L’opera di uno dei più sensibili e attenti “maestri di pensiero” di oggi e la sua scientificità “ibrida” (come Ferrarotti ama definire la Sociologia). Una filosofia dialogica, partecipata, non privatistica che, facendo leva sulle “storie di vita”, si colloca nell’alveo delle migliori tradizioni culturali e interculturali “dal basso”,  sia sul piano economico-strutturale,  sia su quello valoriale-sovrastrutturale ed etico-politico

di Nicola Siciliani de Cumis

2019-2020, una data non qualunque
Occorre essere grati all’Editrice Marietti, a duecento anni dalla fondazione della Casa, per avere messo in catalogo (nella collana Biblioteca delle grandi opere) una cospicua raccolta di testi fondamentali di Franco Ferrarotti in sei corposi ed eleganti volumi: una raccolta ora come ora ne varietur, ma virtualmente aperta alle innumerevoli estensioni dialogiche, monologico-riflessive, bibliografiche, emerografiche ed audiovisive, che non poche generazioni di interlocutori italiani e stranieri del Maestro sociologo potrebbero attestare e/o attivare, anche mediante internet.
A partire infatti dall’attuale punto d’approdo editoriale mariettiano – con un primo volume in due tomi di Scritti teorici (2019, di pp. 878+838), con un secondo volume in altri due tomi di Ricerche (2020, di pp. 900+926) e con un terzo volume in due tomi di Scritti autobiografici (2020, di pp. 852+926) –, si potrebbe facilmente immaginare con l’aiuto degli strumenti biografici e bibliografici concernenti l’autore (a stampa o nel web, a cominciare dalle voci enciclopediche in continuo aggiornamento del tipo di Wikipedia), un ventaglio di proposte di completamento di un’opera omnia in realtà illimitatamente aperta a ridefinizioni editoriali non soltanto dell’autore, interlocutore privilegiato volente-nolente di se medesimo, ma anche degli studiosi specialisti di Ferrarotti e di quanti altri hanno variamente discorso con lui nel corso di ben oltre un settantennio. Sia in pubblico, sia in privato: ed è ciò di cui, in vario modo, è larga traccia in tutti e sei i tomi di queste Opere, in forma incidentale o parentetica ovvero in nota nel corpo degli Scritti teorici e in quelli relativi alle Ricerche; in termini schiettamente caratterizzanti il modus essendi stesso della narrazione negli Scritti autobiografici. 

   

Questo perché, nel caso di una personalità e di una scrittura multiforme come quelle di Ferrarotti, ci si trova di fronte ad una resa relazionale e comunicativa plurima, intro-estroversa, poligenetica, al limite “ibrida” come − secondo il parere dello stesso Ferrarotti − è costitutivamente ibrida la Sociologia. Che, nella prospettiva dell’autore, risulta essere un’istanza disciplinare storicamente consolidata ma riconoscente debitrice nei confronti dei “sommi generi” disciplinari di cui si alimenta: saperi teorici, storici, filosofici, economici, statistici, artistici (di tutte le arti), rigorose ricognizioni empiriche sul campo, storie di vita. A partire dalla propria vita, con l’implicita-esplicita disposizione etica di abbracciare simpateticamente le vite di tutti gli uomini viventi sul pianeta Terra. Che è kantianamente e gramscianamente il primo scopo secondo Ferrarotti, cui tendere, per dare alla vita umana un senso compiuto. Di qui, nelle Opere, l’infinito viaggiare del sociologo tra le proprie peregrine metafore che, da sempre, danno un senso auto-etero-formativo all’unicità dell’«uomo di carta» Ferrarotti “figlio” (1).


L’“uomo di carta” nel suo studio tra carte e libri

Di qui, dentro e fuori i tomi delle Opere, è possibile cogliere il continuo approdare dell’uomo Ferrarotti, nella propria irripetibile autobiografia, ai lidi delle altrui storie di vita, esse stesse parti integranti di un procedimento individuale e collettivo di coinvolgimento responsabile permanente dei soggetti coinvolti nell’esperienza editoriale partecipata già a livello familiare. Non a caso L’uomo di carta. Archeologia di un padre, fin dalla dedica dell’autore «ai miei fratelli Giovanni, Walter e Fausto, morti a pochi mesi l’uno dall’altro, vivi nel ricordo quotidiano», racconta della propria vita familiare, comunitaria, sociale. E si dispone a relazionarsi e ad interloquire con altri libri dello stesso Ferrarotti sintonizzati sulla medesima lunghezza d’onda: così, per esempio (uno tra i tanti che si potrebbero addurre in proposito), il coetaneo Conoscenza intuitiva comune - scientifica partecipata (2). Un libro di sociologia che confida i suoi “perché” e li spiega geneticamente nel loro farsi, nell’atto del loro diventare attività conoscitiva piuttosto che conoscenza certificata: non «azione» compiuta ma agenda dell’«agire». Perché Ferrarotti chiarisce immaginosamente e filosoficamente il suo punto di vista: «Prima del sapere, logicamente costruito e razionalmente trasmissibile, c’è il sapore – una sorta di pre-sapere, un muoversi al buio, a tasto, la preveggenza dubbiosa di ciò che ancora non si vede, al più si intravede, il pre-compreso si rende possibile e prepara il comprendere, in misteriosa transizione dai cosiddetti quidditativi, puramente deduttivistici, essenzialistici, ai concetti operativi, originati dall’esperienza comune e dalla vita quotidiana, il teoretico alimentato dal vissuto». Un passaggio, quest’ultimo, che fa da sintetica premessa alla materia specifica (polemica!) del libro su conoscenza, metodo, verità, ambigue connessioni internet e trucchi della rete, possibili arricchimenti informatici e reali impoverimenti del senso critico, precarietà della comunicazione e dibattibile inter-cultura, ascendenti socratici e abissi post-umani elettronici, “storia dal basso” e reinvenzione della società odierna, nodi e compiti della sociologia contemporanea, storie di vita come guida dialettica tra contesti individuali e sociali.

La storia dal basso e le storie di vita, insomma, sono in linea di principio e finiscono con l’essere in conclusione un passaggio teoretico, un obiettivo storico-critico e un risultato sociologico e pratico-operativo da incrementare e far fruttare a tutti i livelli del piano di lavoro. Uno snodo concettuale e politico-culturale, dunque formativo, che coinvolge la responsabilità dei singoli operatori e la corresponsabilità dell’utenza (virtualmente di massa). Il dialogo che si viene a stabilire tra le teorie di fondo, le ricerche di base di Ferrarotti e la numerosità potenziale dei loro destinatari non può che essere prospetticamente unitario e al tempo stesso massimamente differenziato. In tale ottica, per un bilancio provvisorio dell’operazione uni-diversificata del risultato editoriale d’insieme, si vedano in sequenza anzitutto la Prefazione apposta al primo dei due tomi delle Opere. Scritti teorici, pp. 5-8, e la serie non breve di prefazioni, premesse, introduzioni, avvertenze, note ai testi, che nei successivi momenti della metamorfosi editoriale in oggetto ricontestualizzano grado a grado l’incisività narrativa di Ferrarotti nel riproporre il corso delle sue costitutive esperienze di insaziabile lettore, scrittore, attento indagatore delle realtà naturali culturali sociali del natìo Piemonte, giovane partigiano nella Resistenza, apprezzato saggista e traduttore poliglotta, docente universitario a vario titolo, viaggiatore e ricercatore in diversi Paesi, quindi primo professore ordinario di Sociologia in Italia, parlamentare, consulente d’industria, organizzatore culturale, fondatore e direttore di riviste, collaboratore di numerosi giornali e periodici vari, fotografo, memorialista, prosatore, poeta, musicista e musicologo, comunicatore audio-tele-cine-visivo, responsabile della divisione “Facteurs sociaux” all’OECE, ora OCSE a Parigi, “directeur d’études” alla Maison des Sciences de l’Homme a Parigi, premiato Linceo alla carriera, Cavaliere di Gran Croce, ecc.



