di Franco Ferrarotti

Intervista di Agostino Bagnato

PRESENTAZIONE
Questi appunti sono la traccia della lunga conversazione con Franco Ferrarotti, sociologo, scrittore, docente universitario, intellettuale tra i più importanti del Novecento e dell’inizio del terzo Millennio, raccolta in occasione dei cento anni della nascita del Partito Comunista Italiano. L’intervista è stata l’occasione per fare un quadro del percorso politico e culturale del Paese. La piena disponibilità di Franco Ferrarotti a parlare lungamente e diffusamente di questi tempi testimonia l’attenzione del grande uomo di cultura per la storia del nostro tempo e per trarre proficue indicazioni per il lavoro futuro. L’intreccio tra storia, politica, economia, cultura, scienze umanistiche, tra cui filosofia e sociologia, fanno dell’incontro con questo grande Maestro una meravigliosa avventura umana e culturale.

Il PCI nasce sull’onda della Rivoluzione d’ottobre che aveva creato grandi speranze nel mondo. I comunisti italiani rifiutavano la violenza rivoluzionaria, seguita alla conquista del Palazzo d’Inverno nel 1917. In questa scelta risiede la natura democratica fin dalla sua nascita che manterrà fino al termine del suo percorso storico. Il PCI è stato il più fiero oppositore del fascismo e per questo è stato oggetto di persecuzioni, assassinii, carcere, confino. I comunisti hanno continuato nella clandestinità l’opposizione al regime, mantenendo legami con la base sociale, dagli operai ai contadini, dagli professionisti agli studenti. La partecipazione alla Resistenza e alla guerra di Liberazione è stata decisiva per tracciare il futuro dell’Italia, basato sulla collaborazione delle forze democratiche e antifasciste i cui presupposti indicati da Palmiro Togliatti a Salerno  saranno le fondamenta della Costituzione repubblicana.

Il rifiuto della violenza e il senso di responsabilità nazionale si manifestano pienamente dopo l’attentato a Togliatti nel 1948. L’impegno per la democrazia e la libertà è stato sempre ricco di contenuti sociali, per cui il radicamento nella società è stato rapido, continuo e compiuto sul piano organizzativo. Il PCI ha sempre legato la sua iniziativa politica ai contenuti, ma non è riuscito a fare i conti con la mancata revisione del marxismo italiano, nutrito di idealismo che ha limitato la crescita della dialettica in direzione del consolidamento del materialismo storico. La strategia del PCI è stata condizionata dal tatticismo, ma è sempre prevalso il realismo, come nella lotta all’eversione e al terrorismo.
Il compromesso storico è stato il punto più alto della strategia comunista, perché il PCI è stato il partito dell’ordine e della responsabilità. L’eredità è importante per progettare il futuro, purché sia abbandonata ogni  nostalgia  e scacciato il rimpianto. Una nuova utopia è possibile, ma fondata su valori moderni di universalità e di giustizia sociale planetaria.

Sono trascorsi cento anni dalla fondazione del P.C.d’I., diventato poi Partito Comunista Italiano. Cosa resta di quel sogno collettivo che ha coinvolto milioni di persone? E quel che resta del sogno ha ancora un valore, un significato? O si tratta soltanto di una memoria collettiva che si vive, quasi sfogliando un libro di storia? E’ l’interrogativo che si è posta la rivista “l’albatros” di fronte a questa ricorrenza che ciascuno celebra a modo proprio. L’incontro con Franco Ferrarotti è anche l’occasione per tornare sulle origini ideali e culturali del socialismo italiano, nei quali s’intrecciavano elementi di positivismo e di idealismo che Antonio Labriola aveva cercato di rigettare, nel nome di un adeguamento alla storia più recente del pensiero filosofico. Dopo la sua scomparsa, il dibattito ha subito un forte rallentamento, salvo poi essere ripreso da Antonio Gramsci, al tempo della detenzione nel carcere di Turi. Il pensiero marxista successivo ha subito un arricchimento, senza tuttavia conseguire quei risultati di originalità necessari per connotarlo. Tuttavia, è stato importante nelle motivazioni della nascita del PCI e nella successiva azione politica e culturale.
Franco Ferrarotti ne parla con profonda sincerità e passione, ripercorrendo cento anni della storia italiana, come se attraversasse le tappe della sua lunga e operosa esistenza. Per la disponibilità consueta, la generosità, l’impegno e la fiducia la rivista esprime il più profondo riconoscimento, impegnandosi a portare avanti con il suo contributo il dibattito sul futuro dell’Italia.   


