di Ennio Calabria
La scienza invera la verità dei fenomeni che già si sono resi manifesti e fa questo mediante le proprie certezze acquisite. La verità della scienza è considerata verità condivisibile perché oggettiva. Eppure, nell’attuale esperienza del Covid possiamo osservare come la percezione individuale soggettiva della paura intervenga nello scienziato alterando le sue predizioni.
Del resto la scienza stessa muta le proprie certezze ad opera della capacità di discontinuità creativa della soggettività del singolo scienziato. Infatti, l’altra forma della verità si determina nell’attimo nel quale l’individuo intuisce ed è questa forma di verità intuitiva che oggi pone in essere il nuovo archivio del sentire umano, che agisce in rapporto con i tempi della realtà mentre accade.
Tutta la cultura ormai alle nostre spalle è nata ed è stata partorita da uno scenario della mente caratterizzato dalla conflittualità tra le polarità opposte quali, per esempio, vero e falso che per eccellenza hanno rappresentato gli opposti modi di essere e di intendere.
L’ombrello è rotto: paura dell’acqua, Ennio Calabria, 2018, acrilico su tela, cm. 300x200
Oggi, invece, per l’altissima velocità degli scambi le polarità opposte convivono e si interscambiano. Ma il punto decisivo è dire che convivono e si interscambiano nell’unità dello stesso attimo e che, in quell’attimo, vivono e condividono il proprio opposto.
A proposito dell’interscambio tra vero e falso vorrei proporne un’esemplificazione.
Se io affermo qualcosa di vero che non riesce a muovere interessi concreti, quel vero diviene inspendibile come una moneta falsa. Se invece affermo qualcosa di falso e questo falso muove interessi concreti esso diviene vero, comunque accettato come vero.
Nello stesso modo anche causa ed effetto vivono assieme nell’attimo e, in esso, si interscambiano.
Per l’altissima velocità degli scambi si azzera la distanza temporale tra il prodursi della causa, cioè dell’evento che identifichiamo come causa e l’evento che ai nostri occhi si configura come effetto di quella causa. Del resto David Hume già nel Settecento aveva affermato che noi, di fatto, non vediamo cause ed effetti, ma soltanto successioni. Hume attribuisce l’ideazione di causa-effetto ad abitudini mentali che derivano dall’osservazione del ripetersi di un’esperienza nel senso comune.
Comunque, se pur originariamente fondati dalla nostra necessità, tuttavia causa-effetto si pongono come parametri fondamentali che finora nella tradizionale forma della loro relazione ci hanno consentito l’identificazione di una verità, se pur dominata dalla relatività.
Oggi, invece, a causa dell’alto livello della velocità degli scambi causa-effetto convivono nel contempo nello stesso attimo e nel ventre del “Sum ergo cogito”, cioè nello svolgersi della nuova centralità della vita che si fa pensiero e nuova potenzialità di verità soggettiva.
Quindi, è come se per complesse circostanze che interagiscono nel contempo dominate dall’alto livello della velocità degli scambi, entrassimo in una dimensione sferoide nella quale tutto è contemporaneo perché posto oltre la dimensione lineare del tempo e del pensiero.
In tal modo, in noi si modifica nello spazio-tempo sferoide il rapporto di conseguenzialità tra causa ed effetto.
Così l’interscambiarsi di causa ed effetto nell’attimo del loro convivere nell’unità individuale, ora veramente assoluta, ricevono una nuova legittimazione che proviene loro dal convivere nella vita che oggi assume una nuova centralità autoreferenziale.
Per esempio, prima l’individuo vivendo la contraddizione tra vuoto e pieno, percepiva l’altro che gli stava di fronte come ipotetica parte di sé, perché tendeva ad identificarlo nel vuoto o nel pieno, comunque entro un perimetro di relazione paritetica con sé. Oggi, l’altro si pone come insidiosa alterità. Ricordo che se una famiglia in auto tornando a casa si accorgeva che uno sconosciuto sostava ad un’ora tarda davanti al portone del loro palazzo, posteggiava e salutava lo sconosciuto che, a propria volta, ricambiava il saluto. Oggi la stessa famiglia vedendo lo sconosciuto non posteggia e gira attorno al palazzo finché lo sconosciuto non si sarà allontanato.
Ora, in questa nuova condizione nella quale vuoto e pieno interagiscono e si interscambiano, prevale l’imperativo di un assoluto diritto alla propria convenienza.