Un curriculum vitae et studiorum che viene inverato, per un verso, dalla sequenza delle esperienze culturali, interculturali ed esistenziali per così dire discendenti in senso cronologico di cui le Opere documentano via via l’incidenza bibliografica pregressa sul risultato di insieme (vedi in particolare, ancora nel primo tomo degli Scritti teorici, l’apparato degli strumenti storico-teorici, storico-teorici “forti” e pratico-funzionali agibili, che Ferrarotti mette a disposizione del lettore nel Trattato di sociologia, in Una sociologia alternativa e in Storia e storie di vita); per un altro verso, in senso cronologico ascendente, sono da tenere presenti le più recenti ricapitolazioni e riformulazioni dei propri punti di arrivo sociologici alla luce della storia dell’intera sua quotidianità di studioso e di ricognitore in una sempre nuova situazione euristica, dalle prime “ricerche di sfondo” degli anni Sessanta a Roma, Milano, Parigi e via via in Africa, America del Nord, del Centro e del Sud ecc. Un Ferrarotti sempre e comunque inteso a connotare le costanti e le varianti della Centralità del mondo periferico, nuovamente di scena nell’agile e articolato compendio così intitolato, edito da Solfanelli nel 2018. Un volume dove si trovano con le memorie delle circostanze in cui avvengono le prime, le seconde e poi le terze, le quarte e le ulteriori varianti ferrarottiane di un copernicanesimo socio-antropologico ad usum hominum. E ciò, sul presupposto di una integrazione interumana possibile attraverso il rispetto della diversità e la prefigurazione del migliore dei modelli sociali perseguibili: quello della «via del dialogo in cui ogni cultura dovrà essere se stessa, ma nello stesso tempo aprirsi alle altre culture, denunciare la boria dell’eurocentrismo e le chiusure tragiche dell’Islam radicalizzato, avviare un atteggiamento multiculturale e transculturale, in cui, a poco a poco, le persone saranno in grado di essere abitanti del villaggio e cittadini del mondo, alla luce dell’unico imperativo etico a portata universale: tutti gli esseri umani sono esseri umani e come tali vanno trattati». (3)

Sacrosante parole, straordinario modello di integrazione culturale possibile da sperimentare dal basso, pur sapendo che nessun modello d’intercultura può essere copiato, come sottolinea tra l’altro un non abbastanza ricordato Michail Michajlovič Bachtin: «Nel campo della cultura il trovarsi fuori è la leva più potente della comprensione. Una cultura straniera si rivela più pienamente e profondamente (non però in tutta la pienezza, perché sorgeranno anche altre culture, che vedranno e capiranno ancora di più) solo agli occhi di un’altra cultura. Un senso rivela le sue profondità, dopo essersi incontrato ed essere entrato in rapporto con un altro senso, straniero: fra di essi comincia una specie di dialogo, che supera la chiusura e l’unilateralità di questi sensi, di queste culture. Noi poniamo alla cultura straniera nuove domande, quali essa stessa non si poneva, cerchiamo in essa risposta a queste nostre domande, e la cultura straniera ci risponde, scoprendo davanti a noi nuovi suoi aspetti, nuove profondità di senso. Senza nostre domande (ma certo, domande serie, autentiche) non si può creativamente capire niente di altro e di straniero. In un tale incontro dialogico di due culture esse non si fondono e non si confondono, ognuna conserva la sua unità e aperta interezza, ma esse si arricchiscono reciprocamente» (4).



Un questionario di cinquemila pagine
Un criterio di curatela, quello di queste Opere, non cronologico rispetto alla loro prima data di pubblicazione, ripubblicazione e ristampa: e riproposte adesso, nuovamente rivedute, corrette e coordinate sulla base dei testi della loro ultima edizione. Un’ermeneutica logico-dialogica a parte subiecti: nel senso che l’autore utilizza le sue proprie opere parziali realizzate nel corso del tempo come “mezzi procedurali” del “fine in vista” di un’unica grande opera a stampa tendenzialmente rappresentativa della totalità culturologica ferrarottiana, ma non ancora Opera omnia. Un’ampia, dettagliata docu-narrazione della propria vita e delle proprie idee, che corrisponde contemporaneamente a più domande storico-formative; e introduce dunque ad una rappresentazione totalmente euristica, interrogativa della scienza sociologica, pluridisciplinare, esperienziata e a suo modo “sperimentale” per la relativa replicabilità dei metodi di ricerca adottati, incominciando dal più elementare degli strumenti, il questionario: dai “perché in andata” (delle domande) che generano i “perché di ritorno” (delle risposte). E insieme: una pratica didattico-divulgativa instancabile, ma pur sempre «fornita di scopo» ed enciclopedicamente etico-politica, educativa, tecnico-professionalizzante e interlocutoriamente coinvolta e coinvolgente. E dunque: un imponente intreccio delle dimensioni storico-culturali del “Sé” e dell’“Altro da sé”, nelle molteplici combinazioni disciplinari e interdisciplinari possibili di tutta una vita di incontri, polemiche, aperture e chiusure di rapporti culturali previsti e/o imprevisti, dissensi, assensi, sostenibili transazioni metodologiche.
Si vuol dire – in altri termini –, che accogliendo di buon grado la triplice distinta complementarità di “teoria sociologica”, di “pratica euristica” sur le champ e di entrambi i suddetti due piani con quello storico-autobiografico, la circostanza editoriale di cui si parla favorisce la crescita, e non di meno l’invenzione ex novo di spazi dialogici aggiunti nell’opera fin qui realizzata e del suo potenziale percettivo e partecipativo in fieri, che in Ferrarotti è asse scientifico portante. Tant’è vero che il primo volume delle Opere, cioè i due tomi degli Scritti teorici si concludono con una sezione dal titolo La conoscenza partecipata. Crisi e trasfigurazione della sociologia, nella quale campeggiano i temi fondamentali dell’autonomia del giudizio sociologico (con costante riferimento a Max Weber), della ricerca sociale come partecipazione e, dunque, delle origini filosofiche della sociologia e dei nessi tra modellistica sperimentale, storia, memoria, sociologia, letteratura, politica, autobiografia ed altro.
Essenziale infatti in Ferrarotti il presupposto filosofico di precise attinenze e congruenze storiche del suo modo di essere e di pensare rispetto alla categoria della “possibilità”. Una dimensione categoriale, che sembra essersi formata, alimentata e “naturalizzata” in lui nel suo proprio composito ma coerente retroterra storico-culturale all’incrocio di neokantismo, strumentalismo deweyano, utopismo bellamyano veicolati dall’economista Thorstein Veblen autore della celebre Teoria della classe agiata (prima traduzione italiana di Ferrarotti, Torino, Einaudi, 1949). Un retroterra storico-culturale già in precedenza dissodato dal personalissimo buon senso contadino del (quasi) autodidatta giovane Ferrarotti, sfociato poi nelle corroboranti dimensioni industriali dell’illuminata creatività e immaginosa produttività di Adriano Olivetti; e articolatosi teoreticamente e empiricamente alla luce, da un lato, dell’esistenzialismo franco-tedesco, quindi italico (torinese) di Nicola Abbagnano; e, da un altro lato, metodologicamente fortificatosi nella combinazione di varie istanze interdisciplinari provenienti dal platonismo-machiavellismo-kantismo-marxismo-simmelismo-freudismo di Max Weber.