Il professor Franco Ferrarotti con lo scultore Nunzio Bibbò

GLI INIZI
Bisogna cominciare sempre dall’inizio, anche perché nella valutazione degli avvenimenti, contano le memorie personali. Nel 1945, appena terminata la guerra, anche se giovanissimo, ho cominciato ad occuparmi dell’origine del PCI, il cui contributo alla Resistenza e alla guerra di Liberazione è stato così importante. Volevo capire le ragioni di quella presenza nella società italiana. Ho potuto comprendere che l’origine del PCI era differente rispetto agli altri partiti in Europa e nel resto del mondo. Ho parlato di questo con tanti comunisti di numerosi paesi, anche americani che ho conosciuto nel tempo. A tutti ho cercato di spiegare la diversità dei comunisti italiani. E non sempre sono stato capito.

Il PCI nasceva in quel fatidico 1921 sotto l’influenza di Vladimir Il’ič Lenin che era riuscito a sopraffare l’ala menscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Russo guidata da Aleksandr Kerenskij.   La rivoluzione di febbraio 1917 aveva portato all’abdicazione dello zar Nicola II e subito dopo alla  fine dello zarismo. Lenin si è impossessato del potere con un colpo di stato che ha imposto i soviet a maggioranza bolscevica come base del governo. Nel frattempo era riuscito a porre sotto il proprio controllo quasi tutti i soviet, molto spesso con la violenza. Da qui allo scioglimento della Duma nel mese di febbraio del 1918 il passo è stato breve. A questo punto tutto il potere era nelle mani del soviet, attuando così lo slogan “Tutto il potere ai soviet” contemplato nelle Tesi di aprile 1917 di Lenin, appena rientrato a Pietrogrado dalla Svizzera.

Il PCI nasceva come costola del Partito Socialista Italiano, diviso in tre correnti distinte: quella riformista di Filippo Turati, quella massimalista di Giacinto Menotti Ferrati e quella comunista guidata da Amadeo Bordiga. Il congresso di Livorno avrebbe dovuto portare all’unità per portare al successo la rivoluzione socialista, sempre evocata e che sembrava a portata di mano. Ma le tre anime erano inconciliabili, perché le condizioni per l’unità passavano per le imposizioni della Terza Internazionale guidata da Lenin. I socialisti italiani che avevano aderito al Komintern, la Terza Internazionale appunto, ponevano come condizione l’espulsione dei riformisti e in particolare da Filippo Turati. La posizione di Mosca fu irremovibile e quando fu chiaro che la maggioranza del congresso era per rifiutare il diktat del Komintern, i comunisti lasciarono il Teatro Goldoni, dove si teneva il XVII congresso e, riuniti nello sgangherato teatro S. Marco, proclamarono la nascita del nuovo partito, che prese il nome di Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista.

In questo drammatico passaggio non si è consumata alcuna violenza fisica, anche se la tensione era altissima tra i delegati. Questa natura democratica è stata la nota principale nella nascita del PCI. Terminato il congresso, Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca e Ruggero Grieco hanno immediatamente dato inizio alla diffusione del partito sul territorio nazionale, passando all’azione e non restando spettatori illuminati ma impotenti, come tanta parte dell’antifascismo rifugiatosi nell’Aventino parlamentare. Intanto, la reazione fascista prendeva il sopravvento, com’è noto, ed è stata violentissima nei confronti delle organizzazioni operaie e delle leghe contadine. I comunisti furono i più fieri oppositori del fascismo e furono oggetto di brutali aggressioni, fino all’omicidio nel vero senso della parola. I più colpiti erano gli operai, nei quali Benito Mussolini vedeva i principali nemici del fascismo e della rivoluzione fascista. Il Tribunale speciale, istituito nel 1926 dopo il delitto Matteotti, era tremendo nei confronti del comunisti, anche se non ha risparmiato dirigenti e militanti socialisti, repubblicani e liberali. In questo essere opposizione netta e spietata al fascismo sta la legittimazione democratica dei comunisti italiani, la prova della natura democratica del loro progetto di rivoluzione.

