di Agostino Bagnato
INTRODUZIONE
Fino al 1991 la produzione cinematografica dell’Armenia era considerata parte integrante della cinematografia sovietica. All’interno del panorama russo-sovietico, la produzione di quella Repubblica ha un suo peso specifico rilevante. In effetti, in cinema sovietico non è rappresentato soltanto da Sergej Ejzenštejn (1898-1948), Vsevolod Pudovkin (1893-1953), Nikolaj Ekk (1902-1976), Aleksandr Dovženko (1894-1956). Una nuova schiera di giovani e meno giovani autori si fa avanti nel secondo dopoguerra e riesce ad esprimersi nel clima della ritrovata relativa libertà nel periodo del disgelo, subito dopo la morte di Stalin. Tra questi, il più noto è Michail Kalatozov (1903-1973), di origini georgiane, autore di celebre Kogda letjat žuravli (Quando volano le cicogne) del 1957, certamente enfatico e retorico, ma ricco di spunti sinceri, grazie ad un cast notevole con Aleksej Batalov e Valentin Zubkov, in cui si è rivelata la giovanissima Tat’jana Samojlova. Segue Grigorij Čukraj con Sorok pervyj (Il quarantunesimo) del 1957, con Izolda Izvitskaja e Oleg Striženov, drammatica e commovente storia d’amore al tempo della guerra civile. Ed ecco irrompere sulla scena mondiale Andreja Tarkovskij (1932-1957) che con Ivanovo detstvo (L’infanzia d’Ivan) del 1962, interpretato da Nikolaj Burljaev, Aleksej Batalov e Nikolaj Grinko, vincitore del Leone d’Oro a Venezia, s’impone per la potente capacità narrativa e l’originalità del linguaggio; seguono capolavori come Andrej Rublëv (1966), Soljaris (1971), Zerkalo (Lo specchio) in cui la musica di Arvo Pärt crea un clima di straordinaria visionarietà e poesia per gli occhi del bambino protagonista, fino a Nostalgija (1983), girato in Italia, non completamente riuscito a causa di costanti richiami ad una ossessiva mistica moraleggiante. A questi si possono aggiungere cineasti come Grigorij Kozincev (1905-1973) il cui capolavoro Novaja Babilonija (Nuova Babilonia) del 1929 si avvale della rivoluzionaria colonna sonora di Dmitrij Šostakovič; segue la trilogia sull’operaio Maksim negli anni Trenta e infine Korol’ Lear (Re Lear) del 1971 che gli diede fama internazionale; oppure Sergej Bondarčuk (1920-1994) che si fece notare con kolossal come Desjat’ dnej perevërtyvajušie mir (I dieci giorni che sconvolsero il mondo) nel 1982, Tichij Don (Il placido Don), Boris Godunov nel 1982, mentre Vojna i Mir (Guerra e Pace) nel 1967 rivelò la giovanissima Natal’ja Saveleva. Inoltre, vanno ricordati i fratelli Nikita Michalkov, nato nel 1945, che ha realizzato molte opere in cui il realismo è coniugato alla utilizzazione della tecnologia con risultati spesso enfatici, mentre Andrej Michalkov-Končalovskij, nato nel 1937, da molti anni residente negli Stati Uniti, porta avanti una ricerca dagli esiti non sempre garantiti. Ben altro discorso deve essere fatto per Aleksandr Sokurov, nato nel 1951, per la complessità del suo racconto in cui prevale l’elemento fantastico e Gleb Panfilov, nato nel 1934, nelle cui opere il lirismo appare spesso prevalente.
SERGEJ PARADŽANOV
Ma non c’è soltanto il cinema sotto l’egida di Mosfilm e Lenfilm a primeggiare. Riescono a presentare produzioni cinematografiche anche le altre Repubbliche appartenenti all’URSS. Tra queste il caso probabilmente più clamoroso è quello dell’Armenia. Il cineasta Sergej Iosifovič Paradžanov è sicuramente il caso più significativo. Come tale è conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Nato il 9 gennaio 1924 all’interno di una famiglia armena, si spense il 20 luglio 1990. La sua filmografia è molto vasta e merita un accenno, anche se il suo capolavoro assoluto resta Cvety granaty, “I fiori del melograno”, noto anche come “I colori del melograno” oppure Sayat Nova, nome del poeta nazionale armeno del XVIII secolo alla cui esistenza umana e letteraria è dedicato. Per raccontare la vita e l’opera di questo grande autore, di fronte alle difficoltà che offre la lingua armena, si è preferito adottare la trascrizione cirillica dei nomi, ricorrendo alla traslitterazione scientifica più in uso a livello internazionale. Del resto, la produzione cinematografica del maestro all’estero è conosciuta prevalentemente in russo. Le edizioni in lingua armena sono difficilmente reperibili nei circuiti occidentali. Di questo limite l’autore del presente testo si scusa con i lettori.