Donde il caratteristico valore dell’ibridazione “idealtipica” delle “storie di vita” come catalizzatore di esperienze collettive, sociali, localizzate e planetarie. Questa la filigrana dell’originale costruzione sociologica ferrarottiana, al tempo stesso elementarmente umana e radicalmente privilegiata, ma non in senso acquisitivo-cumulativo, privatistico, escludente: e, se mai, orientato in senso apertamente espansivo, inclusivo, moltiplicativo, aperto a realtà delle persone deprivate, che narrandosi autobiograficamente vengono esperimentandosi non soltanto storie del “Sé” ma facendosi anche progettualmente promotrici di alternative etico-comunitarie e socio-politiche “altre”… E sarebbero qui da rileggere in proposito, come una sorta di sodalizio della pratica con la teoria, le informazioni autobiografiche fornite da Ferrarotti in funzione conoscitiva e politico-pedagogica, in Come nasce una vocazione politica, che è il secondo capitolo di Nelle fumose stanze. La stagione politica di un “cane sciolto”, in Opere. Scritti autobiografici (5). Come se gli esclusi dalla politica, nel raccontare in prima persona la loro vita di emarginati, scoprissero sulla propria pelle il vero costo dell’ignoranza e della loro stessa inappagata condizione umana da conoscere scientificamente come tale e da riformare e valorizzare secondo giustizia.
Tutte da rileggere anche, in un’analoga prospettiva prolettico-planetaria, le pagine di Ferrarotti su La possibilità che diventa storia, che concludono il saggio su Un greco in via Po, in Opere. Scritti autobiografici (6)
 Pagine, se posso esprimermi così, razionalmente commosse su uno straordinario Nicola Abbagnano «esistenzialista positivo», «genuino», ma «non compreso» dai più quando, deluso dalla «impostazione misticheggiante del cattolico Gabriel Marcel e dalla stoica concezione del “vivere per la morte” di Martin Heidegger, per Nicola Abbagnano non si apriva altra via che quella della ricerca sociale empirica concettualmente orientata» (ivi, p. 694). Una strada, quest’ultima, che avrebbe condotto al magnifico sodalizio tra Abbagnano e Ferrarotti con le note, importanti conseguenze di carattere interpersonale, scientifico, editoriale, politico-culturale, formativo, di cui i sei tomi delle Opere offrono a futura memoria larga documentazione e fertile testimonianza.

Di qui, si parva licet, l’impegno dell’attuale recensore delle Opere a dichiarare i limiti e la peculiarità del proprio punto di vista “ibrido”, che tuttora risente a distanza di quasi un sessantennio (Università degli studi “La Sapienza”, anni accademici 1963-1964 e 1964-1965) della lezione ricevuta da studente universitario dal Maestro Ferrarotti, allora recente autore del volume La sociologia come partecipazione e altri saggi (7), nonché originale interprete del Max Weber di Il metodo delle scienze storico-sociali (8). Lezione di metodo e nel merito, di cui ora chi scrive ritrova i termini di un’aperta continuità nell’originaria, costante e coerente inclinazione di Ferrarotti verso la filosofia, la storia, l’economia, l’indagine sociologica sul campo, l’autobiografia, la letteratura, le arti visive, la musica, i mass media. E nel far valere le proprie persuasioni scientifiche ed espressioni didattiche in quel suo impegnativo e gioioso richiamarsi alle scienze sociali in una chiave storico-culturale sconfinante in una accattivante aneddotica, che introduceva a progressivi approcci qualitativi e quantitativi della medesima “materia sociologica specifica”, spaziando in ambiti filosofici e letterari autobiograficamente in costruzione. Autori citati, durante le ore di lezione, nelle visite “sul campo” alla borgata Alessandrina e nelle riflessioni sui libri da studiare per l’esame di Sociologia, gli stessi autori nei quali ancora oggi ci si imbatte con maggiore frequenza nelle oltre cinquemila pagine delle Opere: Socrate, Aristotele, Platone, Max Weber, Stendhal (Henri Beyle), Cesare Pavese, Felice Balbo, Nicola Abbagnano, Thorstein Veblen ecc.

Sociologia, filosofia, politica (1921-2021)   
C’è del resto nella filigrana delle Opere di Ferrarotti nel loro insieme, come c’era nelle lezioni del docente universitario romano degli anni Sessanta, una sorta di scalpitante zoccolo duro polemico-retroattivo, culturale e politico, nei confronti del Benedetto Croce che sul Corriere della sera del 15 gennaio 1949 aveva stroncato La teoria della classe agiata (9) di Thorstein Veblen. Una stroncatura impiantata sull’idea di fondo che la cultura “scientifica”, in quanto tale, era da considerarsi inferiore a quella “umanistica”; e con la conseguenza di un particolare disprezzo verso la Sociologia, «inferma scienza». Al che Ferrarotti contrapponeva, innanzi tutto per la pars destruens, la limitatezza teoretica della posizione crociana, volutamente ignara delle filosofie emerse tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e il primo cinquantennio del Novecento, a cominciare da quella “filosofia analitica” affiorata dalle ceneri del Positivismo e fattasi storicamente valere come Neo-positivismo o Neo-empirismo logico.
Una limitatezza teoretica, quella di Croce stigmatizzata da Ferrarotti, che in realtà non era soltanto “teoretica”, “filosofica” in senso “antiscientistico”, ma era anche e soprattutto un’obiezione “anti-sociologica” e una precisa scelta politica conservatrice. Questo perché “sociologia” e “socialismo” erano per Croce due termini (e due concetti) limitrofi, che significavano linguisticamente e praticamente due dimensioni senza dubbio diverse, ma che in un modo o nell’altro rinviavano al “fantasma” socialistico e comunistico evocato dai “sociologi” Karl Marx e Friedrich Engels: e, quindi, a quel Manifesto del Partito Comunista del 1848, che tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del Novecento continuava da un secolo all’altro ad «aggirarsi per l’Europa», come «uno spettro». Di qui la dura, irrevocabile sentenza di Croce sulla Sociologia «inferma scienza».

