Claudio Crescentini

Nel recuperare i germi della crisi del pensiero e della critica “attualista” degli anni Trenta del Novecento, volta con coerenza sia contro Croce che contro Gentile, potremmo rintracciare, in funzione estetico-visiva, una chiave di lettura coerente per analizzare la fotografia di quel periodo e in particolare quella tranche di storia della fotografia italiana – tipicamente italiana – legata alle italiche colonie africane. Un settore specifico della fotografia italiana del primo Novecento sempre meno studiato, anche per motivi ideologici e che va lentamente scomparendo proprio negli ambiti di studio ufficiali nazionali. Il recupero contemporaneo non deve ovviamente apparire come di “tipo ideologico”, ma appunto di studio e conoscenza di parte del nostro passato artistico, anche quello meno, per così dire, “politicamente corretto”. La storia e quindi la storia dell’arte è fatta d’altronde anche di queste parentesi nere che però non devono gettare ombra sugli studi successivi, come ad esempio è avvenuto col Futurismo, per la rivalutazione del quale abbiamo dovuto aspettare gli storici americani degli anni Sessanta.

In tale percorso critico risulta quindi interessante recuperare tale “frangia” di storia della fotografia, partendo dal pensiero di Adelchi Baratono,[1] in particolare per quello che riguarda la persistenza concettuale del soggetto guardante abbinata al valore tecnico-sensibile dell’esperienza estetica e per la derivante “redenzione” del concetto di praticità dell’arte e dei suoi differenti orientamenti tecnici.

Si tratta di un concetto che, a nostro avviso, è possibile anche sostenere tramite il razionalismo critico di Antonio Banfi, del quale ci limiteremo a porre in nuce la medianità direttiva della sua riflessione estetica, nel momento in cui, proprio negli anni Trenta, la forte ripresa della riflessione sull’arte costituisce uno dei momenti più salienti e, in maggior misura, qualificanti dell’arte e del pensiero italico.

La sfera estetica così trattata esaudisce in contemporanea due esigenze contrastanti dell’intellettuale e, per traslato, dell’artista che, per quanto riguarda la nostra analisi del fotografo Aldo Baratti, finisce per «cogliere e privilegiare la dimensione dinamica, la provocazione irrazionale, la irriducibilità istituzionale e organizzativa della realtà presente, il “caos del vivente”; e insieme quella di riorganizzarla, formalizzarne la necessità, realizzarne la “composizione razionale”».[2] Così come fa, da altro punto di vista, anche Antonio Banfi, il pensiero del quale, fra l’altro, sembra oscillare fra due dimensioni vicine seppur distinte: quella che potremmo definire del «dover essere» dell’arte e perciò della bellezza, e quella maggiormente pragmatica dal filosofo definita come «corrente di vita», di volta in volta nutrita dall’inestinguibile molteplicità e autonomia dell’esperienza estetica stessa.[3]

Inevitabile diviene perciò l’opposizione con l’estetica crociana e la collisione con i movimenti di pensiero più aperti e internazionali che porteranno, per traslato, lo ripetiamo, a ripercorrere il concetto dell’arte – leggi ancora fotografia – di questo periodo con un’ottica completamente nuova rispetto al precedente.

La ricomposizione avviene ancora mediante i due indicati concetti dedotti dal Banfi e che definiscono, in sintesi, la dicotomia fra dogmatismo e pragmatismo. Per intenderci: decorativismo > funzionalità; gusto contro teoria. Del resto questo è un po’ il problema di tutta la fotografia e dell’arte in generale nel decennio affrontato.[4] Ed è tutto qui – e non è da poco – tutto riassumibile per mezzo delle due già indicate categorie estetiche di Banfi, che finiscono per definire, dal nostro punto di vista, la sperimentazione di un’arte fotografica da intendere soprattutto come tecnica, media funzionale valido per sé stesso, e dall’altra la determinazione di una tecnica artistica definita dal risultato, cioè dall’immagine in sé e per sé. La fotografia quindi come dogmatismo estetico abbinato, ed è il caso esplicito dell’Italia, con l’ideologia dominante.