Così l’individuo può orientare, incolpevole, gli esiti dell’interscambio tra causa-effetto a favore del proprio sé e lo fa in tutta buona fede perché convinto che ciò sia un diritto, un diritto che gli spetta, e che gli è necessario, per raggiungere il proprio ideale di verità.
Questo nuovo assetto psichico ed autoreferenziale della personalità sviluppa in noi una percezione dell’altro che ci sta di fronte come espressione assoluta di una alterità da noi.
Lo sentiamo come un pericoloso estraneo che attraverso la sua estraniante indifferenza ci invia l’allarmante percezione di una totalità che annienta la speranza che la nostra identità sia ritenuta necessaria in questa totalità nella quale la nostra identità annega.
Comunque, molti iniziano a difendersi inconsapevolmente percependo l’effetto come causa e la causa come effetto. Questo fenomeno è riscontrabile oggi nei molti che negano addirittura l’esistente in una buona fede che autorizza il diritto di ciascuno alla manipolazione dei dati della realtà, riconsiderati però dal punto di vista del proprio sentire. Ad esempio, nel caso del Covid la necessità di sottrarsi alla paura dà luogo alla necessità di non vedere il pericolo che essa genera. Insomma, l’intensità del calore è quella che io percepisco e non quella che mi indica il termometro, che è un dato che esclude me e il mio stato.
Quindi, ormai, per molti individui la percezione soggettiva legittima la propria ipotesi di verità, come verità condivisibile. Nell’inversione di causa ed effetto, io sono causa e nel contempo sono effetto. Così io, oggi, come osservatore collasso inevitabilmente nell’osservato e così io sono osservatore e nel contempo sono ciò che osservo, cioè l’osservato. Insomma, “il pescatore pesca il pesce e il pesce pesca il pescatore”.
Ma la questione centrale di questa breve riflessione è la ricerca della ragione fondamentale per la quale il livello più alto di soggettività autoreferenziale potrebbe porsi come seme per una nuova comunitarietà.
Per esempio, il grande Raffaello possiede una forma dell’Io che vive ponendosi a disposizione dell’emersione dell’io dell’altro, che vive nel sociale di quel tempo. In tal senso Raffaello non è solo un genio capace di esteticizzare la società del suo tempo, ma è mosso da una necessità di condividere profondamente la forma di quella società e di farlo mediante il proprio Io che si fa portatore di quella forma. Al contrario, il grande Michelangelo vive un Io potentissimo che non si dà al proprio tempo, ma che in un certo senso lo fonda imponendoglisi.
Voglio dire che sia in Michelangelo che in Raffaello il loro modo di essere non fu motivato da una scelta culturale o estetica, ma dal loro essere.
Riflettendo sul comportamento dell’Io di Raffaello, il mio pensiero va per analogia all’esperienza di San Francesco. San Francesco ha traslocato il proprio Io nell’altro e non ha fatto questo per una scelta teologica, ma perché era fatto per vivere nell’altro.
Soggetti come San Francesco vivono la negazione del proprio Io come il livello più certo del proprio Sé. Credo di aver fatto l’esempio di due soggetti, San Francesco e Raffaello, che anticipano un comportamento dell’Io che vive l’universalità della propria unicità. Ma ora è la Storia stessa, quindi i suoi parametri oggi velocemente mutanti che propongono alla soggettività di porsi come base della nuova collettività, se non altro proponendosi come sua ispirazione. La nuova collettività verrà rifondata di certo sulla base di una profonda ripercezione dei valori. Ripercezione della quale, oggi, è capace soltanto la coscienza individuale nella misura in cui assume coscienza dell’universalità della propria unicità.
L’unicità della coscienza individuale, infatti, per propria natura riconosce negli altri individui, se pur percepiti estranei o addirittura ostili, la loro unicità che li sottopone al comune schema dell’esistere e, quindi, a vivere la stessa fragilità.
Dopo un inedito divorzio tra due grandi dimensioni della personalità, quella votata geneticamente alla socialità collettiva e quella che si riconosce e si esprime entro i caratteri della dimensione della coscienza individuale, è solo quest’ultima che è capace ormai di identificare il valore in sé. Purtroppo però il valore in sé non è più percepito dalla cultura degli odierni scambi reali della società, guidati invece dai valori relativi alla convenienza.