Sergej Iosifovič Paradžanov è nato a Tbilisi il 9 gennaio 1924 ed è morto a Erevan il 20 luglio 1990. La famiglia era originaria dell’Armenia. Una recente ricerca condotta da Zaven Sargsyan, direttore del Museo Paradžanov di Erevan attesta inequivocabilmente che il nome originale della famiglia è armeno.
Nel corso della seconda guerra mondiale, nonostante le difficoltà dell’occupazione nazista e le restrizioni imposte, frequenta a Mosca i corsi di regia dell'Istituto Statale di Cinematografia. Le origini caucasiche lo distinguono, rivelando nel giovanissimo studente molto talento e fervida fantasia. Nel 1951, terminati i corsi, si trasferisce in Ucraina e inizia a lavorare agli studi cinematografici di Kiev, dove realizza documentari, cortometraggi e lungometraggi di propaganda, nel clima della difficile ricostruzione socio-economica e della riaffermazione del potere comunista su quella difficile terra di confine che gli zar chiavano Malaja Rossija (Piccola Russia). Paradžanov ripudierà successivamente questi lavori, definendoli "spazzatura" per il loro carattere ovviamente propagandistico.
L’attività cinematografica vera e propria inizia negli anni Cinquanta. Moldavskaja skazka (Racconto moldavo) del 1951 è la prima opera di un certo impegno, cui seguono Zolotye ruki (Le mani d’oro) e Natal’ja Ušvij, entrambi del 1957 in cui si presentano i primi segni della straordinaria capacità narrativa dell’autore.
Nel 1958 Paradžanov affronta con occhio divertito, quasi da commedia all’italiana, la realtà di una cittadina di provincia: è la storia di due ragazzi che vivono la quotidianità nel clima di rinnovamento della prima destalinizzazione e che lo scrittore Il’ja Erenburg chiama Ottepel’ (Il disgelo), titolo di un suo famoso romanzo. Si intitola Pervyj paren' (Il primo ragazzo), e narra la storia di Danila, ex militare, smobilitato, che torna al paesello natio e, accortosi che la gioventù non ha un posto per trascorrere il tempo e ciondola in giro senza costrutto, decide di costruire uno stadio. I giovani sono in fermento, avendo trovato il modo per impegnare il tempo libero, ma il più eccitato è Efim che tutti chiamano Juška, uno teppistello, guligančik alla russa, che ha finito per indispettire i compagni con i suoi scherzi grevi e crudeli. Per conquistare l'amore di Odarka, la ragazza del suo cuore, Juška decide di mettere la testa a posto e di dedicarsi allo sport per diventare il primo ragazzo del paese, il primo calciatore, quello più in gamba. Il racconto è condotto con notevole capacità ritrattistica, riuscendo a presentare un ambiente tipico dell’epoca nella provincia sovietica. Gli sceneggiatori V Bezorudko e P. Lubenskij sono molto abili nel tessere i dialoghi concitati tra i ragazzi, interpretati da Tamara Alekseeva, Andrej Andrienko-Zemskov, Varvara Cajka, Grigorij Karpov. La colonna sonora è firmata da Evgenij Zubcov.