Quando parlavo di questa caratteristica dei comunisti italiani negli anni successivi alla guerra, molti studiosi e osservatori stranieri non capivano, a cominciare dagli americani. Nella cultura politica prevalevano l’esempio bolscevico, la successiva storia dello stalinismo e anche il clima esasperato della guerra fredda dopo la stagione della lotta comune contro il nazifascimo. Resistono ancora residui di questa concezione in molti intellettuali e uomini di cultura, italiani e stranieri. Ma è innegabile che l’atto di nascita del PCI è caratterizzato da questa anima popolare, democratica, libera. La giustizia sociale, la lotta allo sfruttamento e alle angherie del potere sono state l’autentico certificato di nascita.    

IL CARATTERE DEMOCRATICO
Lei teme che possano prevalere la nostalgia, il rimpianto, il dolore per un vissuto così intenso e non realizzato? Oppure nascerà una nuova consapevolezza su come guardare alla storia italiana per recuperare esempi ed esperienze che hanno avuto una fortissima suggestione?
Il PCI non ha fatto i conti con Marx, a differenza della SPD, la socialdemocrazia tedesca che a Bad Godersberg aprì la stagione del rinnovamento ideologico e accentuato il carattere democratico e occidentale del partito. Mi sono occupato di questi aspetti in numerose occasioni, attraverso conferenze in Europa e in America, pubblicazioni di differente natura, confrontandomi con studiosi marxisti e liberali. Il punto più importante di questa natura del PCI risiede nel pensiero di  Antonio Gramsci che aveva avviato una profonda riflessione sulla recente storia italiana, partendo dal Risorgimento. Egli aveva inteso l’egemonia come assetto sulla e della  società più che nell’esercizio del  potere, nella visione nazional-popolare che era propria della sua concezione della storia e del futuro dell’Italia. Era in contraddizione con la concezione del partito della classe operaia, concezione che si connatura nella dittatura del proletariato.

Max Weber aveva fornito riflessioni fondamentali sulla natura della democrazia e della stato. La democrazia di massa era la vera novità dopo la catastrofe della guerra. Nel suo fondamentale saggio Politik als Beruf (Politica come professione), egli aveva indicato nell’Etica della responsabilità (Verantwortungsethik) la condizione indispensabile per garantire l’esercizio del potere, subordinando l’Etica dell’intenzione o della volontà (Gesinnungethik). Quando il cancelliere tedesco Paul von Hindenburg aveva voluto Max Weber come consulente per la redazione della Costituzione della Repubblica di Weimar che avrebbe dovuto gettare le basi della Germania futura, facendo uscire il Paese dalla macerie della Prima guerra mondiale; il grande sociologo portò nella discussione e all’attenzione dei Costituenti il tema dello Stato come detentore del legittimo uso della forza per imporre l’interesse generale.  Pur essendo fieramente ancorato ai valori di democrazia e libertà, il Max Weber ha fatto inserire nella Costituzione, all’articolo 48 che tratta dello Streitbare, Wehrhafte Demokratie nel quadro del Wertfreiheit  (Libertà dei valori), il punto definito Diktatur Paragraph Reich, riguardante la possibilità di dare al governo poteri per difendere l’interesse generale e garantire la governabilità. Purtroppo questa norma ha finito paradossalmente per  favorire l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Il tentativo di riformare il concetto di democrazia è costato caro alla Germania e all’Europa.