In altra sede, per la pars construens, con alle spalle le tante pagine dell’“anti-Croce” ferrarottiano nell’edizione delle Opere, si è aggiunto ora un recentissimo, perspicuo momento di riflessione del gennaio 2021 da cui prendere utilmente le mosse per rivisitare i termini della più che settuagenaria divergenza teoretica e politica tra il vecchio Croce e il giovane Ferrarotti. Ed è ciò che consente di riproporre, per così dire “a bocce ferme”, la querelle sulla radicalità della divergenza filosofica tra Ferrarotti e Croce, nel corpo della lunga e intensa intervista rilasciata da Ferrarotti ad Agostino Bagnato, dal titolo Il PCI e la funzione sociale dell’utopia, e pubblicata in apertura al dossier commemorativo Quel che resta del sogno. Una riflessione corale per i 100 anni della nascita del PCI (10), con un’intervista inedita a Franco Ferrarotti. Altri contributi del volume: Angelo Marroni, Ricordando Gramsci; Maria Serena Veggetti, Educazione e cambiamento. Rivoluzione e antropogenesi tra crescita e sviluppo maggiorante; Claudio Crescentini, Dall’URSS a Roma. Considerazioni e note a margine del dibattito sulla “Cultura dell’abitare” del Partito Comunista Italiano; Armida Corridori, La questione femminile nel Novecento. Il ruolo del PCI; Ida Mitrano, Il PCI e gli artisti. Dal dopoguerra agli anni Sessanta; Franco Santopolo, I sommersi e i dimenticati; Agostino Bagnato, La questione agraria nella nascita e nella politica del Partito Comunista Italiano.
Orbene, non sembri un’illazione solo riduttivamente ideologica, astrattamente antistorica o inutilmente fine a se stessa: ma il Benedetto Croce “allievo” di Antonio Labriola nella “Sapienza” romana negli anni Ottanta dell’Ottocento, oppure il Croce nel 1947 tempestivo recensore e aperto ammiratore delle Lettere del carcere di Antonio Gramsci, non avrebbe potuto supporre che un giorno del 2021 si sarebbe trovato nel bel mezzo di una “riflessione corale” per il centenario della nascita del PCI. Questo perché, in nessun modo, il Croce «papa laico della cultura italiana» (secondo Gramsci), avrebbe tuttavia potuto condividere il parere del Gramsci dei Quaderni del carcere (sociologo «infermo» e scienziato non veritiero anche lui?), citato a mo’ di epigrafe del libro di cui si sta discorrendo: «Per la filosofia della praxis, l’essere non può essere disgiunto dal pensare, l’uomo dalla natura, l’attività dalla materia, il soggetto dall’oggetto; se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell’astrazione senza senso». Egualmente, molto poco Croce avrebbe potuto condividere il lungo elenco dei «principali autori consultati» da Bagnato nel suo saggio sulla “questione agraria”: una problematica che com’è risaputo, da un opposto punto d’osservazione, preoccupava il latifondista Croce, sia politicamente sia personalmente. Lo stesso Croce, che chissà come si sarebbe espresso sul contadinello, montanaro, boscaiolo Ferrarotti alleato e teorico ideale piemontese, egli stesso, sulla lunghezza d’onda dei compagni calabresi osservatori sociali (talora sociologi) “dal basso”, “sommersi” e “dimenticati”, adesso al centro dell’attenzione dell’informatissimo, coinvolto e coinvolgente contributo di Franco Santopolo.

Polemizzando da Croce a Efirov
Una polemica, quella di Ferrarotti con Croce, di cui è traccia in tutti e sei i tomi delle Opere e che evoca altre memorabili polemiche, con opposte motivazioni e con diverse modalità critiche, ma con le medesime finalità sociologico-critico-alternative. Per esempio, durante gli anni Sessanta e Settanta, opponendosi criticamente ad alcuni sociologi sovietici (materialisti storici e dialettici in odore di stalinismo e ždanovismo), in convegni internazionali di Sociologia o a tu per tu con alcuni di loro (11).

In realtà di ogni specifica situazione polemica o puramente interlocutoria, ciò che ha sempre interessato Ferrarotti non è stata tanto la contesa ideologica per se stessa, quanto piuttosto il “vero” motivo della polemica: e dunque il perché e il percome della ragione teorico-filosofica, fondativa, della “propria” Sociologia e del relativo statuto epistemologico. In questo senso c’è un rapporto di interdipendenza specifica tra il punto di arrivo della Sociologia ferrarottiana come Sociologia “critica” e “alternativa”, la proclamazione della crisi della disciplina come momento epifanico dell’esperienza umana nel suo complesso e le particolari prese di posizione polemiche con-contro Croce e/o in una successiva, assai diversa circostanza, contro-con Efirov. La pars destruens risulta essere l’interfaccia della pars construens. E l’una e l’altra indispensabili per attingere all’identità della “materia” sociologico-filosofica ferrarottiana più propria e nuova.
A proposito di “sociologia critica” e di “sociologia alternativa”, da storico-teorico e da arguto polemista, Ferrarotti ama ripetere che quando oggi si avanza l’idea che le scienze sociali, e specialmente la Sociologia, siano in crisi, non si riflette forse abbastanza sul fatto che la sociologia – non la psicologia, che può essere gratificata dalle più facili fruibilità applicative – sia in crisi fin dalla nascita, per l’appunto nell’alveo di una grande crisi storica. Ed è la crisi in quanto tale la prima ragione della sua stessa esistenza in vita e della sua identità (“critica” e “alternativa”). Se a monte o/e a valle di una determinata condizione sociale non ci fosse già una crisi (una criticità, una critica, un’autocritica) non ci sarebbe la Sociologia.
Tra la critica della ragion sociologica “pura” e la sociologia della ragione critica “impura” c’è una “storia” (una narrazione, una colloquialità dialogica, una reciprocità dialettica), che è la storia congiunta dell’impianto della Sociologia critica ferrarottiana largamente presente nei tre volumi delle Opere qui recensite e del trimestrale “La critica sociologica”, nelle successive fasi della sua vicenda dal 1967 ad oggi. Una rivista di scienze sociali nazionalmente e internazionalmente autorevole che, se ci si riflette, è stata e continua ad essere il più tempestivo dei laboratori collettivi di teoria, ricerca e autobiografia che sia venuto e venga ad affiancare dialogicamente, nel loro procedere euristico, la genesi interna, l’imprevedibile fortuna e documentazione d’insieme dei risultati monografici ora raccolti nell’Opus magnum codificato nei sei tomi delle Edizioni Marietti. Un assetto editoriale che interloquisce con il nesso di matrice biologica e di matrice culturale che s’individua nell’esperienza unitaria totale del sociologo-filosofo Franco Ferrarotti.
Ecco perché vale la pena di ribadire quel che si veniva accennando più sopra: che cioè, come il sociologo che la professa, la sua Sociologia è «scienza ibrida», «inferma» ma «vera»: solo in parte filosofica, storica, economica, solo in parte quantitativa, non più umanistica ma statistica, sul presupposto che l’una non si fonda né si confonda con l’altra. «Perché» − spiega il Professor Ferrarotti − «se fosse solo filosofica, sarebbe al più capace di una verità interiore individuale; se fosse statistica, sociale sia pure, sarebbe sociografia. Se posso esprimermi in maniera un po’ ellittica, riassuntiva, forse addirittura con una contrazione euristica, direi che la sociologia parte da un impulso filosofico problematico, interiore e personale, che ha l’ambizione di diventare una verità intersoggettiva. Parte cioè da una scoperta personale, che però attraverso la conferma quantitativa empirica, ha la tremenda presunzione di porsi come una verità per tutti. Una volta controllato il metodo, si deve arrivare a quelle conclusioni, e quelle conclusioni sono scientifiche. Perché? Perché la scienza non è altro che una procedura pubblica, non è più certezza privata. Ciò che è scientifico è posto sul mercato del sapere, perché chiunque se ne possa appropriare» (12).

