandi narrazioni –che fanno parte della dimensione “politica” latu sensu- sono state superate dalla chiacchiera e il cogito è diventato persuasione commerciale, un masso sull’essere. Ogni affermazione è nel contempo diventata virale e minata dall’interno dalla sua stessa velocità che non permette verifiche. Narrare significa oggi far passare un chiacchiericcio che non è parte di un progetto. Certamente la fine di quei progetti di respiro universale –le religioni, le ideologie- han mostrato i loro limiti, ma questi limiti sono la prova che l’umano è imperfetto. Ora è questa imperfezione, secondo il Manifesto, e non il tentativo di superarla attraverso i grandi progetti, che è divenuta il soggetto stesso dello scenario.

Una ulteriore riflessione si impone: vi sono stati momenti della storia culturale dell’uomo in cui il discorso e le sue tecniche hanno avuto una presenza dominante, è accaduto con alcune forme di barocco, soprattutto quello letterario. Lentamente queste forme sono diventate contenuto, per cui, alla seconda generazione, l’estrema ridondanza di alcune strutturazioni poetiche, di omaggio e di approccio tout-court, all’altro, alcune codificazioni in partenza parte retorica e poi contenuto esse stesse, sono diventate la cosa. Il nostro è il tempo in cui le forme hanno mutato –come è normale che sia- le loro coordinate e si stanno di nuovo impadronendo dei gangli vitali dell’esistente. Ma sarebbe sbagliato ridurre il tutto ad un mero ritorno. Qui ci sono basi economiche pressanti e ineludibili che hanno fatto della velocità del web il loro ambiente naturale. Non a caso si parla di nativi digitali. Non possiamo girare la testa, è così. L’uscita, sempre che sia arrivata, dal centro della crisi economica di ormai dieci anni fa lo ha detto chiaramente: la globalizzazione si regge su queste prima impensabili velocità e sulla rinuncia a parlare in termini di identità territoriale o etnica, pensando che l’identità etnica sia tout-court razzismo, cosa che non è. La fine del soggetto regionale o territoriale significa abolizione di eccessivamente lunghe riflessioni, la cancellazione dei vecchi vocabolari, l’acquisizione di nuove parole-guida. Con una sola certezza: indietro non è mai tornato nessuno. Il Manifesto nota giustamente che “l’uomo e la vita sono ridotti ad algoritmo”, e propone l’arte come uno dei mezzi attraverso i quali tornare alle grandi visioni del mondo, anche se quest’arte si farà, e la si sta facendo, con nuove basi e supporti materiali, strumenti diversi, velocità diverse. Intorno all’ottavo secolo prima di Cristo qualcuno riprese segni dimenticati nel buio di invasioni e attacchi predatori per mettere assieme ciò che veniva narrato da affabulatori che si fermavano alla rotonda dei fuochi, al centro della piazza del villaggio ligneo. Per molti quella che poi sarebbe divenuta la scrittura fu la profanazione del sacer, indicibile e irrappresentabile, per altri la possibilità di uscire da quel buio che sapeva di morte e di saccheggi e organizzare, mettere in comune, porre limiti alla legge del più forte.

L’arte è. Rappresenta se stessa e insieme il mondo, una visione sempre individuale anche quando è collettiva, del mondo, dei suoi frutti, del sostentamento e delle idee che prendono poi altre strade che non quelle della immediata soddisfazione. I firmatari del Manifesto per l’arte pongono provocatoriamente il cogito dopo il sum cartesiano, rivendicando quindi la priorità dell’essere sulla parola e sulla forma, in un momento in cui i più avvertiti –e fuori dagli schemi- sentono fortemente la retorica nascosta, per citare un grande anticipatore, Carlo Michelstaedter, sotto la falsa persuasione di una pseudo-realtà, rappresentata come tale in sedicenti narrazioni che senza saperlo sono funzionali ad una nuova mistica, quella della parità attraverso il possesso di cose, non importa se autentiche o dimentiche dell’antica unicità.

Un momento dialettico importante, certo, soprattutto se dietro di esso c’è la consapevolezza della complessità di un momento –e dei momenti che fanno la storia- mai segmentabile e matematizzabile, e quindi in una dinamica permanente che in apparenza cancella e che in realtà rimescola carte in parte vecchie, in parte nuove.

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