SALVATORE PROVINO DISVELA LE TRAGEDIE DEL MARE MEDITERRANEO COME ARCHEOLOGO DELL’INDIFFERENZA E DELLA PAURA

 

IL GRANDE AZZURRO NON HA SEGRETI

 

Cosa c’è di più emozionante che scendere nelle acque del mare alla profondità di qualche metro e guardare il cielo. Dal basso verso l’alto le trasparenze creano magie inverosimili e indicibili bellezze. E’ il mondo delle acque che discolora in mille tonalità di azzurro. Il grande azzurro del mare.

Chi compie un tuffo nelle acque del Mediterraneo si potrebbe imbattere in fondali rocciosi o sabbiosi, magari ricchi di posidonia e di anemoni di mare, dai quali talvolta affiorano reperti delle antiche civiltà greche, fenice, ellenistiche, romane, saracene. Le sorprese sono sempre possibili. I guerrieri di Riace, il fauno danzante di Mozia sono la testimonianza delle ricchezze che il Mediterraneo riserba ancora. «Mare nostrum» per i Romani, e prima ancora «Il mare che si trova accanto a noi» (Par’ hemin thalassa) per Platone nel Fedone,  «Il mare interno» (He eso thalassa) per Aristotele (De Mundo), o «Il mare grande» (Mega thalassa) per Erodoto ed Ecateo,  il Mediterraneo è sede di grandi tragedie. Ci sono relitti di antiche navi e di scafi mercantili e militari moderni, rottami di aerei da combattimento che la salsedine ha corroso, oggetti appartenenti a naviganti scomparsi in  naufragi e dimenticati. Ma ci sono soprattutto i segni offensivi della (in)civiltà contemporanea, immondizia, detriti e materiali di scarico, a cominciare dalla plastica non biodegradabile. L’inquinamento marino è la firma più autentica dello scialo operato dalla odierna civiltà delle risorse naturali.

Scendere tra le onde azzurre, tuttavia, può essere ancora una grande emozione, ma anche un’avventura. Tonni, pescispada, cernie, polpi, spigole giganti è possibile ancora oggi incontrarli  e catturarli con un po’ di fortuna, anche se l’attività predatoria della pesca ha prodotto sovente il vuoto.

Ma da qualche anno tra le acque azzurre del «Mare nostrum» ci si può imbattere sempre più spesso in qualcosa di raccapricciante. Sono resti umani. Sono i corpi o quel che resta dei disperati che per fuggire da guerre, persecuzioni razziali  politiche religiose e miseria si avventurano su precarie imbarcazioni messe a disposizione a carissimo prezzo da banditi senza scrupoli. Dalle spiagge del Nord Africa, principalmente dalla Libia, cercano di raggiungere l’Italia per esplorare la fortuna sulle terre d’Europa. Già, Europa, la vezzosa figlia del re di Tiro, citta della Fenicia, sedotta da Zeus e condotta sulle spiagge di Creta, ha compiuto felicemente il viaggio mitologico. Ma Zeus non poteva sbagliare. Dopo oltre tremila anni, gli scafisti odierni sono criminali assassini, trafficanti di esseri umani. Se il gommone sovraccarico di profughi si rovescia e affonda, nessuno salva quegli esseri umani dalla pelle scura che scivolano nell’acqua e vengono inghiottiti dai gorghi, prima che sopraggiungano le navi militari a soccorrere i superstiti.

I corpi s’inabissano, si decompongono, affiorano dopo qualche tempo, galleggiano. Sono lì a gridare lo strazio dell’umanità impotente e dolente. Ed ecco che l’occhio del navigante che s’imbatte nei tratti di mare dove si sono verificati spaventosi naufragi osserva lo spettacolo orrendo e inorridisce.