La vita collettiva infatti si va specializzando attorno alle questioni della sopravvivenza materiale e si va riconoscendo in un pensiero unico che non è più una verità condivisa, ma è un’opinione indotta che è inevitabile condividere. Anzi, questa opinione che ci sembra impossibile non condividere si erge su fatti voluti da qualcuno, ma che noi percepiamo oggettivi come quando ci si trova davanti ad un evento naturale come un terremoto.
Questa considerazione la fece Lucio Libertini già moltissimi anni fa parlando del Capitalismo. Comunque il punto della questione è riuscire ad identificare le modalità che possano consentire alla soggettività di farsi, nella propria autoreferenzialità, nuovo seme della futura visione comunitaria.
Insomma, cos’è che potrebbe autorizzare un’affermazione soggettiva a farsi verità condivisa?
Cosa può garantire che una verità soggettiva, che nasce da una profonda autoreferenzialità, possa essere percepita come prodotto di una “mente che non mente”?
Di certo la “mente che non mente” è una postura di una coscienza che si allea con la ragione per difendere la verità che l’essere vive profondamente in sé. Ma come dimostrarlo?
Ed oggi, a causa dell’azzeramento della distanza tra osservatore ed osservato, la verità soggettiva si pone come verità relativa alla propria negazione, in quanto dominata dalla convivenza delle due opposte posture nell’unità condivisa dell’attimo.
Inoltre vorrei osservare che mentre prima l’affermazione di un individuo veniva percepita come opinione, oggi, inizia ad essere inconsapevolmente percepita come oggettiva voce della struttura soggettiva.
Si tratta di una verità che afferma, per citare Heisemberg, che l’indeterminazione è una verità più durevole e più probabile di quella attribuita alla stessa matematica considerata scienza esatta. C’è anche da dire che la verità intuitiva è ormai insostituibile e se pur complessa verità interiore dell’uomo è capace di rappresentare il relazionarsi del sentire della consistenza umana con la realtà mentre accade velocissimamente. Ma questa nuova forma di velocità non si sviluppa in orizzontalità come nel caso della velocità narrata dal Futurismo. Nella forma della velocità del Futurismo il corpo nella propria postura rappresentava una velocità di quel corpo in relazione con il corpo fisico della strada.
Oggi, ogni rappresentazione della velocità si pone in rapporto con un’immaterialità globale che trasforma quella velocità in una velocissima stasi, che ricorda la stasi veloce delle Trasfigurazioni. I pittori del passato che non avevano conosciuto la velocità del futurismo, dipingevano la Trasfigurazione come stasi mistica. Forse, oggi, è possibile intuire che la Trasfigurazione sembra derivare da una velocissima roteazione del corpo su se stesso.
Come già detto, è come se vivessimo una curvatura del tempo psichico che impone carattere sferoide ai processi di connessione che la mente opera nel corso dell’attività intuitiva, concentrandola nell’assoluto presente dell’attimo, che ospita l’interscambio delle polarità opposte.
Ma questa nuova verità soggettiva, silenziosa ed autoreferenziale, può essere percepita come manifestazione capace di essere riconosciuta come soggetto che può condizionare la realtà?
Certo, sempre la nostra inconsapevolezza ha condizionato le nostre azioni. Ma, allora, che differenza c’è tra il nuovo ruolo dell’inconsapevolezza di oggi e quello di ieri?
Forse, intanto, la novità sta nel fatto che si inizia a percepire l’esistenza dell’inconsapevolezza come partner che convive con la nostra consapevolezza mentre ne relativizza la percezione della realtà, quindi, la percezione della verità.
Finora, escludendo la grande esperienza di Freud, noi non ci siamo sforzati di cercare di far derivare dall’esperienza dell’inconsapevolezza un nuovo alfabeto della nostra mente, ma abbiamo ignorato il suo peso o l’abbiamo subordinato alle logiche della patologia e, comunque, l’abbiamo letto servendoci di un processo mentale dominato dai codici della consapevolezza.
Insomma, è come se confusamente il territorio del quale la nostra coscienza si fa carico responsabile, iniziasse ad includere anche il ruolo e le potenzialità dell’inconsapevolezza.
È come se iniziassimo a renderci conto che noi pesiamo sull’ambiente sia per ciò di cui abbiamo consapevolezza, sia per ciò che di noi ignoriamo.
Gramsci (particolare), Ennio Calabria, 1967
Noi non conosciamo l’intenzione della nostra inconsapevolezza, ma iniziamo ad intuirne l’esistenza come nuovo soggetto che agisce nella storia e che, pertanto, relativizza la percezione della verità.
