di Paola Brianti
A 18 Km da Parma, oltre il Taro che un tempo divideva, e forse pur sotto altre forme tuttora divide, gli orgogliosi signori del Po dalla loro città, vive il borgo di Fontanellato, famoso per il suo Santuario, la sua Rocca e le sue fiere. La Rocca, imponente e benevola come una vecchia signora, è circondata da un fossato, che per un raro equilibrio tra acqua e terra ne assicura la sopravvivenza e, quasi a cerchi concentrici, dai portici e dalle case dei residenti del paese.
All’acqua, Fontanellato deve il nome e non a caso un antico tempio a Diana sorgeva nel mezzo di intricati corsi d’acqua, sul terreno dove oggi si alza il santuario dedicato alla Madonna del Rosario, primo monumento a salutare il viaggiatore che si avvia verso il paese.
La rocca Sanvitale, nota anche come castello o rocca di Fontanellato (provincia di Parma)
Fino al 1948, la Rocca fu abitata dai conti Sanvitale che erano subentrati ai Pallavicino dalla fine del ‘300 e l’avevano lentamente trasformata in un centro di potere e di cultura.
Nel 1516, dopo la vittoria di Francesco I a Marignano che riconsegnava Parma ai francesi, il conte Galeazzo Sanvitale sposò la bellissima figlia del marchese di Sabbioneta Ludovico Gonzaga, Paola che trasferiva nella sua nuova residenza di Fontanellato, il clima raffinato che aveva animato la corte della sua Sabbioneta e la residenza paterna di Gazzuolo, frequentata da scrittori e poeti come il Bandello, il Castiglione e lo stesso Ariosto che col Rodomonte del suo Orlando Furioso, aveva contribuito alla fama di Luigi Gonzaga, il fratello di Paola dalla forza leggendaria che dall’eroe del poema aveva preso il soprannome.
Ma accanto al risveglio culturale che coinvolge le maggiori corti europee, le italiane in particolare, sorgono nuove teorie filosofiche e, contemporaneamente, matura un forte spirito religioso che chiede riforme per l’intera cristianità e soprattutto,che rinnovino la Chiesa.
Da pochi anni, Lutero aveva affisso le sue 95 tesi sul portone della chiesa di Ognissanti del castello di Wittenberg che avevano colpito le coscienze di molti e avevano accolto l’approvazione della classe più colta della nobiltà, combattuta tra il dovere di devozione alla Chiesa e la lealtà al principe, spesso in lotta col potere di Roma.
Sanvitale di Fontanellato non furono una eccezione.
Nella Rocca avevano trovato rifugio e sostegno molti studiosi che auspicavano una riforma radicale della Chiesa, come Il famoso filosofo Tiberio Russelliano, autore dell’Apologeticum stampato a Parma nel 1519 a spese di Gerolamo Sanvitale, cugino di Gian Galeazzo, che lo aveva accolto nonostante la condanna per eresia già in atto.1
Ad influenzare quell’ambiente eterogeneo e ardito, era fra gli altri, Giovanni Delfini, autore di un commento sul libro VI dell’Eneide che gli aveva provocato le ire dell’Inquisizione, fatto che stimolava le scelte dei Sanvitale, più volte essi stessi inquisiti.
E non a caso, dei due unici ritratti esistenti di Erasmo da Rotterdam, uno è al Louvre e l’altro, attualmente esposto alla Galleria Nazionale di Parma, proviene dalla collezione Sanvitale.
La sconfitta subita nel 1521 dall’esercito di Francesco I di cui Galeazzo Sanvitale faceva parte ed il conseguente ritorno del potere papale a Parma, contribuirono a rinforzare l’avversità del conte nei confronti della Chiesa e della famiglia de’ Medici in particolare.
Parmigianino, autoritratto, matita su carta
In questo clima di lacerazioni politiche e religiose, il pittore Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, fu incaricato dal signore di Fontanellato di affrescare una stanza della Rocca.
Era da poco tornato da Viadana dove, accompagnato dal cugino Bedoli, si era rifugiato per sfuggire alla guerra, ma adesso Parma cercava di dimenticare la tragedia che l’aveva travolta, riparando le rovine e, soprattutto, abbellendo le sue chiese. Così, mentre Antonio Allegri, già famoso col soprannome di Correggio, rendeva sublime la cupola della basilica del San Giovanni, al giovanissimo Parmigianino veniva affidato il compito di decorare le prime due cappelle della navata sinistra dello stesso tempio benedettino, con la raffigurazione dei santi Stefano e Lorenzo in una, di san Vitale nell’altra. Il giovane martire romano, con elmo e corazza, trattiene per le briglie il suo cavallo bianco che, da un momento all’altro, sembra infrangere la parete del tempio e irrompere sui fedeli in preghiera.
