Sum ergo cogito
(Asso di cuori)
È un onore, non nel senso formale del termine, inaugurare con Ennio Calabria il ciclo di quattro mostre che mi è stato chiesto di curare e che ho pensato come un unicum. Il poker d’assi che oggi iniziamo a calare sul tavolo verde dello “Studio Arte Fuori Centro”, che ringrazio, è quello composto da: Ennio Calabria appunto, direi l’asso di cuori, e poi in successione Valeria Cademartori, Paolo Assenza e Nicola Rotiroti. Chi gioca a poker sa come sia difficile “legare” un punto del genere. Ed è con l’orgoglio di esserci riusciti che oggi partiamo. Con un piglio un po’ corsaro, ho voluto intitolare questo viaggio Pittori, pittori, perché tutti gli artisti che ne saranno protagonisti ritrovano nella pittura il loro strumento di gran lunga preferito.
Non nascondo che nella scelta di questo titolo si incastoni una mia “non celata” predilezione per un mezzo espressivo che, negli ultimi decenni, ha dovuto subire i colpi e le violenze di una temperie iper-concettuale e ipertecnologica che ha preteso di ridimensionare lo specifico della pittura, purtroppo riuscendo a strappare qualche temporanea vittoria di Pirro nella scena architettata dall’attuale sistema dell’arte. Ma, appunto, si tratta di vittorie di Pirro perché la pittura, come la poesia, come la musica, non muoiono fin quando si evita la barbarie. Il punto semmai è quello di evitare la barbarie. Ma di questo non si occupano dei giocatori di Poker come noi, per lo meno oggi.
Chi più e meglio di Ennio Calabria poteva battezzare un ciclo di mostre con questo titolo? Semmai la cosa da rimarcare è la semplicità e la generosità con la quale un maestro assoluto, come lui, ha accettato di affiancare la sua proposta a quella di artisti tanto più giovani e meno carichi di glorie. Calabria quindi ci farà da apripista e speriamo – ma io ne sono sicuro – che gli altri saranno all’altezza di dialogare con lui da pittori, pittori. Del resto questa grande figura di artista-intellettuale (come ogni artista dovrebbe essere) ha fatto della pittura la sua ragione di vita, raggiungendo livelli di qualità che non hanno avuto picchi per il motivo semplicissimo che, se pur nella diversità espressa dalle stagioni della sua arte, non ha conosciuto fasi alterne ma solo livelli altissimi.
Raramente mi è capitato, nella mia ormai non breve vita di amatore d’arte e poi di critico, di osservare un pittore che non conosca cedimenti. Che mai si distragga o che, come si dice, mai realizzi un quadro con la mano sinistra, per fretta magari o per malumore o per interesse. Ma forse c’è una spiegazione di questo che è un dato di fatto pressoché inconfutabile. E la spiegazione, per chi volesse conoscerne il dettaglio, si ritrova nel recente libro di Ida Mitrano, Ennio Calabria. Nella pittura la vita (Bordeaux edizioni). Il libro, denso di preziosi elementi di conoscenza, riguarda la storia del grande pittore ma anche il contesto entro il quale si è svolta e, soprattutto, spesso, si arricchisce della sua diretta e preziosa testimonianza.
Senza la pretesa di risolvere la complessità della lezione che se ne trae in una mozione telegrafica, una cosa si può dire. Ennio Calabria non si è limitato nella sua vita a fare, tra le altre cose, il pittore. Voglio dire, non si è dato se pur appassionatamente alla pittura. La verità è che si è identificato totalmente con essa. E ciò accadeva mentre la sua arte si nutriva voracemente della storia fino a diventarne parte. In questo senso non c’è stata differenza fra autore e oggetto creato, né fra la dimensione spazio-tempo che gli è stato data di vivere e il suo lavoro. Sta in questo la risposta al perché della qualità costantemente elevata della sua produzione.
Per Calabria vivere, fare politica e dipingere erano e sono – pure se i tempi sono cambiati – la stessa cosa. Un unico processo, un flusso, direi un turbine se si pensa a certi aspetti della sua pittura e persino all’ultimo disegno da lui realizzato per la mostra Dimensione fragile alla Biblioteca Vallicelliana. Mi è capitato di recensire il bel libro di Ida Mitrano ed è scusandomi di una cosa che non si dovrebbe fare che mi autocito. Lo faccio soltanto perché, per come so e posso, difficilmente riuscirei ad esprimermi meglio. Scrivo a proposito del maestro:
“… è proprio della sua natura il rifiuto alla rassegnazione, il suo immergersi in un’attività che è un processo in continuo divenire, dove soggetto e oggetto si fondono. Non esiste dualismo e la realtà è continuamente squassata dall’interno. Sincronismo, metamorfismo, dinamismo, dissezione dei piani personalissima senza compromissione col cubismo, automatismo psichico senza debiti col surrealismo sono le chiavi formali che alimentano un trapano capace di scendere nelle profondità più insondabili. Ho sempre pensato che tutto questo sia la magnifica “messa in scena” del pensiero dell’autore ma anche – non so se consapevolmente o meno - di una grande categoria filosofica: quella della dialettica. Se Hegel e Marx avessero conosciuto Calabria lo avrebbero amato moltissimo perché in lui c’è l’evidenza plastica dell’opposto (l’antitesi) che, scontrandosi con l’altro da sé (la tesi), la feconda producendo l’epifania della sintesi, che di nuovo si pone come tesi in un processo infinito, eterno e unitario. Questo processo è la storia e l’enorme merito di Calabria è quello di raccontarcelo non a parole ma con la sua pittura.”.