Si tratta di una dicotomia già a suo tempo verificata da Guido Pellegrini, allora Presidente del Circolo Fotografico Milanese, personaggio e teorico di spicco della fotografia italiana del periodo, per mezzo soprattutto delle sue cronache e recensioni pubblicate sulle pagine della rivista «Cinema». In particolare, nel descrivere i caratteri della fotografia a lui contemporanea, ne schematizza i tratti peculiari nell’ambivalenza fra «foto statica», che riproduce passivamente la visione propria dell’occhio umano, e «foto dinamica» che riproduce ciò che «vede» la camera oscura, la quale «per mezzo del suo occhio acutissimo e luminosissimo “ferma” sulla superficie oggi enormemente sensibile, nudamente e solamente “quello che è”».[5]

In questo periodo ci troviamo comunque nel contesto di una vera e propria rivoluzione internazionale, legata soprattutto alla diffusione della pratica fotografica che vede come mezzo principale il lancio sul mercato di nuove macchine fotografiche economiche, di medio e piccolo formato. Tipo la Rolleiflex, immessa nel mercato dal 1929, cui fece seguito nel ’33 un modello più economico, la Rolleicord, ben presto gradita e utilizzata, oltre che dai foto-cronisti, anche da molti fotoamatori.[6]

A queste va anche ricordata la distribuzione delle più note Leica, Reflex-Korelle e Contax, la prima utilizzata, fra gli altri, anche da Robert Capa e Gerda Taro durante il loro periodo di inviati free lance per documentare la Guerra di Spagna. Ma questa è tutta un’altra storia[7] rispetto a quella che andiamo ad analizzare, con ideali, concetti e inquadrature che insegnano altro rispetto al potere dominante.

Possiamo realmente dire che negli anni Trenta ci troviamo in piena evoluzione della fotografia istantanea, ma non ancora totalmente di tipo amatoriale come avverrà più tardi e comunque nei decenni Quaranta-Cinquanta. Istantanea quindi, ma sempre legata alla visione artistica del soggetto da riprodurre, estrapolato “dal di dentro” della cronaca per divenire storia, seppur interpretata da angolazioni e prospettive diverse come nel caso di quello che abbiamo definito come «foto-riflessioni» di Aldo Baratti.

Presente ad Asmara, in Eritrea, probabilmente già dagli anni Venti,[8] Baratti ha fatto sicuramente parte di quella serie di italiani emigrati nella parte orientale del Corno d’Africa dalla fine dell’Ottocento,[9] con un’accentuazione numerica realmente importante proprio fra gli anni Venti e Trenta, per mezzo anche – se non soprattutto – della propaganda del Regime Fascista.[10]

Baratti comunque rientra senza ombra di dubbio fra i diffusori del “nuovo” mezzo di riproduzione meccanica in Eritrea dove, infatti, proprio dagli anni Trenta si rileva una notevole concentrazione locale di fotografi, anche non italiani.

Molti, infatti, i professionisti eritrei della fotografia che fuoriescono dalla consultazione dei documenti e relazioni economiche dell’epoca, che spesso però non disponevano di un locale fisso dove svolgere la loro attività, un negozio e/o uno studio, anche per la mancanza di reperire i capitali giusti per dare forma ad un importante investimento produttivo com’era appunto quello dell’apertura di una sede commerciale, e che preferivano svolgere la loro attività in maniera, diciamo così, più flessibile.

Ci troviamo di fronte alla presenza e all’attività in loco di quelli che venivano all’epoca inseriti nella categoria dei «Fotoambulanti» che, in un certo senso, riportano alla mente l’ormai famoso personaggio di Don Pasquale il fotografo, amico e coinquilino di Felice Sciosciammocca, felicemente descritto da Eduardo Scarpetta nel 1887 in Miseria e Nobiltà e che appunto professava l’attività di fotografo – in questo caso “semi-ambulante” – sotto il Teatro San Carlo di Napoli.[11]

Aldo Baratti al contrario è iscritto già nel 1931 nel Registro delle ditte presenti in Eritrea, al n. 43, come «ditta / ragione sociale: individuale; oggetto del commercio o dell’industria: Studio fotografico e commercio in articoli fotografici; sede e succursali: Asmara».[12]

Un professionista quindi, con sede professionale stabile registrata a suo nome, nella città dove vive da tempo, Asmara.

Un fotografo non di guerra quindi, ma di realtà, quella realtà “esotica” tanto amata in Italia e che Baratti esportava come parte integrante del sogno italiano in Africa. In tale contesto colpisce la sua serie fotografica delle Venere nera, realizzata negli anni 1930-35, ancora oggi indubbiamente il concept fotografico più conosciuto di Baratti (fig. 1).