Nonostante la forza vitale che riescono a trasmettere, le opere apparivano secondarie e relegate nell’ombra, tali da non poter distrarre i devoti, dai grandiosi affreschi dell’abside. Opere relegate ai margini del tempio, al punto che ancor oggi restano quasi neglette, accecate dagli affreschi supremi del Correggio, ma forse già troppo rivelatori di un’arte nuova, di un nuovo artista che già emergeva con indomabile prepotenza.
A tutt’oggi, ignoriamo i motivi che indussero il conte Gian Galeazzo Sanvitale, colonnello di Francia, ad affidare un incarico tanto impegnativo come gli affreschi di una misteriosa stanza della Rocca, a quel bel ragazzo che il Correggio, suo malgrado, già avvertiva come rivale. Ma forse sarebbe stato troppo pericoloso affidarli al pennello del maestro, dopo l’opera ispirata alla dottrina pitagorica della camera di San Paolo.2
Il signore di Fontanellato, noto come irriducibile ghibellino come del resto tutti i Mazzola e in perenne lotta contro la fazione guelfa guidata dai Rossi di San Secondo, aveva combattuto contro l’esercito di Carlo V e di Leone X ed era stato infine sconfitto dopo una guerra feroce che aveva portato al potere un papa de’ Medici, indissolubilmente legato ai Rossi per strette parentele e per lucrosi interessi. La sconfitta francese non era riuscita peraltro a scalfire la potenza della fazione ghibellina, gestita dal Cavaliere Auratus Scipione della Rosa, massima autorità in Parma, autentica eminenza grigia, abilissimo nel gestire sconfitte e vittorie, protettore della famiglia Mazzola e, al tempo stesso, del maestro Antonio Allegri da Correggio. In un misterioso duello, aveva ucciso l’amministratore del convento di San Paolo, si era rifugiato presso i signori Da Correggio e dopo breve tempo, era tornato trionfante in Parma, per ricoprire il ruolo dell’amministratore assassinato. Cognato della badessa Giovanna da Piacenza della quale aveva sposato la sorella, rimaneva strettamente legato ai nobili da Correggio dai quali discendeva la madre di Galeazzo Sanvitale. Protettore dei più insigni artisti di Parma che con ogni mezzo se ne disputavano i favori, riusciva sempre ad assicurare gli incarichi più prestigiosi all’Allegri, maestro per eccellenza dell’intera città. La parola del Della Rosa fu determinante per indurre il signore di Fontanellato ad affidare l’incarico di dipingere in Rocca al Parmigianino che già aveva dato prova del suo talento in diverse opere ed in San Giovanni in particolare.
Nel 1522, Francesco Mazzola aveva 19 anni. Aveva perso il padre e forse anche la madre a causa della peste che si era diffusa nel 1505 e all’epoca dei lavori in San Giovanni, era ancora sotto la giurisdizione dei suoi zii. Avrebbe dovuto attendere altri 6 anni per diventare maggiorenne e poter decidere della sua vita e se pure avesse forse preferito restare ancora in Parma, la sua volontà era ben poca cosa di fronte alla decisione degli zii e del loro potente protettore, il cavaliere Scipione della Rosa. Il 21 novembre dello stesso 1522, aveva formalmente accettato l’incarico di dipingere in Duomo, per la somma di 145 ducati d’oro con un contratto firmato dagli zii, nonostante già fosse indicato come “magister Fanciscus de Mazzolis”.
La cifra accordata era considerevole, anche se irrisoria in confronto ai mille ducati d’oro assegnati al Correggio per affrescare la cupola,3 e la Cattedrale avrebbe comunque garantito una fama ancora maggiore di quella conquistata in San Giovanni.
Ma nel Duomo di Parma, il “magister de Mazzolis” non avrebbe lavorato mai e forse, quando gli zii firmatari del contratto, si impegnarono a sostituirlo in caso di una sua inadempienza, lo avevano già previsto.4
Quando accettò l’incarico del Sanvitale, non immaginava quale compito lo attendesse, ma se mai avesse sperato di mostrare il suo talento a Fontanellato dipingendo scene di trionfi e di battaglie, si dovette ricredere subito.