Ukrainskaja rapsodija (Rapsodia ucraina) risale al 1961 e segna un ulteriore passo in avanti. La sceneggiatura è di Aleksandr Levada, gli interpreti sono Ol’ga Reus-Petrenko, Edvard Košman, Evgenija Mirosničenko. La trattazione di storie riferite all’Ucraina fanno attribuire al regista in Occidente origini ucraine, alimentate anche dal successivo film dell’anno successivo, dal titolo Cvetok na kamne (Il fiore sulla pietra). La storia è ambientata nel bacino minerario del Donbass e tratta della vita sociale e del lavoro di una comunità di minatori legati alla setta religiosa dei Pentecostali. Per la prima volta si affronta sugli schermi sovietici il tema della libertà religiosa, legata certamente al cristianesimo ortodosso ma lontana dalla gerarchia religiosa ufficiale, incentrata sulla figura del Patriarca di Mosca e di tutte le Russie e su quella dell’archimandrita della chiesa ucraina. Gli interpreti principali sono Ljudmila Čerepanova (Ljuda) e Grigorij Karpov (Grigorij).
L’anno decisivo è però il 1964, allorquando, in occasione del centenario dello scrittore ucraino Michail Kočubinskij (1864-1913), Paradžanov realizza per lo schermo il film Le ombre degli avi dimenticati, tratto proprio da un racconto dello scrittore. Kočubinskij è molto importante nella narrativa ucraina, soprattutto per i racconti I cavalli sono colpevoli del 1900 e per Fata Morgana del 1909. Il regista attinge alla cultura e alla tradizione del popolo ucraina e realizza un'opera fuori dal comune nella cinematografia sovietica del tempo, sia per l’ambientazione tra i monti Carpazi riguardante la piccola comunità Gutzul, sia per la tecnica narrativa impiegata. Il carattere etnografico di molta cinematografia sovietica dell’epoca, già trattato magistralmente da Aleksandr Dovženko, è affrontato dal regista di origini armene in modo del tutto nuovo, utilizzando fotografia e colore in maniera surreale, fornendo al film un senso di vertigine, sospeso tra sogno e realtà. Il filo narrativo del film viene infatti continuamente stravolto da sorprendenti soluzioni visive che collocano l'opera entro un formalismo espressivo che rimanda alle avanguardie sovietiche, in maniera particolare al costruttivismo. La critica ha stroncato il film al suo apparire e la casa statale di produzione ne decide, di conseguenza, il ritiro dalle sale. Ma Paradžanov non si arrende e il film viene inviato all’estero, prendendo parte ad alcuni festival cinematografici dove ottiene apprezzamenti, riconoscimenti e premi, a cominciare dal primo premio al festival di Mar del Plata. Ma il regista non può ritirarli perché le autorità sovietiche non gli concedono il visto per uscire dal Paese. Inizia così un difficile percorso creativo che, nonostante tutto, riesce a consacrare autentici capolavori alla cinematografia sovietica.
SAYAT NOVA
Il caso più eclatante è Cvety granaty, “I fiori del melograno”, tradotto anche “I colori del melograno”. E’ l’anno 1968 e Sergej Paradžanov, avendo ormai raggiunto i più alti livelli espressivi, tanto che la critica internazionale lo accomuna ad Andrej Tarkovskij, decide di mettere in scena la vita del più grande poeta armeno di sempre, Sayat Nova. In effetti, il film è noto più che altro proprio con questo titolo. Sayat Nova è riuscito a conquistare l’attenzione e l’apprezzamento degli amanti del cinema di tutto il mondo ed ha donato al suo autore sicura fama. Di cosi si tratta? Ricostruire e raccontare la biografia di un grande poeta non è sempre agevole; se poi si tratta di un vero e proprio aedo, canore dell’anima e della storia di un intero popolo, è ancora più difficile. Il regista armeno ha voluto affrontare la storia del poeta nazionale della sua gente, noto a tutti, indistintamente, come lo può essere Dante Alighieri per gli Italiani. Si tratta di Sajat Nova, pseudonimo di Harutyun Sayatyan.
È considerato il più grande poeta armeno del Settecento. E’ nato a Tbilisi, a quel tempo Tflis, il 14 giugno 1712 ed è morto a Haghpat (Armenia) il 22 novembre 1795. Non è facile reperire notizie sulla sua vita per chi non conosca l’armeno, ma in Italia le sue poesie sono state pubblicate nel 1964 a cura di P. Masrobio Gianascian, dalla casa editrice Mechitar di Venezia. La sua lirica amorosa è intensa, talora venata di malinconia talora colma di gioia. Sayat-Nova usa un linguaggio raffinato, denso di metafore e similitudini: in un periodo di oppressione culturale, i suoi canti rappresentarono una testimonianza straordinariamente vitale di amore per la vita e per la natura. A Sayat-Nova vengono attribuite circa 220 poesie benché si ritiene possa averne composto anche migliaia. La gran parte di esse sono scritte in lingua azera mentre diverse sono quelle scritte in armeno, persiano, georgiano. La sua lirica amorosa è intensa, talora venata di malinconia, in altre occasioni cola di gioia. Il poeta usa un linguaggio molto raffinato, denso di metafore e di similitudini, ricco di rimandi al passato e al sentimento nazionale. In un periodo di oppressione culturale, i suoi canti rappresentarono una testimonianza straordinariamente vitale di amore per la vita e per la natura.