Fig. 1 Aldo Baratti, Ragazza eritrea (serie Venere nera), 1930-35, fotografia, coll. privata

Immagini originali di ragazze in posa, riprodotte poi in cartoline distribuite anche in Italia, con appunto «(…) giovani ragazze arabe e bilene, baria e cunama. Le foto erano in bianco e nero e per l’epoca erano terribilmente audaci perché offrivano la più stupefacente collezione di seni turgidi, di pose ardite e di sguardi provocanti. Destinate originariamente alle truppe del corpo di spedizione, le cartoline avevano conosciuto una larga diffusione anche in Italia».[13]

Ritratti di giovani ragazze di colore realizzati da Baratti con un occhio particolarmente estetizzante, come a voler quasi rafforzare l’immagine iconica delle stesse rappresentate. Con in più un tocco “esotico”, o ritenuto tale, dato ad esempio dalle pelli animali dove le ragazze venivano sdraiate e/o sedute o da autoctone decorazioni parietali di scenografia.

Evidente anche il taglio cinematografico della rappresentazione, dove, per l’immagine di questa serie di ritratti femminili, il fotografo fa uso di una specifica delineazione dell’utilizzo di un certo tipo di pose languide, divistiche, di tipo prettamente occidentale. Pose che però caricano la forza visuale della rappresentazione mediante il confronto/scontro con la semplicità dell’atteggiamento fisionomico di queste stesse ragazze, dei loro sorrisi che rimandano ancora alle loro coetanee italiane utilizzate nel cosiddetto cinema dei “telefoni bianchi” che proprio all’epoca andava invadendo il mercato cinematografico italiano e delle colonie italiche. E che tanto piaceva al pubblico italiano d’Italia e dell’Africa italiana.[14]

Non è ovviamente da porre in secondo piano la sensualità della posa scelta per queste ragazze, altro elemento sul quale il fotografo andava vivamente insistendo, in modo quasi da implementare un nuovo mercato dell’immagine fotografica, fra Africa ed Europa, fra nord e sud, con ragazze nere in, quelle che si potremmo definire, “pose da bianche”. Continuando con i riferimenti cinematografici, potremmo dire che Baratti fotografava ragazze nere come ragazze “della porta accanto”, ovviamente più “spudorate” e ammiccanti rispetto al coevo contraltare filmico.

Oltre a questa serie, Baratti si specializza anche in rappresentazioni più, diciamo così, sociali, sempre da collegare alla curiosità occidentale e del pubblico della madrepatria, mediante la realizzazione di fotografie scattate nei dintorni di Asmara e raffiguranti scene di vita e di lavoro quotidiano. Come nella serie Lavoro contadino, del periodo 1932-34 (figg. 2-3).

Fig. 2 Aldo Baratti, Bambini nella campagna dei dintorni di Asmara, (serie Lavoro contadino), 1932-34, fotografia, coll. privata

Fig. 3 Aldo Baratti, Costruzione di recipienti per granaglie (serie Lavoro contadino), 1932-34, fotografia, coll. privata

In questo caso possiamo quasi parlare di istantanea e di un lavoro sull’immagine in qualche modo “meno accurato” per quanto riguarda la composizione della scena, rispetto alla serie Venere nera realizzata da Baratti totalmente nel suo studio di Asmara.

Scatti comunque non casuali e non preparati, ma che proprio per questa loro ricercata immediatezza riescono a definire la freschezza e la semplicità della scena fermata dal fotografo.

In tal senso ci troviamo proprio nell’attivazione pragmatica delle teorie già riportate di Guido Pellegrini, nella più totale ambivalenza proprio fra quella realizzazione di «foto statica» e «foto dinamica» che il teorico della fotografia aveva ampiamente teorizzato negli anni Trenta in Italia.

Il tentativo di Baratti sembra essere quello di voler superare l’impasse del foto-documento nei confronti di una (pre)meditata idea di foto d’arte composta da immagini scarne, essenziali, emblematiche, che ormai, negli anni Trenta, era diventata serva integerrima del Fascismo e che, dopo la caduta del Regime, tornerà ad essere relegata a pura fonte di documentazione più che di arte, quasi di tipo sociale, in qualche modo antropologico, etnografico. Mentre a nostro avviso Baratti cerca di realizzare una fotografia che va decisamente al di là dello stereotipo dell’idea epica del mondo divulgata, ad esempio, da molto coeva fotografia americana, per una fotografia invece che seppur puntata verso la “diversità” della rappresentazione di razze e società, riesce però a farlo con un occhio che non è solo da colonizzatore ma appunto quello curioso e indagatore del fotografo e quindi dell’arte.