Dopo l’Aventino e l’assassinio di Giacomo Matteotti, l’antifascismo militante si è dissolto. Soltanto i comunisti sono rimasti prevalentemente a contrastare il regime, operando nella clandestinità. Quale segno ha lasciato tra i lavoratori questo comportamento di sfida minoritaria?
Il PCI è stato fin dall’inizio della sua esistenza il difensore più coerente dei principi di libertà e di democrazia, nonostante le imposizioni di Mosca. Questa è la base della eccezionalità italiana nel movimento operaio e nel movimento comunista europei, come ho sostenuto coerentemente da settanta anni. Bisogna tenere sempre presente il contesto. Palmiro Togliatti è stato soprattutto uno stratega nella lotta politica, ma mancava di adeguata  strategia per il lungo periodo. Al contrario, un intellettuale antifascista come Franco Rodano, appartenente al Movimento del Cattolici Comunisti, da cui sarebbe nata la Sinistra Cristiana, unitamente ai suoi amici, aveva una visione molto ampia e di lungo respiro. Togliatti e Rodano, tuttavia, avevano compreso che per dare stabilità politica all’Italia era indispensabile l’incontro tra democristiani e comunisti, nel senso che la trasformazione del Paese sarebbe stata possibile dalla collaborazione tra queste due componenti fondamentali della storia italiana più recente. Togliatti aveva fatto inserire nella Costituzione Repubblicana la proposta del Concordato tra lo Stato e la Chiesa, il famoso art. 7, fieramente avversata da liberali, socialisti e strati dello stesso Partito Comunista Italiano. Aveva capito che la ricostruzione del Paese non era soltanto un fatto economico, ma soprattutto un dovere morale. E che questo obiettivo poteva raggiungersi con quello che sarebbe stato chiamato successivamente Compromesso storico. Il ruolo dei cattolici di Rodano è stato molto importante per l’affermazione di tale visione. Lo avevano subito compreso i neofascisti che hanno fatto tutto il possibile per impedire questa intesa. Il giovane Giorgio Almirante è stato uno dei combattenti più tenaci su questo terreno. Aveva capito che dall’incontro e dall’intesa politica tra le due forze determinanti, la prima nata dalla Dottrina Sociale della Chiesa e la seconda dal pensiero marxista sottoposto ad un adeguamento alla realtà italiana, sarebbe nata l’intesa di lungo periodo che avrebbe garantito libertà e democrazia al Paese.  

IL PCI E LA CULTURA
L’Università è stato un crogiolo di antifascismo strisciante, nonostante l’adesione al regime della grande maggioranza dei docenti. In alcune realtà, è diventata successivamente un centro di vera e propria militanza, fino alla presenza attiva di professori e giovani studenti nei GAP e nelle formazioni partigiane. Perché c’è stato questo moto di indignazione, aumentato dopo le leggi sulla razza? E’ stato soltanto un bisogno di allargare l’orizzonte della conoscenza o anche la presa di coscienza dell’ingiustizia sociale?
L’Università italiana non ha reagito all’avanzata del fascismo, anche quando era evidente che lo squadrismo avrebbe avuto conseguenze devastanti per la cultura italiana. Neanche di fronte alla vergogna delle leggi razziali gli intellettuali hanno sentito il dovere d’insorgere e di fare sentire la voce della cultura e della scienza libere da imposizioni politiche. Uomini di cultura, intellettuali di diversa estrazione, artisti si sono rifugiati negli studi della proprie discipline, si sono chiusi negli biblioteche, negli archivi e negli atelier, rinunciando a far valere la voce libera della cultura e dell’arte. Molti si sono accostati all’Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, pensando di fare il proprio dovere di buoni Italiani. soltanto pochi si sono opposti con decisione alle misure liberticide dopo il delitto Matteotti e di fronte alla  scelleratezza delle leggi sulla razza. Giuseppe Bottai, ministro della cultura popolare, con la sua politica di apertura, aveva offerto un contenitore all’insofferenza giovanile. Ma molti hanno pagato con l’arresto e il confino questo fraintendimento. Basti citare i nomi di Carlo Levi e di Cesare Pavese, due tra le più alte espressioni della cultura italiana.
In questo contesto, bisogna ricordare che sono stati i comunisti a portare la questione sociale al centro della democrazia intesa come sostanza e non soltanto come procedura.  Il tema della giustizia sociale era al centro delle rivendicazioni di operai e contadini. Le riforme annunciate dal fascismo erano state in grande misura tradite e le condizioni di vita si aggravavano sempre di più. I comunisti, forti anche della rete clandestina di contatti con la realtà operaia e contadina, hanno fatto delle rivendicazioni economiche e sociali la sostanza della loro politica, quel contenitore di concretezza, di cui parlavo prima. Molti giovani hanno compreso questo messaggio e sono passati all’azione alla prima occasione, ovvero la lotta armata contro i nazisti e i fascisti.
Sono stati i comunisti a portare la questione sociale al centro della democrazia intesa come sostanza, appunto. Questo ancoraggio alla realtà e alla sue stratificazioni è stata la distinzione dei comunisti italiani rispetto agli altri partiti europei. Non bisogna mai dimenticarlo!