Ferrarotti filosofo del “quando” e del “dove”
Servizi giornalistici, interviste di grande interesse, queste di Ferrarotti concesse ad Agostino Bagnato e a Chiara Fera, che poste accanto alle Opere pubblicate dalla Editrice Marietti e al loro posto, in prossimità delle innumerevoli conversazioni, interviste, lezioni del sociologo sulla materia in fieri dei libri di tutta una vita, risultano essere più che mai evocative di intrecci filosofici, storici, euristici, autobiografici del passato e predittive dell’avvenire. Come se lo stesso Ferrarotti “ricercatore” si esponesse a suo modo come sostrato-soggetto-oggetto (l’aristotelico tò hypokéimenon) della propria “ricerca” in una dimensione spazio-temporale “altra”. Come se quella esperienza polemica del 1949 con Croce fosse la chiave di volta dell’intero edificio filosofico costruito in seguito, fino ad oggi, da Ferrarotti: e pur ferme restando le non calcolabili acquisizioni sociologiche (teoriche, empiriche, autobiografiche) che hanno reso “scientifica” la pur “ibrida” materia specifica.
Dichiarò infatti Ferrarotti alla giornalista Fera che nel 2013 lo interrogava, toccando corde ancora dolenti: «Lei ricorda anni che mi fanno piangere di commozione, se le mie borsette lacrimali non fossero inaridite da molti anni. Però, le sembrerà paradossale, io sono pieno di gratitudine per il Croce di quel tempo, già avanti negli anni. Una specie di vegliardo che, appena uscito questo volume (The Theory of the Leisure), tradotto da uno sconosciuto, il 3 gennaio del ’49, il 15 gennaio gli lancia contro una critica demolitrice sulle colonne del “Corriere”, accusando Veblen di non capire nulla, tacciandolo della più completa ottusità nel cogliere il carattere storico dei fatti. Supponendo, Croce, che il traduttore fosse un professore di scuola media o ginnasio o insegnante di inglese sui 60 anni, se la prende un po’ anche col traduttore. Io, invece, avevo scarsamente superato i 20 anni. Quindi dovetti rispondere; e quello fu il mio ingresso ufficiale nella vita intellettuale italiana e non solo, perché poi andai in America, dove in seguito avrebbe insegnato Veblen. Devo dire che senza saperlo, io seguivo il consiglio di Stendhal, quando dice che è bene entrare in società con un duello. Io entravo in società facendo un duello col grande. Colui che Gramsci definì, incautamente, il “papa laico” della cultura italiana».
Tutto il resto, fino alla data della pubblicazione delle Opere di Ferrarotti nei tipi delle Edizioni Marietti ed oltre, considerati i nuovi libri che l’autore ha continuato e continua a pubblicare, proprio sul tema dei nessi scientifici strettissimi tra Sociologia, Filosofia, Storia (13).
Un colloquio che, come ho detto ha un precedente universitario, didattico-ricercativo, nella “Sapienza” di Roma più di sessanta anni fa, ma che è evoluto nel tempo a modo proprio, trovando nella mia esperienza di insegnante e di ricercatore non trascurabili conferme in numerose e significative circostanze professionali e di studio (nella scuola in Calabria, a Roma in diverse occasioni accademiche per presentazioni e recensioni di libri, convegni, correlazioni di tesi di laurea, mostre, anniversari su Labriola, Gramsci, Zavattini, Makarenko, Ferrarotti stesso ecc.). Tesi di laurea di cui è traccia nelle pagine di diario pubblicate negli Scritti autobiografici del Professore oppure, a mo’ di Prefazione in qualche rilevante tesi di laurea diventata libro… Così anche, più volte, per iniziativa dell’ospitalissimo editore e direttore della rivista Agostino Bagnato negli incontri conviviali annuali di redazione della rivista l’albatros e nel corso delle mie visite periodiche talora a casa, il più delle volte nello Studio di Corso Trieste. Per parlare di libri e con libri. Per discorrere di argomenti storici teorici, di ricerche in corso e di uomini e cose delle nostre rispettive autobiografie.
Recente tema di conversazione con Ferrarotti, da sei anni a questa parte, il carcere. Se i miei studenti del Laboratorio di scrittura e lettura di Siano ed io interroghiamo i sei tomi mariettiani delle Opere, esse ci rispondono certamente nei limiti delle loro esplicite intenzioni editoriali e delle relative estensioni bibliografiche. Ma mi rinviano ad altri testi, ad altri luoghi sociologici e filosofici ferrarottiani dei quali cercare il senso riandando magari a ritroso da un decennio ad un altro: e ritrovare nella mia biblioteca un libro, che riterrei forse a maggior ragione significativo in quanto rimasto fuori della raccolta dell’Editrice Marietti. Un libro del quale e con il quale ho conversato e continuo a conversare volentieri di sociologia e filosofia per le ragioni da me esposte a suo tempo in più occasioni e che qui di seguito ripropongo con piccole modifiche redazionali (14).

La filosofia di una sociologia
Vorrei dire di questo libro di Franco Ferrarotti, Il senso del luogo con pastelli, tempere e olii di Giovanni Ferrarotti (15), come di un libro di filosofia: perché anzitutto − essendosi Ferrarotti variamente occupato del “senso della sociologia”, del “senso del tempo”, del “senso della storia” e delle “storie di vita”, del “senso della comunicazione”, dell’“intercultura”, dell’“acculturazione” e dell’“inculturazione”, del “senso dell’agire educativo” ecc. − mi chiedo se non sia piuttosto del senso del senso, che egli voglia cogliere un significato filosofico sui generis (“ultimo” o “primo” che sia), delle cose della vita. Una sorta di “sesto senso” sociologico tra il qui e l’altrove, al di qua e al di là della stessa filosofia.
La sociologia generale, del resto (e quella di Ferrarotti in specie), proprio in quanto scienza epistemologicamente autonoma, storicamente consolidata, ha un DNA intrinsecamente filosofico: e il suo albero genealogico ha radici nella filosofia, nelle filosofie di ogni tempo e luogo. In questo senso, c’è un “senso del luogo sociologico”, un Genius Loci della sociologia, che anche nella prospettiva ferrarottiana si configura come apertamente, sapientemente filosofico. Fin dal principio: una sorta di “terza via”, tra sociologia e filosofia, che ha nelle dimensioni della “critica” e dello “autocritico” i suoi originali punti di forza. Come spazio infinito, ma determinato; come luogo illimitato, però individuato; come un “qui” aperto al mondo e come localizzato laboratorio d’indagine sulle cose sociali umane, sui fatti e sulle idee, sui valori e sui disvalori, sui mezzi e sui fini, che vi si riconnettono.
Una filosofia, insomma, della sociologia del luogo culturale e interculturale specifico, tra esperienza immediata del “dove” e riflessione sui “perché”, tra domande certe e risposte possibili... Sì, la mia ipotesi di lettura di Il senso del luogo è proprio questa: che non vi sia, in un modo o nell’altro, una sola pagina del libro, che non riguardi in qualche modo la “filosofia” (con e senza le virgolette). Fin nel titolo: Il senso del luogo, che “apre” ad un altrove, attraverso l’indicazione di una direzione, la prefigurazione di uno spostamento, un viaggio insomma, al di là del libro, nella sua filigrana. Negli spazi tra lo scritto e il non scritto, nelle conferme e negli scarti di rotta.
Ma in che senso? Attraverso quali possibili movimenti? Dove, quando, come, perché? E da chi e per chi? Secondo quali prospettive umane, immediatamente umane? E, per rispondere a queste domande, prenderei le mosse da quel luogo dibattutissimo tra i traduttori e gli interpreti della kantiana Kritik der reinen Vernunft (“Estetica trascendentale”, sullo “Spazio” e sul “Tempo”), che concerne il “fenomeno”, la “sensibilità”, il nesso cioè tra “senso interno” e “senso esterno”. Dunque, lo spazio temporalizzato e il tempo spazializzato. E mi ci accosto, assieme a Ferrarotti: con lui prendendo le necessarie distanze (storico-critiche, tra analogie e differenze), sia da Kant, sia dal kantismo e dal neokantismo di scuola... Weber e il “destino” della “ragione impura”, compresi... Ah la storia, quando si dice “la storia”! E la politica...
Però è proprio da qui, che sorgono alcune questioni formative, genetiche (ma sarebbe forse meglio dire “epigenetiche”, sulla traccia del vecchio Labriola): e sul presupposto che, in Ferrarotti, non è mai dell’individuo puro e semplice che si tratta, ma del sociale personificato; del sociale, in cui s’individualizza e, direi, si drammatizza un qualche individuo radicalmente interculturale, storico e politico, ibrido e ipercomplesso, tra “scienze della cultura” e “scienze della natura”, tra “struttura” e “sovrastruttura”. È così che, sulla scorta dei propri riferimenti filosofici e sociologici e, di più, in presenza di concrete circostanze e precise istanze umane, si svolge in Ferrarotti, tra polemiche e consensi, la “critica della critica” e quel suo particolare “rovesciamento” del kantismo-neokantismo: Ferguson, Saint-Simon, Comte, Marx-Engels, Spencer, Durkheim, Simmel, Weber, Pareto, Veblen; e poi: Tarde, Tawney, Sombart, Mosca, Mannheim, Gurvitch, Horkheimer...  Ma anche, sul versante storico e storiografico delle “storie di vita”, Marc Bloch, Lucien Febvre, Fernand Braudel, presentissimi più che non sembri a prima vista nella prospettiva problematico-questionaria, socio-scientifica e paradigmatico-indiziaria propria della scuola delle “Annales”. Per alcune prove iniziali convincenti di quanto qui affermato, basterebbe prendere in mano il secondo tomo del volume degli Scritti teorici e ragionare con l’autore di una serie di indicatori metodologici indiziari “annalistici” da lui stesso disseminati in tema di “critica della sociologia contemporanea”, “storia e teoria della ricerca sociale”, “storie di vita come metodo”, “empatia creatrice”, “potere”, “autorità” e “formazione umana”, “storia”, “biografia”, “privacy”, “frammento e sistema” , “conoscenza partecipata”, “filosofia e ricerca sociale” ecc.16
Vorrei dire a Ferrarotti, in altre parole, che il «senso del luogo» e i luoghi del senso, evocati dalla sua scienza sociologica rinviano comunque filosoficamente, storiograficamente e formativamente alle facoltà, plurime, del sentire e alle capacità, molteplici, del ricevere sensazioni e di produrre alterazioni sensibili nel conoscere e nell’agire umani ad opera di oggetti interni ed esterni: tra i quali sono da collocare spaziosamente in prima fila la natura, la società, il “sé” e l’“altro”, l’intera sfera individuale e sociale delle operazioni dell’approccio al reale, comprensive sia della logica e della cultura, sia degli appetiti, degli istinti, delle emozioni; la capacità di ricevere sensazioni e di reagire consapevolmente agli stimoli...