Si veda in tal senso Scena rituale (fig. 4). In questo caso la scena fotografata da Baratti è identificabile con i rituali del clero copto che proprio nella comunità cristiana italiana delle colonie d’Africa aveva trovato un ambiente decisamene benevolo e disponibile, anche per quella sua particolarità di creare fulcri monacali dediti alla preghiera e all’aiuto sociale e familiare dei credenti, soprattutto nelle zone desertiche.

Fig. 4 Aldo Baratti, Scena rituale (o Clero copto), 1932 ca., fotografia, coll. privata

La fotografia è giocata per giustapposizioni strutturali date dal trattamento dei corpi e dei panneggi delle vesti, come ad esempio in una fotografia di architettura di Luciano Morpurgo. Ma le fotografie di Baratti hanno comunque il pregio di non restare “mute” ma di trasmettere all’osservatore il senso, anche naturale, della realtà “così com’è”, con la pretesa quindi di “parlare”, di affermare anche un pensiero, una riflessione dell’artista fotografo relativa a ciò che vede e per chi guarda.

Imprescindibile l’adesione alla retorica nazionalista del Fascismo, in un’epoca in cui la fotografia, con la sua connaturata attitudine indagatoria e rivelatrice, si era ormai già ampiamente avviata a divenire un potente e persuasivo mezzo mass-mediologico.

Ma con Baratti ci sembra però che la fotografia torna ad essere, seppur nella logica di una contestualizzazione storica ben definita e di una impostazione culturale altamente identificata, elemento dinamico e pensiero, con in più quel senso più spiccatamente – sfacciatamente – esotico che tanto piaceva al Regime e ai suoi sudditi.

La fotografia quindi si va sempre più ad integrare all’operazione intellettuale del fotografo, «foto-riflessioni» come l’abbiamo definita, in funzione ideologica e di Regime, il quale, preme ricordare, per lungo tempo ha affidato la divulgazione della propria immagine al mussoliniano Istituto Luce, laboratorio e medium di persuasione e di celebrazione dei miti del Regime stesso.

In questo modo il fotografo Baratti supera in un colpo solo la divisione, ancora molto attuale nella pratica della fotografia italiana così come nelle teorizzazioni divulgate dalle riviste specializzate italiane del periodo, tra fotografia artistica e fotografia documentaria e sociale, cercando d’imporre, per quanto sia possibile da Asmara, un nuovo modo di fare e vedere la fotografia, focalizzata in primis su una sua propria e più totale forza di persuasione e perciò di pensiero, dove ovviamente l’intento politico non è minimamente da porre in secondo piano.

 

[1] Cfr. A. Baratono, Il mondo sensibile. Introduzione all’estetica, Messina-Milano 1934.

[2] A.L. De Castris, Egemonia e fascismo, Bologna 1981, p. 103.

[3] Per quanto riguarda il pensiero di Antonio Banfi rimandiamo al suo Per un razionalismo critico, Como 1943 e alle Lezioni di estetica raccolte a cura di Maria Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano 1945. Ricordiamo comunque che il pensiero di Antonio Banfi aveva ovviamente come unico riferimento critico la scrittura da noi nella presente sede applicato, come già anticipato, alla fotografia.

[4] Per un maggior approfondimento della questione, sia a livello estetico che sul piano fotografico e quindi artistico del periodo, cfr. C. Crescentini, Dicotomie nella fotografia italiana all’epoca del déco, in F. Benzi a c. di, Il Deco in Italia, cat. mostra, Roma 2004, Milano 2004, pp. 302-317.

[5] G. Pellegrini, La nuova fotografia, in «Il Progresso Fotografico», n. 3, 30 marzo 1933.

[6] «Nell’evoluzione della macchina fotografica, vanno [anche] ricordate l’Exacta, che è stata la prima reflex monoculare di piccolo formato, cm 4x6,5 (1933), la Primarflex di Curt Bentzin, cm 5x6 (1934)». I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Roma-Bari 2003, p. 160.