Ecco: Calabria pittore della storia! Che resta tale anche quando il suo Padre ideologico (la Sinistra, il PCI, il Sindacato di una volta) non esiste più. Non esiste come la figura ormai sgualcita del pittore di impegno. Espressione che del resto non si addice a Calabria perché il suo impegno (che ancora è immutato) non viene scelto, ma gli corrisponde come una seconda pelle. Da qui l’esigenza, nel mondo nuovo e brutto in cui ci è dato vivere oggi, che la sua pittura-riflessione-scavo intellettuale continui instancabilmente a produrre vere e proprie categorie interpretative del presente, la cui suprema sintesi è custodita nel suo Sum ergo cogito che dà il titolo a questa mostra. L’esistenza viene prima di tutto e produce il pensiero che la modifica in un circuito ininterrotto e autorigenerantesi.
Gli otto dipinti che il nostro Asso di cuori presenta oggi ad “Arte Fuori Centro” sono di una potenza che fa tremare i polsi. Una forza di impatto a cui non sono abituati coloro i quali sono avvezzi alle proposte correnti del post-contemporaneo. Una vera e propria tempesta che spazza via qualsiasi altra timida suggestione, attirando su di sé un’attenzione totale. Con effetti che in qualche modo sono preannunciati da un lavoro del 2009 ripreso e ultimato in questi giorni: Studio per “Parlamento: vento imprevisto”. Un vento che tutto spazza via conquistando la scena. Una scena che viene occupata da cinque personaggi dei quali Calabria a suo modo ritrae le sembianze: Marcel Proust, Jorge Luis Borges, Hector Berlioz, Mahmud Ahmadinejad e sé stesso.
La pittura di questo autore ritrova nella figura umana un oggetto di interesse dominante, anche se, come si è detto, è sempre difficile in Calabria distinguere lui dall’oggetto della sua riflessione pittorica. È proprio questa compenetrazione che, a mio giudizio, lo rende uno dei ritrattisti più grandi almeno dalla seconda metà del secolo scorso fino ad oggi. Inarrivabili, oltre a quelli presentati in questa occasione, i suoi ritratti di Gramsci, Giovanni Paolo II, Stalin, Pasolini che ho visto una volta e mi sono rimasti impressi come un marchio a fuoco nella memoria. E poi l’autoritratto, il suo, drammaticamente sincero nella condivisione di un destino a cui tutti siamo votati: l’incertezza, il dubbio, il tormento, la fragilità.
L’impressione che si prova a osservare i suoi volti e il suo volto mi riconduce a quella che ho provato osservando quelli di Antonello da Messina, Caravaggio, El Greco, Velasquez, Rembrandt e Goya. Parlo naturalmente dell’intensità dell’impressione suscitata ovviamente nella diversità dello stile che, nel caso di Calabria, risulta essere irriducibilmente personale. E poi La luce dei telefonini (2015) della serie, Questa lunga notte, la lunga notte del “tempo della superficie” come lui ama dire, di cui il feticismo dei telefonini è il simbolo più eloquente.
Per finire con l’ultimo dipinto che vale l’intera mostra: Garrula morte (2012), nel quale l’autore si rivolge senza inibizione al tema dei temi, quello della morte che lascia testimonianza di sé attraverso il garrire dei pappagalli. La morte, l’angoscia della quale nutre l’esistenza nostra e la rende possibile, il thauma, la fragilità che, però, insegna la forza. Un quadro di una potenza terribile che mi ha fatto affiorare alla memoria una citazione di Carmelo Bene a proposito della morte e del venire al mondo che: «non è una nascita è già la morte che comincia, è già coma: la vita è un coma, nevvero? Un coma che inizia nelle acque maternali e poi segue fino alla morte della morte perché il morir è il morire della morte: è la morte che muore».
La nascita cioè come presupposto indispensabile di quella morte che, sola, può cancellare l’angoscia della morte stessa. Un’angoscia, tuttavia, che arma la nostra voglia di vivere e di trasformare il mondo. Come si vede una profondità di pensiero che da sola, nella citazione dell’attore-filosofo e nel quadro del pittore-filosofo, misura l’abisso che la separa dalla banalità di un tempo che della morte conosce unicamente la necessità di nasconderla allo sguardo per non turbare i riti del consumo e dell’accumulazione.
E si potrebbe continuare a lungo a tessere le lodi di un autore che merita un’attenzione rinnovata e definitiva. L’arte, come la politica, come la storia (e il poker) hanno un disperato bisogno di assi, soprattutto di cuori, come lui.
Roberto Gramiccia