Il regista racconta la storia del trovatore vissuto nel XVII secolo durante il Rinascimento armeno, mettendo in evidenza il carattere intimamente armeno. Sayat Nova trascorre gran parte della sua esistenza a Tflis, come trovatore di corte, accolto benevolmente per la sua capacità di poeta e di musico. Il giovane si innamora della regina della Georgia; consapevole dei rischi che corre nella società chiusa del tempo, decide di rinunciare all’amata e di intraprendere la via della meditazione e della spiritualità, recludendosi in un convento, dove approfondisce gli studi e le conoscenze del mondo.
Il film non ha una trama vera e propria: procede per allusioni, simboli e assonanze visive, attingendo spesso al folclore e alla storia armene. Fortemente suggestivo, con immagini indimenticabili, il film ebbe gravi problemi con la censura sovietica. Il film venne immediatamente ritirato dalle autorità per «estrema deviazione dal realismo russo». In effetti, di tutto si può parlare tranne che di realismo: un melograno che tinge di rosso sangue un panno, così come un piede della stessa forma di un grappolo d’uva schiaccia il grappolo stesso tingendosi di porpora; un pesce fuor d’acqua ripreso nella sua agonia; un bambino sdraiato tra mille libri le cui pagine sono agitate dal vento; un attore che mima imperturbabile mostrandoci carbone nero gettato al vento; una rosa bianca, una candela accesa, poi due rose bianche, e il libro sullo sfondo con le pagine agitate dal vento. La musica dell'inizio è una produzione armena, un canto popolare introdotto dal lamento di oboe e clarinetto e altri strumenti a fiato in agonia, che sembrerebbero tromba con sordina, corno, e sax.
Sergej Paradžanov ha fatto ricorso alla lunga esperienza di cineasta sperimentale per affrontare la difficile tematica legata alla vita e all’opera del poeta. Ma in questa occasione elabora uno stile che poi sarà lo stesso che caratterizzerà le opere future. Si può parlare di un modo nuovo di fare cinema? Probabilmente sì, anche se non è presente un diffuso dibattito su questo tema, a causa dei limiti nella diffusione dei film del maestro armeno. Le immagini statiche tese alla suggestione e all'evocazione emotiva dello spettatore, realizzate attraverso l'utilizzo di allegorie, fantasie surrealiste: ambientazioni oniriche e favolistiche, accompagnate da musiche tipiche del folclore armeno, a cominciare dal duduk; ricorso a dialoghi lenti e poetici che affondano nella poetica dell’ashug, ovvero del trovatore innamorato: assistendo all'evoluzione del protagonista si viene come trascinati dall'atmosfera pittoresca circostante per tutta la durata del film. Attraverso questa procedura narrativa, il regista realizza quindi quello che è considerato da molti suoi colleghi, tra i quali il suo grande amico Andrej Tarkovskij, oltre che dalla critica internazionale, il suo capolavoro. Un film che con incanto e magnetismo ha rivoluzionato del tutto il mondo del cinema. Infatti, se Sayat Nova da un lato può sembrare eccessivamente criptico ed emblematico, non gli si può negare l'assoluta innovazione dal punto di vista artistico. Da notare l'utilizzo perfettamente studiato dell'elemento cromatico all'interno della pellicola che richiama i colori della tradizione locale per i significati simbolici che hanno assunto nel tempo: il rosso del succo delle melagrane che imbibisce un telo, il sangue che sgorga dei montoni sacrificati, il succo dell'uva pigiata, le tinture dei tessuti, il diffondersi dei fluidi spremuti e aspersi. Si tratta di metafore di una potenza evocativa notevole che danno quel senso di straniamento e di spaesamento, conferendo al racconto uno spazio atemporale e quindi universalistico. Di conseguenza, Sayat Nova può degnamente considerarsi un capolavoro sotto molti punti di vista: simbolico, poetico, innovativo ed artistico.