Sebastiano Del Piombo, ritratto di Eugenio Sanvitale
Oggi il visitatore che entra in Rocca per ammirare quella che è comunemente nota come “la Stanza di Atteone e Diana”, viene introdotto in quel luogo appartato immediatamente dal grande cortile d’ingresso, senza avere il tempo di prepararsi a comprendere un’opera unica al mondo e tutta impregnata di segreti messaggi.
Diverso fu il cammino che il pittore dovette percorrere per raggiungere quella stanza misteriosa. Una volta superato il cortile e lasciata alla sua destra la grande scalinata che porta ai piani superiori, fu condotto verso una scala “consimile in parte più lontana, restandone due picciole, e segrete ne’ luoghi molto opportuni. E giacchè per lo significato disordine delle stanze copiose, quasi in un’intricato Laberinto mi perdo, ne ristrignerò la descrizione con una figura aritmetica, calcolandole in tutto al numero d’un centinajo. Fra quelle, nel corpo d’un basso Appartamento, si entra in un gentil Gabinetto in volta, dipinto dal rinomato Francesco Mazzola, detto il Parmgianino, che nell’angustia di quello sito ha fatto campeggiare a maraviglia tutto lo sforzo del suo celebrato Pennello.5
A distanza di quasi duecento anni dalla loro creazione, il Fontana fu il primo a rivelare l’esistenza degli affreschi del Parmigianino in Rocca. Secondo la sua testimonianza, considerando che la camera di Diana e Atteone si trova a pianterreno, a livello del cortile d’ingresso, per raggiungerla era necessario arrivare ai piedi di una scala secondaria e attraversare un numero indefinito di camere disposte in maniera disordinata, tanto da confondere qualsiasi estraneo che si fosse avventurato in quel “labirinto”.
E' probabile che quel groviglio di stanze sia stato costruito dopo l’arrivo del Parmigianino in Rocca, non solo al fine di rendere disponibile un numero maggiore di locali, ma soprattutto di impedire ai non iniziati di raggiungere la stanza di Atteone e Diana.
Quel vano, ancora rozzo e desolatamente nudo, di tre metri e mezzo per quattro, era stato scavato nel muro di cinta costruito un secolo prima a difesa della Rocca e già alla fine del ‘400 non serviva evidentemente più.
Costruito a ridosso dell’acqua del fossato che tuttora circonda la Rocca, senza un camino che potesse mitigare il gelo dell’inverno, era il luogo dove Magister Mazzola avrebbe dovuto passare lunghe ore sui ponteggi a lavorar di pennello, alla luce di torce distribuite nella stanza.
Quando il Parmigianino iniziò i suoi lavori, la stanza era quindi simile ad una grotta scavata nella roccia, praticamente buia. La finestra che adesso si apre la stanza sul grande fossato che circonda la Rocca e gli antichi portici del paese, risale a circa due secoli dopo la creazione degli affreschi e ne ha comportato la distruzione di una parte.
L’artista avrebbe dovuto dipingere in una specie di nuovo mitreo e non certo per sua scelta.
E' noto che al Parmigianino fu riconosciuta, per contratto, libertà di scelta soltanto alla Steccata di Parma nel 1532, dieci anni dopo l’inizio dei lavori in Fontanellato, e fu la causa prima della sua rovina.
A Fontanellato, invece, dovette eseguire con grande accuratezza, le disposizioni del suo committente Sanvitale, come dimostrano i vari disegni preparatori ancor oggi visibili in molti musei sparsi nel mondo.
I lavori richiesero un tempo di circa due anni e, come quando Francesco vi era entrato per la prima volta, la stanza rimase a lungo accessibile soltanto dall’interno del maniero e i pochi che vi erano ammessi, si trovavano immediatamente al cospetto della morte cruenta di Atteone sbranato dai suoi cani. Nella lunetta accanto, che indica l’inizio del racconto illustrato, un vegliardo con la tunica sacerdotale bianca e il berretto frigio in testa come gli iniziati ai misteri mitraici, narra ad un ragazzo atterrito, la tragedia che si svolge in rapida sequenza, sulle altre pareti. Un levriero semi accucciato e con lo sguardo fisso verso lontani orizzonti, ascolta con manifesta tristezza.