Un navigante solitario è Salvatore Provino. Un navigante che viene da Bagheria, la città vicino all’acqua degli Arabi, abituato all’azzurro del Mediterraneo ed alle sue trasparenze, alla vita che contiene, alle meraviglie dei suoi fondali. Non è un marinaio, né un pescatore, neanche un ricercatore marino. La sua professione è dipingere. Un esercizio di creatività artistica che si trasmuta in coscienza e morale. Salvatore Provino non ha motoscafi o velieri per solcare le acque di quell’ «Al bahr al rum» (Grande abbondanza di acqua), come gli Arabi chiamavano il Mediterraneo, ma la sua mente si trasforma in sonar ed ecoscandaglio per perlustrare la coscienza dell’umanità lontana dalla tragedia, protetta nei propri rifugi urbani e metropolitani, sicura che l’onda delle vacanze non sarà arrossata da sangue innocente. Basta quello versato dai terroristi islamisti nelle città europee, per limitarci al Vecchio Continente. Ma l’artista sente e sa che quei morti annegati non sono storie lontane; anzi, ci appartengono perché sono la conseguenza del nostro agire politico del Novecento e di questi primi anni del Terzo Millennio. S’inarca l’anelito umanitario dell’artista, consapevole che bisogna essere prima di tutto persona, «homo sapiens» e alla pena si sostituiscono l’intelligenza e il pensiero.

Per questo Salvatore Provino è lì, immerso in quelle acque, osserva quei corpi galleggiare, quei frammenti umani ondeggiare, quei brandelli muoversi per inerzia. Non prova orrore, semmai angoscia. Non c’è nessuna ostentazione nel suo volere scrutare, osservare a fondo, cogliere particolari. E quando si allontana dalla scena ideale, tutta metafisica, si sente spossato da una parte e carico di energia creativa dall’altra. Non può restare inerte di fronte a tanto affronto della coscienza civile. Quale protesta? Quella dell’artista.

Nasce così un dipinto capace di contenere l’immane tragedia che si ripete nel tempo, giorno dopo giorno, per settimane, mesi, anni. Un dipinto che è quasi un testamento del nostro tempo. Grande circa cinque metri di lunghezza per due di altezza.

Un lavoro impietoso di rielaborazione della propria coscienza che si fa opera d’arte. Nasce così IL GRANDE AZZURRO. Bisogna guardare sulla tela con grande concentrazione per leggere l’intera scena e distinguere i particolari: un piede, una mano, un corpo che emergono nell’azzurro. Provino vuole con dolorosa testardaggine gridare la propria presenza sulla scena della tragedia, urlare la propria protesta per quelle vite spezzate, il dolore per la morte anonima, l’impotenza per la violenza subita dall’universo.

Quello spettacolo è cronaca del nostro tempo che si fa storia, nonostante si voglia dimenticarla. L’artista non giudica. Questa è la realtà del grande mare azzurro celebrato da Omero, Ovidio, Dante, Foscolo, Byron, Hölderlin, Kavafis. Tucidide lo definì «Mare ellenico» nella Guerra del Peloponneso, finché Isidoro di Siviglia, nel VII secolo d.C., lo ha denominato definitivamente Mediterraneo: «Questo è il Mediterraneo perché bagna le terre circostanti fino ad Oriente, dividendo Europa, Africa e Asia».  Il Grande Azzurro macchiato dalla crudeltà dell’uomo contemporaneo.

In effetti, questo grande dipinto di Salvatore Provino è un atto di accusa contro l’indifferenza del nostro tempo. L’uomo europeo costretto a difendersi dalla follia omicida del Califfato e dagli uomini conquistati a diverso titolo da Mukhtar Al Baghdadi che cede alla paura e lascia la morte avanzare sui campi sterminati delle quotidianità, ha già perso la sua battaglia. L’artista Provino s’identifica con l’uomo Provino che non si abbandona alla paura, ma grida il proprio sdegno e nello stesso tempo la propria impotenza. Se questa è la nuova guerra, presenta i connotati di una mostruosità psicologica che i Cavalieri dell’Apocalisse di Albrecht Dürer o i corpi di Le Radeau de la Méduse (Zattera della Medusa) di Théodore Géricault impallidiscono al confronto.

Riflettere ed agire, sembra incitare il grande dipinto di Salvatore Provino. Per difendere la vita umana e la civiltà che l’uomo ha edificato. E che rapidamente sta dilapidando e distruggendo. Compreso lo splendide acque del Grande Azzurro.

 

Agostino Bagnato

Roma, 27 luglio 2016

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