Un discorso prettamente filosofico pertanto, questo di Ferrarotti, che si ritrova tutt’intero da un tempo all’altro della sua vicenda sociologica: e che procede di filato, anche se tra “intermittenze del cuore”, nelle sue varie opere a stampa (e numerose ristampe): da La sociologia come partecipazione (1961) a Max Weber e il destino della ragione (1964), dal Trattato di sociologia (1968) a Storia e storie di vita (1981), fino ad arrivare a La perfezione del nulla (1997), ai Lineamenti di storia del pensiero sociologico (2002), a Pane e lavoro! (2004) ecc. E, ora, a Il senso del luogo. E, di questo libro, penso in particolare al capitolo dal titolo Il respiro del bosco, che non a caso sta proprio al centro del volume: un testo, del quale anche i pastelli, le tempere e gli olii di Giovanni Ferrarotti sono parte integrante (benché, o forse proprio perché la figura umana non vi compare punto)... Giacché, a farne parte, è in ogni caso l’uomo, Giovanni, che ha prodotto quei quadri, gli uomini che hanno lavorato quei campi dipinti e piantato quegli alberi oggetto di rappresentazione artistica; e, dunque, noi stessi, destinatari e fruitori di quelle opere pittoriche e del loro spazioso contesto...  
D’altra parte, il senso del luogo, nell’intreccio di senso morale e di sensibilità estetica, è secondo Ferrarotti inscindibile dalle umane capacità di giudizio e di valutazione. Di qui le naturali e nondimeno culturali attività di compartecipazione interumana, le transazioni emotive, lo scambio di competenze tra sensori e recettori, le visioni oggettivamente localizzate e le localizzazioni soggettivamente visive, tra piccoli spazi e grandi spazi…
Mi viene in mente, a questo proposito, una straordinaria parola russa, raduga, che vuol dire insieme arcobaleno e iride, oggetto e soggetto della stessa visione multicolore... Goethe, del resto (il Goethe di cui il Ferrarotti di Il senso del luogo viene a dire cose molto istruttive a proposito del suo celebre viaggio a Roma), è grande teorico della natura dei colori e dei colori della natura; e si era ben accorto, Goethe, di queste problematiche spaziali, iridescenti e arcobalenanti... E perfino il chiacchierato frammento goethista, e a dire dello stesso Goethe non goethiano, sulla natura della natura (del 1783), induce a pensare «non come uomini, bensì come natura», infonde bisogni che si collegano a un qualche movimento, stimola a ragionare dell’alterità che si dirige «verso un altro da sé», attinge ad un’evanescenza del soggetto rispetto all’oggetto, dell’autore rispetto al lettore, in un determinato «spazio» (vedi in particolare il capitolo su La realtà evanescente).

Quali e quante filosofie
Ferrarotti “filosofo”? Filosofo, direi subito, degli stessi dubbi che ingenera e che aiuta a togliere. In che senso e luogo, ancora? Ricorderei a tal proposito quella volta che Eugenio Garin, massimo storico della filosofia del secolo scorso, in polemica con l’illustre teoretico Giulio Preti, si trovò a rispondere alla difficile domanda sul che fosse da intendere per filosofia e sul chi fossero i filosofi. Facendolo nei seguenti termini: «In parte almeno si potrebbe rispondere alla difficoltà considerando “filosofia” e “filosofo” quanto, nei vari tempi, si è chiamato appunto “filosofia” e “filosofo”. Fu filosofia, volta a volta, rispondere a specifici problemi naturali, e perfezionare l’arte della disputa, o dissertare di Dio, o elaborare tecniche della saggezza. Non variarono solo i metodi, o gli oggetti; mutarono le forme complessive, il tutto della filosofia. La nota contrapposizione stabilita da Marx tra nuova filosofia e filosofia “scolastica” è caratteristica; ma, almeno in partenza, la rottura tra Atene e Gerusalemme, fra l’Accademia e la Chiesa, non fu meno radicale. E non si dica che fu condanna di ogni filosofia; perché la nuova fede polemizzando con la filosofia come anti-filosofia, si poneva in realtà come nuova filosofia nel punto in cui intendeva assumerne il posto».