E lo stesso cane che, col collare ornato dalla conchiglia simbolo dei cavalieri dell’Ordre de Saint Michel, troveremo nelle scene successive, tenuto al guinzaglio dalla ninfa fuggitiva e lo stesso ancora che azzannerà con morso mortale il cervo Atteone.
Il poema di Ovidio era ben noto a Parma, stampato nella città nel 1477 e, ancora, nel 1480, ma negli affreschi della Rocca appare assai liberamente interpretato, quasi un pretesto per difendere il mistero della stanza, piuttosto che una illustrazione della sventura del cacciatore Atteone.
Il racconto del sacerdote di Mitra inizia nella lunetta direttamente opposta alla sua immagine raffigurata accanto al ragazzo ed al levriero.
E' il prologo della tragedia e la denuncia della ineluttabilità del fato.
Il giorno volge alla sera e alla luce sanguigna del tramonto, un cacciatore tenta disperatamente di trattenere con la forza il compagno Atteone dall’inseguire una bellissima ninfa, tanto sconvolto dalla sua indomabile furia, da ignorare l’ammonimento dell’amico. Quel luogo, infatti, è prossimo ad un bosco inviolabile consacrato a Diana. I due cacciatori hanno i muscoli contratti nella violenza della lotta, i volti alterati e non appariranno più nelle successive sequenze della narrazione.
La scena è drammaticamente reale, come reali appaiono i personaggi che la interpretano.
In un disegno preparatorio del Parmigianino e conservato presso la Pierpoint Morgan Library di Ney York,6 il personaggio che discute animatamente con Diana, è lo stesso che appare nei disegni preparatori del ritratto del Sanvitale custoditi al Louvre.7
Negli affreschi di Fontanellato, Gian Galeazzo impersona il temerario Atteone, in lotta con un bel ragazzo biondo che invano tenta di salvarlo dalla rovina e che tanto rassomiglia al Parmigianino dell’Autoritratto allo specchioconvesso del Kunsthistorisches di Vienna.
In un tramonto presago di sangue, dove il colore rosso predomina sull’azzurro del cielo, i due cacciatori precedono i cani della lunetta precedente, dove un levriero bianco mostra il collare adorno della conchiglia simbolo degli affiliati dell’Ordre de Saint Michel. Il cacciatore biondo, a sua volta, stringe un guinzaglio avvolto intorno al braccio destro e guarda con sgomento il compagno Atteone che con la mano destra stringe un corno, mentre con la sinistra afferra il mantello rosso di una ninfa cacciatrice abbigliata con una succinta tunica bianca che lascia intravvedere il seno e fermata in vita da una preziosa faretra. Al braccio sinistro della ninfa, si attorciglia un lungo guinzaglio dorato che circonda anche l’indice, quasi a formare un anello e che si aggancia al collare del bianco levriero adorno della conchiglia che rivela l’identità del suo padrone.
La ninfa fugge, il corto mantello rosso mosso dal vento, mentre con la mano destra tenta di dissuadere Atteone-Galeazzo dal seguirla, non con sdegno, ma col timore del pericolo che incombe sul marito.
Parmigianino, affreschi di Fontanellato, particolari
Nella lunetta successiva, il cacciatore indossa gli abiti lasciati dalla ninfa fuggitiva e rimasta lì, di conseguenza, nuda. Folle di gelosia, non si accorge che la tunica femminile che ha indossato rivela la mancanza di seno e, quindi, la sua identità di uomo.
Ma mentre la insegue per sottrarla a qualche proibito amore, sorprende Diana nuda che si bagna alla sua sacra fonte. Furente, la dea lancia uno spruzzo sul volto dello sventurato che lentamente si trasforma in cervo. Nella lunetta che segue, la ninfa sfuggita al cacciatore innamorato e già consapevole della sua punizione, trova conforto nell’abbraccio di una compagna.
Alla fine, i cani si lanciano sulla preda e lo stesso che la ninfa teneva al guinzaglio, il levriero bianco con la conchiglia al collare, affonda le zanne nel collo del cervo-padrone.
Nel pennacchio della volta, a sinistra della lunetta con la raffigurazione della morte cruenta di Atteone, è dipinta l’effige dei piccoli figliuoli del Signore della Rocca di Fontanellato.8
Una bambina, con disperato abbraccio, cerca di impedire al fratellino di precipitare in quella scena di morte, ma il piccolo già serra nella mano destra un ramo di ciliegio, tipico simbolo funerario e, quasi a confortare la sorellina, indica la lunetta opposta dove spicca la bellissima madre Paola Gonzaga, la stessa ninfa consacrata a Diana nella tragedia di Atteone e divenuta qui Iside, la dea della resurrezione. Con ineffabile sorriso e curiosa disinvoltura, appoggia il ginocchio sull’orlo di un tavolo, mentre con una mano stringe lo stelo di una spiga e con l’altra regge un cantaro.