La guerra ha aperto ferite terribili nelle popolazioni. La pacificazione avviata dopo la Liberazione non ha risolto il problema dell’eredità del fascismo. Come giudica il comportamento del PCI ed è vero che ancora oggi si può parlare di una doppia morale nel giudicare gli avvenimenti che si sono verificati durante i mesi dell’occupazione nazifascista e dell’immediato dopoguerra?
La svolta di Salerno è il punto di ripartenza dei comunisti. Qui c’è la grande capacità di Palmiro Togliatti di dare la risposta giusta sul piano strategico, facendo prevalere l’aspetto tattico legato alle circostanze. In effetti, Salerno è il primato della tattica sulla strategia. La forza del PCI non si realizzò nel momento decisivo dello scontro con la borghesia responsabile di avere generato il fascismo, per paura della reazione delle forze conservatrici. Ha certamente pesato anche il Patto di Jalta, ma il comportamento dei comunisti italiani va al di là dell’intesa tra i vincitori della Seconda guerra mondiale. Togliatti accetta i principi democratici e individua nel Parlamento la sede della mediazione politica. Riesce a imporre questa linea a molti riottosi che intravedevano nella prosecuzione della lotta armata la strada per la conquista del potere. E quando il terrorismo minaccerà la democrazia parlamentare, il PCI diventa il partito dell’ordine, nel nome dei valori democratici nati con la lotta di Liberazione, minacciati da forze violente e in parte oscure.
Per quanto riguarda la doppia morale, i comunisti accettano di parlare il meno possibile dei tanti delitti subiti, perpetrati da parte dei nazifascisti. Così pagine dolorose restarono in ombra per moltissimo tempo. Altrettanto è avvenuto per le violenze commesse da forze della Resistenza, ma che costituiscono la conseguenza del conflitto armato che coinvolge anche la popolazione civile. Ci sono voluti molti anni perché episodi criminosi venissero denunciati, ma niente è paragonabile alla violenza subita dai partigiani e dalla popolazione civile durante i lunghi mesi dell’occupazione nazifascista. Tutto ciò rispondeva al bisogno di pacificazione che ha sempre improntato la politica di Togliatti, proprio per paura della reazione delle forze conservatrici e successivamente dall’appartenenza dell’Italia all’Alleanza Atlantica e alla NATO.
Questa cultura riverbererà i suoi effetti anche negli anni successivi. Si ricordi la teorizzazione di Enrico Berlinguer di andare oltre il 51% dei consensi per la conquista del potere. Il tragico golpe cileno del 1973 che ha decapitato l’esperienza di Salvador Allende, rappresentava un insegnamento e un monito fortissimi. Del resto l’emozione in Italia e nel mondo per la brutale aggressione del generale Augusto Pinochet alla democrazia cilena, dovevano portare alla riflessione le forze democratiche. Nel PCI si aprì un dibattito interno molto esteso, ma non si è riusciti ad andare oltre la denuncia dei pericoli rappresentati dalle forze conservatrici e reazionarie in Italia. Non c’è dubbio che ha pesato anche il contesto internazionale, compreso il legame del PCI con l’Unione Sovietica che soltanto alla fine degli anni Settanta si attenuerà. De resto, era stato Enrico Berlinguer a sostenere dalla tribuna di un congresso del PCUS che la Rivoluzione d’ottobre aveva esaurito la sua spinta propulsiva. Tentativi golpisti c’erano stati e vi saranno successivamente, ma la tenuta democratica è stata garantita dal PCI, anche di fronte al terrorismo stragista nel nostro Paese.   

