Il populismo ha snaturato e sfigurato la democrazia rappresentativa che la cultura liberale ha costruito in trecento anni e che ha dato risultati importanti nella storia del Pianeta. Il sovranismo aggiunge altre ferite. Come venirne fuori, se non cresce la consapevolezza dei popoli e delle nazioni sulla necessità di rinnovare e rafforzare il legame tra cittadini e potere. Un saggio utile per discutere e individuare alcune risposte.
di Ettore Ianì
Nadia Urbinati, politiloga
Il populismo è un fenomeno non certamente nuovo, dilaga ormai nel lessico politico e in quello dei media dal XIX secolo. Nuova è sicuramente l’intensità e la pervasività delle sue articolazioni. La paternità viene attribuita al movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia la cui azione è culminata nel 1881 con l’uccisione dello zar Alessandro II. Il movimento propugnava l’emancipazione dalle condizioni di vita della classe meno abbiente come i contadini e i servi della gleba attraverso la realizzazione di un sedicente socialismo rurale, in contrapposizione alla società industriale. In genere la parola “populismo” è utilizzata per descrivere atteggiamenti ideologici che esaltano in forma demagogica il popolo, detentore dei valori positivi delle classi popolari. Oltre al peronismo del mondo latino-americano, ideato, incarnato e diretto da Juan Domingo Peron, ispirato ai modelli fascisti e reazionari e identificato col nome di “giustizialialismo”, possiamo inquadrare in questa categoria una moltitudine di esperienze. Il movimento peronista, nato nel corso della Seconda guerra mondiale è ancora oggi vivo e vegeto, tanto da riportare in Argentina, alla fine del 2019, alla presidenza Alberto Fernandez: un peronista al quadrato. Dopo il primo fuoco d’interesse, torna a riconquistare il centro dell’attenzione di studio solo negli anni Novanta, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, ma anche dopo la trasformazione dei partiti da strumenti di partecipazione a strumenti di potere di una ristretta élite. Solo per fare qualche esempio recente ricordiamo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i leader latino-americani come il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, Nicolas Maduro in Venezuela o Evo Morales in Bolivia. Non mancano certo gli esempi europei come Marina Le Pen in Francia, Viktor in Ungheria, Geert Wilders in Olanda. In Italia tra le diverse figure non possiamo che annoverare Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Matteo Salvini, ma anche Beppe Grillo e Matteo Renzi. Un così ampio uso del termine tradisce e ostenta la indeterminatezza e vaghezza di un fenomeno vistosamente in crescita e può essere, come sostiene il filosofo argentino Ernesto Laclau, né La Ragione populista, Laterza, Bari 2008, una “logica politica” e come tale può essere urbano o rurale, di sinistra o di destra, conservatore o rivoluzionario. Pur tuttavia per quanto impreciso il populismo non è una parola vuota, è semmai un termine abusato di natura camaleontica e intrinsecamente ambigua, per dirla con il politologo dell’università di Firenze Mattia Zulianello.
Ma cosa è il populismo se lo (ri)chiede Nadia Urbinati con il robusto e corposo saggio, ricco di riferimenti e di dotte citazioni, Io, Il Popolo, con il sottotitolo Come il populismo trasforma la democrazia, Il Mulino 2020. Lo fa precisando che il “libro è il risultato di idee e letture elaborate e accumulate nel corso di più di un ventennio” (Pag. 7).