Attorno al ritratto dei due fratellini abbracciati, dodici putti trasportano fasci di erbe e frutti, alle spalle di un fitto reticolato ornato da rose bianche, che si apre su un cielo luminoso illuminato dal sole, qui raffigurato con uno specchio con cornice dorata, che aveva anche la funzione di riflettere la luce delle torce, illuminando parte della stanza, mentre i putti fosforescenti brillavano nell’ombra.
Lo specchio, ricordato anche dal Fontana9, richiama i riti celebrati nei mitrei e, al tempo stesso, l’dea del giusto e del santo, premiata dal Signore col riconoscere permanentemente nel suo santo stesso (laddove per “santo” è da intendersi semplicemente , dal punto di vista cabbalistico, colui che osserva i precetti) mediante il premio dello “specchio lucente”,10 nell’ambito di quella cultura ebraico-esoterica del Cinquecento che vide Marsilio Ficino e Pico della Mirandola tra i suoi massimi esponenti. Per certo grandemente apprezzata nelle corti italiane e nella Rocca Sanvitale in modo particolare.
Attorno allo specchio, scorre l’ammonimento Respice finem, col suo triplice significato “Rifletti sulla morte, sul limite”, il limite estremo che agli uomini non è concesso oltrepassare e che invece Atteone, pur inconsapevolmente, ha violato. Ma anche “rifletti sulla finalità, sullo scopo”di tanta sofferenza.
A Fontanellato, la stanza dipinta dal Parmigianino rivela l’adesione alle teorie esoteriche in voga nel Rinascimento, ma al tempo stesso, le nasconde, quasi le sigilla in una atmosfera di morte e resurrezione, di sangue e di catartica bellezza. Ai piedi delle lunette dove si svolge la tragedia, maschere di Medusa in stucco raffigurano la morte e nel registro immediatamente superiore, viene rappresentata la tragedia del cacciatore. Ma nel terzo esplode il trionfo della luce.
Alla base degli affreschi, una scritta scorre lungo le pareti affrescate:
Ad Adianam/Dic dea si miserum sors huc Acteona duxit a te cur canibus/traditur esca suis non nisi mortales aliquo /pro crimine penas ferre licet: talis nec decet ira deas. nisi mortales aliquo/ pro crimine penas (sic) ferre licet: talis nec decet ira/deas
è un grido di sdegno e di ribellione e di sdegno rivolto alla crudeltà della dea che ha provocato la morte di un innocente e, al tempo stesso, la fiera protesta degli uomini costretti a subire l’ingiusta ira degli amministratori della giustizia divina, la Chiesa.
Nell’estate del 1524, subito dopo aver dipinto l’enigmatico ritratto di Galeazzo Sanvitale, il Parmigianino parte per Roma.
A Fontanellato, non sarebbe più tornato e la stanza di Diana e Atteone sarebbe rimasta a lungo ignota e segreta, così come ancora oggi, a distanza di 500 anni dalla sua creazione, resta avvolta in un impenetrabile mistero.
Note:
1. M. Dall’Acqua, Fontanellato, Comune di Fontanellato Edit., 1988.
2. M. Frazzi Correggio, La Camerta Alchemica, Silvana Edt., Milano 2004.
3. Cfr. L.Viola, Parmigianino, Gazzetta di Parma 2007.
4. L.Viola ibd.
5. C.G. Fontana, 1696 Ragguaglio della Rocca di Fontanellato e d’ogni altra circostanza, a cura di Mario Calidoni - Associazione Culturale Jacopo Sanvitale, Parma 2012.
6. A.E. Pophan, Diana and Actaeon - Catalogue of Drawings of Parmigianino, Yale University Press 1971.
7. A. Pophan ibd.
8. Vd Riproduzione anastatica della copia del volume donato dal Conte Luigi Sanvitale alla Regia Biblioteca Parmense - Parma dalla Tipografia di P. Grazioli 1857.
9. C.G. Fontana op. citata.
10. G.P.Della Mirandola, Conclusioni Cabalistiche a Cura di P.E. Formaciari Nimesis Milano-Udine, 1994-2009.
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