Più drastica tuttavia, e immediatamente più vicina alla posizione di Ferrarotti, la soluzione di Gramsci del medesimo problema (che pure aiuta a comprendere non poco della precedente soluzione gariniana): «Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare».
Se cioè non tutti gli uomini sono attualmente filosofi, «in senso tecnico», lo sono comunque, tutti, in senso filosofico sostanziale... Tutti gli uomini, per Ferrarotti come già per Gramsci, sono e possono essere filosofi. Tutti, cioè (è questo il tipo del “socratismo” di entrambi), pensano di fatto il mondo, le loro condizioni di vita e il senso della loro esistenza e, quindi, i modi di essere e di funzionare della società. Per entrambi, non c’è vita umana che non sia un “luogo” che non abbia un “senso”. Il rendersene conto è di per sé, davvero, una pratica sociologica, in quanto è una pratica biologica, culturale e filosofica quotidiana tale da trasformare (antipedagogicamente) chi è governato in soggetto autonomo e autodeterminantesi. Padrone di sé e non eterodiretto, non passivo, non subalterno rispetto a chi governa. Agli intellettuali di professione. Agli stessi sociologi “in vendita” (che Ferrarotti, senza mezzi termini, denuncia)... In tale ottica, non si può «pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è il proprio dell’uomo come tale» (Gramsci). Nel suo tempo e nel suo spazio specifici.
Di qui allora, secondo Ferrarotti, «il senso del luogo» come senso dell’essere umano che sa orientarsi su se stesso e promuovere se stesso come luogo naturalmente e culturalmente sensibile alla natura. Alla cultura (non solo alle colture) che la natura produce e trasmette. Al “se medesimo” di ognuno, che è al tempo stesso natura e cultura. Spazialità e temporalità.
Se infatti − sottolinea Ferrarotti − «la natura guarda gli uomini mentre gli uomini la guardano», ciò accade perché «il senso del luogo» non è che lo stesso «senso dell’esistenza umana». Il cui pensiero è lo stesso che pensare il significato della relazione con l’altro, della compartecipazione dialogica come strumento plurimo di costruzione dell’io: di un io aperto e funzionalmente co-costitutivo di rapporti sociali umani, lungo l’arco di tutta la vita individuale, fin dalla primissima infanzia di qualsiasi “io” e di qualsiasi “tu”, ma anche di tutti quanti “noi”, “voi”, “loro”, prodotti e produttori di un intreccio di relazioni sociali, culturali e affettive molteplici. Multiple. Per così dire, ulteriormente ampie. Spaziosamente tempestive.
Il senso del luogo è, in tale ottica, lo stesso processo (l’accelerazione del processo) degli atti umani, in quanto tali, nel farsi delle relazioni interpersonali e delle comunicazioni sociali; e consuma per questa strada il pathos di ogni filosofia riduttivamente individualistica, qualsiasi visione atomizzata e non relazionale dell’io. Ne consegue la persuasione del valore intrinseco dei luoghi della vita vissuta e da vivere, in tutta la loro ricchezza naturale, culturale e interculturale, con tutte le loro contraddizioni, eppure trasparenti, nelle loro infinite, ulteriori potenzialità di miglioramento.
Non c’è nessuno, da questo punto di vista, che ad avviso di Ferrarotti (con buona pace dello storicismo idealistico e neoidealistico, nelle varie sue espressioni e trasformazioni) non abbia in sé medesimo tutte quelle potenzialità che lo fanno pervenire ad una scelta liberamente condivisa, ma autonoma, di ciò che è “buono”, “bello”, “giusto”, “utile”. Di qui il senso delle storie di vita come moltiplicatrici del nesso qualità-quantità: anche questo debitore, in qualche misura, del principio gramsciano che tutti gli uomini sono filosofi, che cioè «tra i filosofi professionali o “tecnici” e gli altri uomini non c’è differenza “qualitativa” ma solo “quantitativa”».
Tra la vita biologica e la vita culturale degli uomini, insomma, non può e non deve esserci soluzione di continuità. Il luogo “materiale” è un luogo “spirituale”, e viceversa.
Ciò che conta è la costruzione della capacità di progettare la propria vita nei suoi rapporti con le altre vite nell’ambito di un vissuto individuale e sociale, di un comune pensare critico-autocritico, consapevole dei processi decisionali e dei meccanismi di controllo dei governanti da parte dei governati. Per fare questo, il cittadino, potenziale filosofo, deve acquisire conoscenze e saperi e competenze utili alla comprensione e alla gestione del bene pubblico nell’interesse di tutti.
C’è difatti, nella matrice biologica e culturale, biografica ed autobiografica, di Il senso del luogo una vera e propria fenomenologia delle pluralità filosofiche, che conviene rendere esplicita... E incomincerei coll’accennare ai puntuali riferimenti di Ferrarotti a Eraclito, Socrate, Platone (al Platone del Simposio e a quello delle Leggi, in particolare); a Francis Bacon e Diderot, ai “filosofi della vita” e del “vissuto”; a Proudhon, Suart Mill, Marx-Engels, a Nietzsche, Lukács, Simmel (al Simmel della “filosofia del denaro”: il denaro, la “maledetta puttana” di Marx); in filigrana, a Dewey; e quindi a Weber, a Popper, ad Habermas, ai mentalisti-storicisti e ai filosofi-valutativi, a Sartre, a Simone Weil, a Cesare Pavese, a quell’Adriano Olivetti, ingegnere, “allievo” di un certo Heidegger, oltre che di Mounier, Maritain, Munford... alla scoppiettante «bolla speculativa della tecnologia» e alla «bolla», rumorosamente scoppiata, della «speculazione finanziaria»... E intanto − sottolinea il moralista Ferrarotti, alle pp. 21-23 di Il senso del luogo − «s’avverte l’allegra musichetta dell’orchestra che suona, imperterrita e inconsapevole, sul ponte del Titanic».

Mentre cioè su tutto e su tutti sembra oggi imporsi il «pensiero unico» (la «sola logica» dell’«imperativo tecnologico, ossia di una perfezione priva di scopo, mossi da un unico fine: la massimizzazione del profitto nel più breve tempo possibile»), il sociologo-filosofo Ferrarotti ritrova il suo proprio Genius Loci, oltre che nel mecenate Olivetti (filosofo in incognito), nel filosofo (sociologo in nuce) Nicola Abbagnano: dai “Quaderni di sociologia” alla “Critica sociologica” (in collaborazione con lo stesso Ferrarotti)...
Abbagnano che, non a caso, nella sua opera forse più celebre e adoperata, il Dizionario di filosofia, sembra quasi spianargli la strada con la collaborazione di Varrone e Agostino, di Kant e Schelling, di Pascal e Kierkegaard... Tutto un tema da esplorare, da svolgere, questo del Genius filosofico in loco, del Ferrarotti nei rapporti con Abbagnano. Un tema che, tra l’altro, induce a dire pure dell’opera di Franco Lombardi (altro filosofo creditore-debitore di Ferrarotti) e, in particolare, del saggio Discorrendo di Filosofia e di Sociologia e di altre poche cose: un intervento di Lombardi su filosofia e sociologia, nel quale proprio Ferrarotti sembra avere l’ultima parola con Talcott Parson, Edward Shill, Ralf Dahrendorf, Robert K. Merton.
Sennonché, se la filosofia del sociologo Ferrarotti si ritrova certamente, e a ragion veduta, là dov’è di «filosofia» e di «filosofi» che egli parla, la sua filosofia, la sua vera filosofia, è soprattutto nella sua opera di sociologo, là dove meno egli viene da discorrere del filosofico, in senso riduttivamente «tecnico». Se in altri termini, gramscianamente, da un lato ci sono i filosofi di professione (con le loro concezioni del mondo, le loro “esclusività”, le loro forme e i loro precipui contenuti di ricerca) e, da un altro lato, ci sono tutti gli altri uomini con le loro inespresse filosofie, con le loro idee della vita, con i loro valori e disvalori, le idee di vero e di falso, di bello e di brutto, di male e di bene, di utile e di inutile (non per fare il verso al Croce e al suo “difensore d’ufficio” Carlo Antoni, con cui Ferrarotti polemizza francamente e ferreamente): in mezzo agli uni e agli altri, c’è per l’appunto Ferrarotti, con la sua proposta compartecipativa, la sua terza via e la sua sociologia critica e autocritica, le sue prese di posizione antisociologiche, antipedagogicamente “socratiche”, direi, se il termine “socratico” non fosse di per sé inflazionato e non inducesse agli equivoci di una certa tradizione di pensiero e di azione, “individualistica” (anti-sociale e anti-sociologica), idealistica e eurocentristica, spazialmente sacrificata, da cui Ferrarotti prende fermamente le distanze...  

