Il convegno odierno rappresenta lo spirito con cui vogliamo affrontare i problemi del futuro di Civita. Non c’è mai piaciuto parlare di Città che muore. I numeri ci stanno dando ragione. Negli ultimi cinque anni la popolazione locale è aumentata considerevolmente, i turisti sono cresciuti di ben quindici volte: si tratta del maggior numero percentuale a livello europeo. Civita, da sola, raccoglie più visitatori degli altri cinque siti della provincia di Viterbo, come Palazzo Farnese a Caprarola; Tombe etrusche a Tarquinia; Palazzo papale a Viterbo; Villa Lante a Bagnaia; Parco dei Mostri a Bomarzo. Vorrei anche ricordare che le presenze stanno diventando terribilmente alte e che potrebbero determinare delle criticità che stiamo cercando di prevenire e di affrontare correttamente. Ma è pur vero che avendo saputo affrontare questa crescita nella giusta maniera, sta consentendo di raggiungere oggi degli obiettivi importanti nella gestione del nostro territorio.
Francesco Bigiotti
Conosciamo tutti la straordinaria bellezza di Civita e del suo territorio, un luogo che racconta una storia millenaria, cominciata oltre 2000 anni fa sotto il segno della civilizzazione etrusca, documentata da testimonianze archeologiche che insistono in particolare nella zona di San Francesco: la rupe sottostante dove è stata trovata una necropoli etrusca; la grotta di san Bonaventura dove si dice che san Francesco incontrò il piccolo Giovanni che poi divenne san Bonaventura, ma che in realtà era una tomba etrusca, del tipo “a camera”; inoltre, il lungo tunnel che collega la rupe stessa con la straordinaria Valle dei Calanchi. Civita non è soltanto etrusca, perché ha una storia romana raccontata dalle fonti e dai reperti archeologici, longobarda e poi normanna, e che si conclude con il periodo pontificio. Fin dai primi secoli avanti Cristo, il borgo presentava gli aspetti di fragilità geologica che ben conosciamo. La mia presenza odierna a questo incontro è proprio per testimoniare l’attenzione e l’interesse affinché si possa dare avvio, qualora esistano le condizioni ed i requisiti richiesti, alle procedure per ottenere il riconoscimento da parte dell’Unesco di Civita quale patrimonio dell’umanità.
Daniela Porro
«Ed è rimasta un attimo così, lieta e pensosa, contro quello sfondo balenante di scrimi bianchi e di abissi paurosi, come se la bellezza di un viso di donna che scende nel cuore di un uomo sia veramente una delle cose più dure a morire in questa breve, fuggevole vita». «In questi giorni che l’inverno declina e su per gli scrimi della mia valle il disgelo comincia a rallentare la fitta rete dei nòccioli di creta raggrumati dal ghiaccio, sí che, passando, li senti scricchiolare sotto i piedi, sono andato a vedere lo “smacchio” di un bosco. Il bosco è nel fondo della valle e le sue pendici più basse toccano il punto dove quest’anno un’alluvione rabbiosa ha sradicato querce e cerri, abbattuto pioppi e albanelle, lasciando i cespugli inzaccherati di creta, curvi e stravolti, come se guardassero ancora con spavento verso la parte dove il turbine è passato». «Siamo stati a Borgovecchio (Civita di Bagnoregio n.d.r.), in un pomeriggio fra nuvole e vento. Prima di muoverci, abbiamo voluto vederlo da una delle finestre della casa rustica. Borgovecchio stava in una gloria di sole: a fondo valle, il riflesso di una nuvola nera si muoveva fra gli olivi, direi quasi che camminava come se fosse una persona viva, certo ascendeva col suo orlo d’ombra, investiva i cavoni e il ponte. Proprio sopra il riflesso di quella nuvola nera, contro il bianco dei burroni, il tufo delle case splendeva più alto e più lontano. Io sapevo che in queste ore di nuvole e sole sta il momento propizio per visitare Borgovecchio». «Quel senso di luce vibrante, di chiarità solare benché in pericolo, sospesa tra lembi di vento e arrivi improvvisi di ombre, ci ha seguito durante tutta la salita: di gradone in gradone, su per il giro degli sterrati che, dopo il ponte, conducono alla porta di Borgovecchio […] Tutto era eccezionale, eppure vero. La porta d’ingresso ci stava davanti: bellissima e guerriera, col becco ritorto, in cima, di un’aquila di pietra, le ali distese, due occhi grifagni che guardano in giù […] Il senso della fiaba non finiva col tunnel e con l’ombra. Usciti fuori in una nuova chiarità solare, incredibile e quasi accecante, siamo stati investiti, proprio in mezzo ai ruderi e alle rovine, da un assalto di fiori, splendenti sull’orlo del tufo».
Bonaventura Tecchi