Iniziamo ad intuire che la nostra inconsapevolezza si comporta come una sorta di indeterminazione che convive con le nostre certezze e le ripropone relativizzate.
Del resto è come se oggi la Storia rivendicasse a sé l’investimento che l’uomo aveva donato alla Metafisica. Così restituito all’uomo ciò che è dell’uomo, il mistero che guida l’inconsapevolezza fornisce i propri indizi e ci impone la propria irrisolvibilità. Il mistero è come la vita che non può collassare nello stato di quiete che è la morte e, quindi, pertanto, la definibilità.
Pasolini, infatti, diceva che nessuno avrebbe potuto affermare di averlo conosciuto prima della sua morte.
Comunque sembra evidente come si vadano radicalizzando sia la forma della verità che la collettività riconosce, sia la forma della verità che la soggettività vive nel proprio percorso intuitivo. Quest’ultima non documenta e non indaga solo su ciò che si è già determinato, come nel caso della scienza, ma si relaziona con la realtà mentre accade.
Vorrei aggiungere che mentre la verità collettiva vive nella risposta conseguenziale al contesto, la verità soggettiva invece vive della domanda che genera la propria risposta e che, pur servendosi persino di schemi convenzionali, entra in inconsapevole relazione con la domanda che l’esistere pone all’esistenza.
Queste approssimative riflessioni tendono a porre in evidenza il nuovo ruolo che oggi lo Spazio e il Tempo esercitano nella Storia dopo l’esaurirsi delle condizioni spazio-temporali che consentivano l’esistenza delle cosiddette “stelle fisse” e delle “grandi narrazioni”.
Era il tempo nel quale il “Padre storico” e quello metafisico ci precedevano e preorganizzavano la nostra coscienza al suo nascere e lo facevano mediante la loro forza assertiva che riassumeva ciò che era stato certificato nella visione collettiva. Oggi, essi si identificano con il nostro incognito futuro e dall’essere orientamento che ci proveniva dal passato, si pongono come attrattori dal futuro. I grandi contenuti che fin qui ci hanno guidato interpretandoci come soggetti e oggetti delle “grandi narrazioni” si traducono oggi nel vuoto esserci di noi, nudificati dalla sparizione delle dimensioni sovrastrutturali. Sparizione che porta via con sé il senso del nostro esistere nella Storia. È come se il nostro tempo ci svelasse una inedita inconsapevole accettazione del nuovo esplicito tradursi del processo del senso nel puro darwiniano esistere in sé. Penso al significato che l’esistenza porta con sé e che si configura nel registro di un’accezione del significato che muove dallo spazio-tempo, e dalla sua azione, sulla consistenza psicofisica dei corpi dei vari attori dell’esistere nel loro consapevole e inconsapevole interagire.
Da questo interagire dei vari attori, ciascuno impegnato nel proprio copione, accadrà il copione generale del tempo. È come se assistessimo ad un mutarsi della forma tradizionale della Storia in una sorta di A-storia nella quale Spazio e Tempo divengono le nuove coordinate causali.
In questo inedito scenario, l’essere in sé produce pensiero per il proprio esistere e non più per il proprio pensare.
Del resto qual è il pensiero della vita in sé, se non il suo stesso essere?
Le discipline umanistiche spiegano la logica di chi, o cosa, ha organizzato gli oggetti sul tavolo, ma soltanto lo Spazio e il Tempo spiegano il perché quel tavolo si inclini facendo scivolare tutti quegli oggetti fuori da sé.
Fin qui è come se tutta la cultura avesse ritenuto stabili i parametri universali dell’uomo e, nel contempo, li avesse recuperati da osservatore distante da essi percepiti come “osservato”.
Oggi, per l’azzerarsi della distanza tra osservatore ed osservato, a causa dell’altissima velocità degli scambi, ci rendiamo conto che va mutando la nostra percezione dell’uomo perché viene nel contempo modificata strutturalmente dal modificarsi della relazione che lo Spazio e il Tempo vivono con la Storia e con le sue narrazioni.
In tal senso, Spazio e Tempo, finora affidati dalle discipline tradizionali soltanto alla Fisica e all’Astrofisica, oggi, invadono la Storia alla quale impongono l’A-storia dell’essere e dell’Universo attraverso un nuovo rapporto di causa-effetto che si rioganizza sulla base dell’interscambiabilità dei due termini.
Roma, 11/11/2020
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