Gli interpreti principali sono: Georgij Gegečkori, Melkon Aleksayan, Sofiko Čaureli, Vilen Galstyan, tutti superlativi nel rispondere alle esigenze recitative richieste dal regista; la fotografia di Suren Shakhbazyan rende l’atmosfera onirica del raccont; la musica di Tigran Mansurian esalta l’atmosfera senza tempo a cui tende la vicenda riguardante il trovatore Sayat Nova.
Il suo ultimo film è Ashik Kerib. Storia di un Ashug innamorato. Risale al 1988 e s’inquadra nel filone del racconto cinematografico fiabesco. Il protagonista è interpretato da Jurij Mgoyan che riesce a rendere espressivo il senso lirico della vicenda; altri interpreti sono Sofiko Ciaureli, Ramaz Chkhikvadze, Konstantin Adamov, Veronike Matonidze. La storia è molto semplice: il govane ashug, il poeta cantore della tradizione armena, s’innamora di una bella ragazza figlia di un ricco mercante e, nella speranza di poterla sposare, s’avventura nella ricerca della fortuna compiendo un viaggio della durata di mille e un giorno. La ragazza promette di non sposare nessun altro prima del suo ritorno, nonostante la famiglia abbia per lei ben altri progetti che darla in sposa ad un cantore girovago. Il film utilizza un linguaggio lirico che oscilla tra il tardo futurismo e il surrealismo con esiti molto interessanti, in particolare quando la cinepresa è usata in lunghi primi piani per poi allargare l’inquadratura per ostruire una gigantesca scenografia. I costumi rispondono a esigenze etnografiche, ma sono progettati per accrescere sempre di più l’atmosfera magica e fiabesca, sicché la storia è come collocata fuori dal tempo e della spazio. Anche le musiche rispondono a questa logica di straniamento della realtà contestuale.
Le ultime opere di Sergej Paradžanov risentono della pesante censura e delle difficoltà a lavorare in relativa lbertà. Tra l’altra, il regista viene anche incarcerato sotto la pesante accusa di omosessualità, che sotto il regime sovietico era considerata una grave perversione sessuale. Tuttavia, nel 1971 avviò la realizzazione di Affreschi di Kiev rimasto purtroppo incompiuto e nel 1985 Arabeskebi Pirosmanis temaze, film dedicato alla vita del grande pittore georgiano Niko Pirosmani (1862-1918). Dell’ultimo film Asik Kerib si è già detto.
CONCLUSIONE
Nel 1989 ho conosciuto a Kiev, visitando una mostra d’arte, alcuni familiari di Sergej Paradžanov. Io non sapevo nulla di questo grande maestro del cinema mondiale. Rimasi affascinato dal loro racconto e mi proposi di fare visita ad alcuni parenti che si trovavano in Francia. Così, poche settimane prima delle celebrazioni del 2° centenario della Rivoluzione francese, mi recai a Parigi per incontrare in un modesto appartamento nei pressi di Place de la Bastille alcuni familiari che mi mostrarono disegni e appunti del maestro, oltre a fotografie di scena dei principali film. Alle pareti della casa erano appesi dipinti di piccole dimensioni: alcuni erano disegni del regista, altri erano opere di Niko Pirosmani e di Martiros Sarjan. Sergej Paradžanov era residente a Erevan e non poteva lasciare l’Unione Sovietica. Soffriva molto per questa grave restrizione. In particolare una signora mi pregò, nel caso fossi ritornato a Kiev, di andare a trovare i loro parenti e se mi avessi avuto l’occasione di recarmi a Erevan di andare a conoscere e salutare il maestro. Purtroppo, questa occasione non c’è stata. Ma il nome di Sergej Paradžanov non l’ho più dimenticato. Ho cercato di documentarmi sui suoi film, accorgendomi dell’impossibilità di reperirli sul mercato fino a qualche anno fa. Ancora oggi non è facile trovare i suoi capolavori.
Per questo qualsiasi iniziativa che consenta di parlare di Sergej Paradžanov e di godere della sua filmografia, è utile e soprattutto benvenuta.
Roma, 7 novembre 2016