Genius philosophiae extra philosophiam
Ferrarotti e Socrate. Intendiamoci allora: non il Socrate concettualmente paludato, moralmente ingessato, accademico «scrio scrio» (come direbbe Labriola) e specchio deformato e deformante delle varie accademie filosofiche succedutesi nel tempo, ma il Socrate umano tra gli umani, il Socrate di Senofonte... Il Socrate che lo stesso Labriola preferisce come propria fonte biografica e autobiografica, rispetto a quella rappresentata da Platone, da Aristotele e delle tradizioni “concettualistiche” che ne derivano... Senofonte come primo esempio, diresti, di “sociologo” che costruisce per se stesso e per gli altri “storie di vita”. Un Senofonte cronista intelligente non della pura e semplice coscienza socratica (riduttivamente individuale), ma dei rapporti inter-umani (interculturali, transculturali) che la rendono possibile e la costituiscono socialmente, collettivamente. Storicamente nuova, apertamente spaziosa.
Ecco perché, in questo rapido e sapido schizzo di etica applicata, che è Il senso del luogo, il Genius Loci appare, scompare e traspare, come filosofia della sociologia, in quasi tutte le pagine del libro. E, allo stesso modo in cui ciò che è tecnicamente filosofico vi rimane quasi sempre fuori, egualmente il Genius Loci sposta altrove se stesso e i propri eventuali discorsi, filosofici o sociologici che siano. È esso stesso l’altrove, l’implicito “non qui”, il “fuori di sé” del discorso interiore in quanto tale: quella sorta di empatia creativa “altra”, che sembra essere la radice stessa della creatività, la base di un’ipotetica, ulteriormente alternativa e compartecipata teoria della creatività sociologica. E filosofica.
Ed è qui che si ritrova, con l’approccio fenomenologico allo studio dell’ambiente (alla Olivetti), l’interazione di “ambito fisico” e “identità umana”, l’interferenza del “sociale” e del “culturale”, del “linguaggio” e delle “abitudini”, e dunque l’insieme delle caratteristiche che “fanno” il “genio” di un determinato “luogo”. Di qui, su un piano diverso, ma che è lo stesso piano del “locale” e del “globale” (come oggi si usa dire, del “glocale”) la «trasversalità dell’architettura» (secondo lo stesso Olivetti). Il Genius del Genius Loci ferrarottiano.
Basta, del resto, leggere la quarta di copertina del volume, per cogliere, in sintesi, ciò che il libro analiticamente disvela: il suo Genius Loci bibliografico medesimo. E dunque:
«La crisi finanziaria si è fatta economica. Crescono i disoccupati e i cassintegrati. Chiudono le fabbriche e i ristoranti. È in crisi il commercio. Tornano i poveri». «Abbiamo da vivere in un mondo in movimento. Non c’è solo lo sbarco sulla luna. Ci sono i fortunosi, spesso tragici, sbarchi degli immigrati del Terzo e del Quarto mondo sulle sponde delle società tecnicamente progredite”. “È il capitalismo. Ha vinto la sfida col socialismo. […] Ma una grande vittoria è un grande pericolo. Resta il mistero delle origini». «All’interno della sua logica, nel quadro delle sue coordinate essenziali, il capitalismo non è possibile trascenderlo. Lo si può solo riformare dal di dentro. Ma basterà? Può solo superarsi da sé. Ma fino a che punto?». «Scrivendo della globalizzazione, ciò che più meraviglia è che sia passata sotto silenzio la sua falla più grave: la a-territorialità». «Il Genius Loci è oggi dimenticato. Il luogo ha perso l’aura, la connotazione specifica, il clima e l’atmosfera che lo definiva in maniera unica, non interscambiabile, non fungibile. […] Possiamo certamente dimenticarlo, ma il Genius Loci non ci abbandona. Io guardo il paesaggio, ma il paesaggio guarda me che lo guardo».
Singole frasi messe sapientemente assieme per la finalità editoriale specifica. Citazioni estrapolate dal testo e assemblate unitariamente per la funzionalità di una quarta di copertina. Frammenti di ragionamenti che rinviano alla compiutezza di un capitolo, all’intera fisionomia del libro. Alla planetaria, multilaterale filosofia dell’autore. Al “Dio” che è nel “dettaglio”. Che è la stessa storia di vita di ciascun uomo: un divino e al tempo stesso diabolico dettaglio, in quanto titolare insostituibile di quella capacità critica individuale, comunitaria e di massa che è costitutiva del genere umano in quanto tale, in quanto potenziale moltiplicatore di inalienabili unicità e irripetibilità, precondizioni del personalissimo, non surrogabile, inalienabile senso di responsabilità di ciascuno e di noi uomini tutti.


Il Socrate di Senofonte, secondo Ferrarotti, il filosofo per eccellenza

note
1.    Cfr. Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, in Id., Opere. Scritti autobiografici 2, op. cit., pp. 815-883).
2.    Chieti, Solfanelli, 2020.
3.     Id., Centralismo del mondo periferico, cit. (nella conclusione, a p. 99).
4.     M. M. Bachtin, Un passo a mo’ di esergo in Giovanni Mastroianni, Pensatori russi del Novecento, L’Officina Tipografica, per conto dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1993, p. 5, da ultimo citato da Luigi Spina e Daniela Steila in Laudatio memoriae. Giovanni Mastroianni e i suoi russi a cento anni dalla nascita (1921-2021), a cura di Nicola Siciliani de Cumis e Elisa Medolla, Milano, Biblion, 2021, p. 96 e p. 172).
5.     Op. cit., pp. 690-693.
6.     Op. cit., pp. 693-695.
7.     Torino, Taylor, 1961.
8.     Traduzione e introduzione di Pietro Rossi, Torino, Einaudi, 1958.
9.     Traduzione di Franco Ferrarotti, Torino, Einaudi, 1949).
10.     A cura di A. Bagnato, Roma, l’albatros, 2021, pp. 13-25.
11.     Cfr. ora F. Ferrarotti, Note polemiche sui sociologi sovietici e una testimonianza, in Id., La Sociologia inferma scienza vera scienza, Chieti, Solfanelli, 2020, pp. 133-185, con precisi riferimenti alle circostanze storiche e ai motivi culturali, socio-psicologici e politici dei critici sovietici del tempo).
12.     A questi concetti e ad altri dello stesso tenore metodologico che si potrebbero accostare alcune conversazioni di Ferrarotti con la giornalista Chiara Fera, tra l’altro su Croce, Thorstein Veblen, Cesare Pavese, sul Ferrarotti traduttore ecc., pubblicate sulla rivista del Consiglio regionale della Calabria “Calabria on web”, il 2 settembre e il 15 ottobre 201312.
13.     Cfr. per esempio Franco Ferrarotti, La Sociologia inferma scienza vera scienza, op. cit. e Id., La Sociologia tra Filosofia e Storia. Un colloquio con Nicola Siciliani de Cumis, Chieti, Solfanelli, 2021.
14.     Cfr. il mio I figli del Papuano. Cultura, culture, intercultura, interculture da Labriola a Makarenko, Gramsci, Yunus. Prefazione di Franco Ferrarotti, Milano, Unicopli, 1910, pp. 260-268).
15.     Roma, Armando, 2009.
16.     Cfr. quindi, nel tomo appena citato, in particolare, le pp. 9 sgg., 27-42 e sgg., 555-576 e sgg., 711-739 e sgg.; e, tra gli altri libri sul tema della quotidianità sociologicamente e filosoficamente significativa, cfr. F. Ferrarotti, La storia e il quotidiano, Roma, Laterza, 1986). 

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