LA QUESTIONE SOCIALE
La ricostruzione ha visto i comunisti impegnati in durissime battaglie per il lavoro e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Come giudica, a distanza di quasi ottanta anni dal suo avvio, quella straordinaria stagione politica e civile, condotta muro contro muro tra socialcomunisti e democristiani e nello scontro ideologico esasperato dalla guerra fredda?
Nel 1948 Giuseppe Di Vittorio, Agostino Novella e Giovanni Roveda lanciarono il Piano per il lavoro. Quella iniziativa è stato il primo esperimento di democrazia  come processo e di contenuti come giustizia sociale. Il bisogno di lavoro nelle città era come la terra per i contadini meridionali. Questo ha fatto la differenza rispetto alle altre forze politiche ed ha caratterizzato da subito, in senso classista ma democratico, la presenza comunista nella società. Poi verranno le riforme di struttura e successivamente la programmazione economica per governare lo sviluppo economico e sociale. In questa sequenza c’è la dimostrazione della polemica tra Palmiro Togliatti e Norberto Bobbio sul ruolo degli intellettuali nella società. Per Togliatti l’intelligencija doveva impegnarsi nella trasformazione della società; per Bobbio si trattava di una funzione libera. Ma è chiaro che alla base della polemica valevano i contenuti per cui impegnarsi, non soltanto la forma e le procedure.

Quel grande e appassionato movimento di popolo che ha coinvolto le fabbriche, i luoghi di lavoro urbani, le campagne, quanto ha inciso nella formazione della coscienza democratica del Paese? Si può dire che i frutti di questa mobilitazione sono stati raccolti nella lotta all’eversione nera e al terrorismo. Senza l’impegno dei comunisti sarebbe stata la stessa cosa?
E’ stato enorme, importantissimo. Gli scioperi nelle fabbriche del Nord e l’occupazione delle terre nel centro meridione sono la dimostrazione della capacità dei comunisti di riempire di contenuti quel sogno rivoluzionario dell’inizio. Nello stesso tempo è stato posto un freno all’impazienza proletaria che avrebbe esposto i comunisti a dei rischi tremendi, come accaduto in altri paesi. Questi contenuti conferivano all’azione dei comunisti quel realismo e pragmatismo che consentiva di ottenere importantissimi risultati sul piano economico e sociale, ma anche se quello dei diritti civili.
Vorrei ricordare che il 14 luglio 1948 Palmiro Togliatti subì l’attentato per mano di un esagitato Antonio Pallante che lo ha portato alle soglie della morte. Nel letto d’ospedale, con un filo di voce appena, raccomandava di mantenere la calma e di non perdere la testa. Egli conosceva le pulsioni interne al partito e sapeva che potevano sfociare in manifestazioni violente, come si è verificato in alcuni casi, per esempio ad Abbadia S. Salvatore e a Civita Castellana. Ricordo che è dovuto intervenire l’esercito per ristabilire l’ordine. Ecco, se il Paese fosse insorto, la situazione sarebbe sicuramente precipitata nel caos e nella reazione violenta.

Un punto molto importante di questo lungo percorso riguarda il rapporto dei comunisti con il mondo della scuola e dell’università, con gli intellettuali e gli artisti. Si può continuare a parlare di egemonia del PCI sulla cultura italiana? E se sì, perché intellettuali e artisti di formazione liberale avrebbero aderito ad una facies per loro impropria, anche tenendo conto che il PCI è stato lungamente all’opposizione in Parlamento e discriminato in molta parte del territorio? C’è qualche ragione più profonda che ha provocato questo amalgama tra idealità e sensibilità diverse, come essere sempre “contro”, rifuggendo da responsabilità dirette? Ancora oggi in alcune frange della sinistra si colgono questi riverberi di ribellismo, anarchismo e di nichilismo…
L’assenteismo della Democrazia Cristiana e del liberalismo nel campo della cultura e delle arti è stato occupato dal PCI. Il legame di molti studenti con i comunisti risaliva al tempo della “fronda” universitaria. Purtroppo molto spesso quel legame non ha prodotto profonde innovazioni in campo artistico. Il realismo socialista propugnato da Stalin e dal responsabile culturale del PCUS Andrej Ždanov, in Italia è stato vissuto come deriva propagandistica da molti artisti. Arte come didattica politica e soprattutto come arma di propaganda non serve a nulla. Naturalmente il dibattito si è manifestato più sul piano di ogni singola disciplina che sulla cultura in generale e nel dibattito delle idee. Un esempio è rappresentato da Renato Guttuso, il cui messaggio artistico è stato distorto proprio per finalità propagandistiche e per polemiche all’interno della comunità di pittori, scultori, cineasti. L’arte non può essere mai intesa come attività di servizio. Anche quando ciò si verifica, nel migliore dei casi produce un linguaggio che non può essere replicato attraverso l’adozione di una formula. Dall’impegno teorico, il passaggio alla passione civile e all’impegno sociale non deve mai coinvolgere le menti più acute e sensibili. In Italia questa discussione ha visto esiti diversi: durante il ventennio fascista molti poeti si sono chiusi nell’ermetismo, hanno finito per isolarsi dagli atri, come sul terreno della musica con adozione delle prime forme di dodecafonia.
Trovo profondamente sbagliato l’atteggiamento di coloro che, di fronte alle difficoltà ed ai pericoli, hanno finito con il rifugiarsi nella propri anima, alimentando probabilmente quel ramo delle spiritualismo che portava a interrogarsi sull’universo, trascurando la Terra e i suoi frutti.