Nadia Urbinati davanti la Columbia University, USA
In primo caso di interesse di studio per il populismo lo fa risalire nel 1967, l’anno in cui alla London School of Economic, sotto la direzione del politologo liberale e diplomatico britannico Isaiah Berlin, coadiuvato dallo storico della Columbia University e vincitore per due volte del Premio Pulitzer Richard Hofstadter, pubblicano alcuni saggi sul tema del populismo. E’ anche vero che la parola populismo in Italia si diffonde anche grazie al successo del libro di Alberto Asor Rosa Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura contemporanea, Einaudi 1965. Nell’epilogo del libro della Urbinati, docente di Teoria politica nel Department of Political Science, Columbia University di Neuw York, puntualizza che il populismo lo “analizza dal punto di vista della teoria politica, sostenendo che esso si sviluppa all’interno della democrazia rappresentativa e la trasforma, senza rovesciarla” (Pag. 301). Quindi, più che alla storia del populismo si sofferma ad analizzare il fenomeno della sua rinascita nella democrazia costituzionale come reazione alle dittature monopartitiche di massa. Come nasce, come si sviluppa e soprattutto come cambia il suo volto una volta andato al governo? Diventa un avversario politico del liberalismo o l’anticamera di un inedito tipo di fascismo? E ancora. E’ per la democrazia è un valore aggiunto o una minaccia? Nel coacervo di interpretazioni e disparità di letture e interpretazioni L’Autrice con queste e altre domante fornisce una risposta equilibrata ed originale. Fino a qualche decennio fa l’analisi sul fenomeno del populismo è stata condizionata, secondo la politologa, dal fatto che si è indagato secondo due specifici paradigmi: o come una sorta di fascismo o come un fenomeno circoscritto alle periferie del mondo occidentale, e, in particolare, agli stati dell’America Latina, considerati la culla del populismo. Una semplificazione che ha generato distorsioni che ancora oggi sono utilizzate per leggere gli stili del populismo, i processi che lo fanno nascere e sviluppare. “La mia idea, scrive la Urbinati, è che dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo. Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna –il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza. Non condivido quindi la visione diffusa per cui le forze populiste sarebbero prevalentemente votate all’opposizione e incapaci di governare”(Pag.15). Il populismo non come regimi dittatoriali e autoritari, semmai come una variabile del governo rappresentativo basato sul rapporto diretto tra un leader e il suo popolo, una forma sfigurata che si colloca dentro la categoria della deformazione. Nella visione della Autrice il populismo, ben distinto dal movimento di opinione o protesta e populismo che aspira a conquistare il potere, è una variante del governo rappresentativo. Una variante che si nutre dal rapporto stretto tra il leader, personaggio fortemente carismatico, capace di percepire “l’opinione pubblica latente” e di nutrirsi (come fa il saprofita, aggiungiamo noi) della crisi economica, della debolezza dei partiti tradizionali e dell’attacco frontale contro l’establishment, argomentazione quest’ultima non originale. Infatti, scrive a pagina 126 che il populismo non propone di rovesciare il governo rappresentativo, semmai si limita a utilizzare la retorica dell’anti establishment, semmai è ”una rivolta contro la struttura pluralista delle reazioni partitiche non nel nome di una “democrazia senza partiti”, ma nel nome del governo di una “parte” che si merita un superiore riconoscimento perché oggettivamente quella “buona”. “Il populismo al potere, rimarca a pagina 66, è in verità una nuova forma di governo misto (popolo + leader) nella quale una parte della popolazione conquista un potere preminente rispetto all’altra (o alle altre). In questo senso il populismo compete con la democrazia costituzionale (e, se possibile, la trasforma), elaborando una specifica e distintiva rappresentazione del popolo e della sua sovranità”. Il leader per la Urbinati diventa l’attore chiave in una forma di rappresentanza che tende a unificare la pluralità di rivendicazioni della democrazia post partitica per restaurare l’autorità del popolo. In buona sostanza, ci dice che il populismo “si traduce in una sorta di emendamento monarchico della democrazia rappresentativa”(Pag. 330). Nella diversità delle interpretazioni del populismo la Urbinati ci fornisce, politicamente e sociologicamente, una risposta argomentata e credibile: non una vera e propria incompatibilità con la democrazia, non mira infatti a rovesciare gli istituti fondamentali della democrazia come ha fatto il fascismo. Semmai li stressa fino al punto da fiaccarne il loro funzionamento, fino a togliere smalto agli equilibri dei poteri, presupposto peculiare della democrazia rappresentativa, rimanendo però dentro il perimetro delle regole democratiche. La tesi è che dopo decenni di fiducia da parte dei partiti nelle procedure, nelle strategie giuridiche e nelle istituzioni della politica senza dare risposte positive e chiare agli obiettivi di giustizia sociale, il populismo si nutre dalla crisi dei partiti e dal declino delle classi, dalle “rimostranze e risentimenti” dei cittadini per le promesse non mantenute dai governi democratici che si sono succeduti. Populismo come “esito del malfunzionamento della democrazia dei partiti” (Pag. 326). Una analisi condivisibile, una lettura accattivante, ricca e lucida di spunti creativi che ci offrono un valido contributo alla comprensione di una prassi politica attiva, in continuo movimento e sviluppo, a mettere alcuni significativi paletti sulla dilagante retorica populista.