[7] Una storia così bene raccontata di recente sotto forma di romanzo da H. Janeczek, La ragazza con la Leica, Milano 2017, libro vincitore del LXXII Premio Strega.

[8] A quanto risulta dalla residua e frammentata documentazione relativa all’attività fotografica di Aldo Baratti fra l’Italia e Asmara, ricordiamo che alcune sue foto risultano pubblicate nel testo: Prime letture tigrigna. Qadamaje masehafe nebabe, Asmara, Missione Evangelica, 1928. Mentre nel 1931 risulta «Premiata foto Baratti, Asmara – Massaua. Rappresentante esclusiva depositaria della casa M. Cappelli di Milano. Lastre – pellicole – carte. Fotografie artistiche e commerciali nere e colorate. Riproduzioni e ingrandimenti. Laboratorio per stampe e sviluppi per dilettanti con perfetto macchinario moderno. Ricco assortimento di materiale fotografico di 1° ordine. Vedute – usi – costumi e tipi della Colonia in qualsiasi formato. Montature inglesi e pittura ad acquarello e olio». Cfr. L. Goglia, Africa, colonialismo, fotografia: il caso italiano (1885-1940), in Fonti e problemi della politica coloniale italiana, Atti del Convegno di Studio, Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma 1996, pp. 827-829.

[9] Ricordiamo, con solo un minimo cenno storico, che l'inizio dell'occupazione italiana dell’Eritrea avvenne nel novembre 1869 con l’avviò delle trattative per la cessione della Baia di Assab al Governo italiano, portate avanti da padre Giuseppe Sapeto per conto della Società di Navigazione Rubattino di Genova. Nel 1890 l'Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana. Cfr. per la storia del periodo, di “quel periodo”, nella sua versione commerciale: E.Q.M. Alamanni, La Colonia Eritrea e i suoi commerci, Torino 1891.

[10] L'Eritrea, rispetto all'Etiopia e alla Somalia Italiana, fu indubbiamente la colonia con la più forte concentrazione di italiani civili. Si pensi che nel censimento del 1939 solo ad Asmara furono censiti 53.000 Italiani su una popolazione totale di 98.000 abitanti. Cfr. T. Negash, Italian colonisation in Eritrea: policies, praxis and Impact, Uppsala 1987.

[11] Così come da trasposizione cinematografica del 1954 di Mario Mattoli, con Totò, Sophia Loren e Carlo Croccolo.

[12] Cfr. quanto riportato presso l’Ufficio Eritreo dell’Economia, nel Registro delle ditte, 1° elenco delle ditte residenti nel territorio dello Hamasien (europei e assimilati), in Bollettino Economico dell’Eritrea, a. III, n. 33-34, marzo-aprile 1931, pp. 1177-1186. Nello stesso registro è presente anche un altro Baratti, Guido, iscritto al n. 104, sempre con ditta e ragione e/o ragione sociale individuale, proprietario del locale cinema “Dante” (Idem). Ad oggi non siamo riusciti a rivelare una possibile parentela fra i due Baratti attivi contemporaneamente ad Asmara. Il nome di Baratti è ancora presente nell’elenco ufficiale del 1939. Cfr. Rilevazione degli esercizi a carattere artigiano. Elenco delle attività artigiane, in Bollettino Economico dell’Eritrea, a. XII, n. 96, 31 ottobre 1939, p. 387.

[13] A. Del Boca, L’Impero, in M. Isnaghi a c. di, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari 1996, pp. 423-424. In realtà Del Boca descrive Baratti come «un furbo tipografo di Asmara», mentre in realtà, come abbiamo già in parte affermato, il fotografo è iscritto come proprietario di uno studio fotografico e, quindi, come succedeva il più delle volte in Europa, attivo in prima persona nella professione di fotografo, alla quale si andava abbinando, quella appunto di rivenditore di prodotti fotografici. Più difficile pensarlo come tipografo anche se le fotografie le stampa sicuramente da solo nel proprio edificio commerciale. Anche questo in realtà rientra nella norma della professione, almeno fino agli anni Sessanta, periodo in cui il fotografo acquisisce una maggiore autonomia gestionale e concettuale della sua professione per divenire a tutti gli effetti artista, con lo studio che si trasforma da luogo anche di vendita ad appunto studio di posa fotografica tout court.

[14] Per una visione di tale argomento di più ampio raggio cfr. N. La Banca, L. Tomassini a c. di, Album africano, Mandria 1997.

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