I fatti d’Ungheria nel 1956 sono stati un brusco risveglio per molti intellettuali. Era il primo cedimento del fronte progressista da cui prenderà corpo uno dei cardini dell’identità comunista in Italia e in Europa. Il risveglio si è consolidato con l’opposizione durissima all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. I bastioni che sorreggevano l’identità storica dei comunisti italiani erano crollati. Da qui al crollo del muro di Berlino non ci sarebbe voluto molto. E’ così?
La fuga di personalità importanti, di pensatori, intellettuali e artisti ha rappresentato un limite alla trasformazione del PCI in forza autonoma e pienamente occidentale. in questo modo non si è trovato un gruppo di pensiero per l’autocritica e per le posizioni originarie. La scomparsa di Antonio Gramsci che aveva iniziato questo profondo processo di rinnovamento partendo dalle radici della cultura popolare, si faceva sentire.  Molti uomini di cultura rimasti nel partito non hanno potuto o non sono stati capaci di elaborare una coscienza autocritica, che sarebbe stata indispensabile negli anni successivi, soprattutto nel sostenere le ragioni del compromesso storico. Per non parlare della relazioni con i partecipanti al cosiddetto Eurocomunismo che è rimasto scatola vuota, salvo l’attenzione sulle istituzioni europee e la politica della Comunità Economica Europea.

Eppure c’è stata una presa di coscienza ma che è rimasta latente. Sul piano politico c’è stato il lento distacco dalla Russia comunista, ma sul terreno teorico non c’è stata sufficiente coscienza autocritica. A mio parere questo ritardo è legato al fatto che il marxismo italiano, dalla origini, è stato imbevuto di positivismo e di idealismo e non c’è stata una sufficiente elaborazione propria, come avvenuto in Germania e in altri paesi. Soltanto Antonio Labriola ha affrontato il tema del materialismo storico come base per la conoscenza e la lettura della realtà  nel suo divenire e per costruire un solido programma politico, basato sull’evoluzione naturalistica. Dalla cattedra di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza” ha sollecitato la polemica contro gli elementi di positivismo e di idealismo che impedivano l’azione concreta nella conquista del potere e poi nella gestione dello Stato. Egli è sceso dietamente in campo, partecipando alla vita delle Società Operaie e delle prime forme cooperative, dando all’impegno intellettuale una concretezza che soltanto i comunisti riusciranno a sviluppare. Charles Darwin aveva aperto gli occhi a migliaia di studiosi, ma in Italia soltanto Antonio Labriola ha fatto riferimento all’antropologo inglese. Inoltre, le lettere che il filosofo italiano ha scritto a Friedrich Engels sono state ignorate e rimaste sconosciute per lungo tempo. Un primo richiamo si deve a Palmiro Togliatti e successivamente ai lunghi studi che ha compiuto Nicola Siciliani de Cumis e alle riflessioni critiche di Giuseppe Vacca. Tutto ciò dimostra i ritardi della cultura italiana nel fare i conti con l’eredità di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile. Nello stesso tempo sono la testimonianza della difficoltà di fare parte dell’avanguardia europea e internazionale nella discussione sul rinnovamento del marxismo.


Il professor Franco Ferrarotti con il professor Nicola Siciliani

L’EREDITÀ
Eppure, lo zoccolo duro ha resistito, creando divisioni e scissioni tra gli eredi del PCI che durano ancora oggi, nonostante le profonde trasformazioni della società. A cosa è dovuta questa resistenza tenace al cambiamento in tanti strati dell’antico PCI? E’ solo un fatto di idealità o anche mancanza di credibili orizzonti, per cui il relativismo e il pragmatismo non sono penetrati nelle profonde stratificazioni della società nazionale?
In primo luogo bisogna ricordare che i comunisti sono riusciti a costruire un grande sogno collettivo, fondato su un’utopia di giustizia sociale, di uguaglianza e di fraternità, di pace e di solidarietà. Questi principi sono penetrati profondamente nella coscienza dei lavoratori italiani che sono stati chiamati a solidarizzare ogni qualvolta la libertà e la democrazia erano minacciati in ogni angolo del mondo. Basti pensare lo straordinario impegno per il superamento del colonialismo e nella solidarietà ai movimenti di liberazione. E’ stata una esperienza che ha lasciato segni profondi nella coscienza popolare e che sono parte di quello zoccolo duro che ha sorpreso tanta parte degli osservatori politici. Sul piano interno, le grandi lotte sindacali non sono state sterili, ma hanno prodotto profonde modificazioni nelle relazioni industriali e nelle campagne, con riflessi anche sui ceti medi urbani. L’intreccio tra idealità ed esperienza vissuta ha prodotto questa solida base che dura ancora.

Tutto questo processo epocale come è stato vissuto dalla sinistra italiana? Ritiene sufficiente l’attuale elaborazione politica dei gruppi dirigenti del Paese per affrontare le sfide attuali e future? Si pensi alle conseguenze spaventose del Covid, soprattutto sul piano della divaricazione sociale ulteriore e delle ricadute economiche future. Le nuove generazioni saranno chiamate  fare fronte ad un indebitamento spaventoso. Come si potrà garantire quell’enorme debito?
A mio parere esiste un accecamento radicale. L’innovazione tecnica è un valore ma deve essere strumentale ad un progetto generale di Paese e di mondo intero. La tecnologia non dice da dove vieni e dove vai. Contenzioso tra valori strumentali e quelli privati crea disorientamento nella società che non sa dove sta andando e dove potrà andare. E’ venuta meno la funzione sociale dell’utopia. Il cittadino è disponibile a sacrifici e a impegnarsi sul piano sociale se c’è un disegno collettivo vero, credibile, verificabile nel suo procedere attuativo. Se manca questo disegno generale, il disorientamento aumenta e di conseguenza crescono i pericoli per la democrazia. Da qui le attuali difficoltà per affrontare la lotta alla pandemia e per progettare il futuro dell’Italia, nel quadro europeo. 

Senza il PCI cosa sarebbe l’Italia attuale? Non pensa che sarebbe opportuno fare i conti con questa eredità, senza paraocchi e vincoli storici, ma guardando alle esperienze della società occidentale e del liberalismo?
Sarebbe una società ancora più disordinata e piatta. Il PCI è stato un grande argine contro il disordine e l’individualismo esasperato, figli entrambi dell’egoismo. E’ stato un baluardo contro rigurgiti autoritari, ma sempre partendo dai contenuti sociali e non solo dai principi astratti che sono comunque sempre indispensabili. La combinazione di questi due fattori rappresenta la vera originalità del Partito Comunista Italiano nel panorama internazionale.

Cosa suggerirebbe ai gruppi dirigenti eredi di quella stagione inaugurata a Livorno il 21 gennaio 1921? Cosa dovrebbero fare per rispondere al patto morale assunto di fronte alla storia?
Guardare dentro se stessi sulle ragioni che hanno portato a tutto questo e ricavarne l’insegnamento necessario. Le celebrazioni del centenario della fondazione del PCI debbono servire a questo, diversamente sarà  un momento oleografico e totalmente inutile. Se ciò non avvenisse sarebbe una occasione mancata. Non per ricostituire soggetti politici appartenenti al passato, come il PCI tramontato dopo l’11 novembre 1989 con la caduta del Muro di Berlino, ma proiettare quella esperienza e la sua eredità per governare il presente e soprattutto costruire il futuro.

Grazie.
Roma, 21 gennaio 2021

 

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