Maggio ci sta velocemente traghettando verso l'estate con la sua esplosione di vita, mentre i telegiornali continuano a riempirci gli occhi delle distruzioni causate da ben altre esplosioni. Sono anch'io convinta però dell'ingiustizia di dare l'ostracismo a tutte le espressioni artistiche della cultura russa. Ci siamo abbeverati alle fonti del suo teatro, della sua musica; custodiamo nella memoria più lontana figure emblematiche incancellabili come l'inetto Oblomov di Goncharov, la piccante Lolita di Nabokov, l'eterno marito di Dostoevvskij e innumerevoli altre. Speriamo che questo incubo finisca, che si torni alla pace.
È giusto avere aperto il numero estivo de L'Albatros con le vicende del conflitto, ma si tira un sospiro di sollievo quando si legge il rassicurante "Ci sono!" del Presidente Mattarella, il più amato dopo Pertini. E dopo le pagine politiche, ecco arrivare per il pieno godimento intellettuale quelle letterarie, che comprendono l'inserto della Poesia a cui sono fiera di fare da battistrada con la mia breve ma per me significativa lirica "Il ritorno".
E dopo non poteva mancare l'arte, con gli affreschi del Parmigianino, le opere di Klimt nella mostra romana e quelle di artisti armeni tutte da conoscere. Ma il clou è raggiunto nelle ultime pagine, con la "ricamatrice del vento" Stefania Fienili, le sue "Sinfonie" aeree e quasi oniriche, e i colori dorati del suo "Autunno". È qui, credo, il segreto fascino che si sprigiona da quest'arte che definirei salvifica, perchè quei paesaggi ventosi, fluttuanti, macchiati di rosso e di verde ma indefiniti ci consegnano quella leggerezza che in un momento come quello che stiamo vivendo, oppressi dalla visione continua di un mondo in pericolo, è nella leggerezza che si può trovare conforto: "ché", come ci suggerisce Italo Calvino, «leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall' alto, non avere macigni sul cuore».
Auguri affettuosi e un caro pensiero
Milena Milazzo
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Ode a un albatros viaggiatore
di Pablo Neruda
Un grande albatros grigio
morì quel giorno.
Qui cadde
sulle umide sabbie.
In questo mese
opaco, in
questo giorno
di autunno argentato
e piovigginoso,
somigliante a una rete
con pesci freddi
e acqua di mare.
Qui cadde morendo
il grande uccello.
Era nella morte
come una croce scura.
Da punta a punta di ala
tre metri di piumaggio
e la testa curva
come un uncino
con gli occhi ciclonici
chiusi.
Dalla Nuova Zelanda
attraversò tutto l’oceano
fino a morire in Cile.
Perché? Perché? Che sale,
che onda, che vento
trovò nel mare?
Che cosa innalzò la sua forza
contro tutto
lo spazio?
Perché il suo potere
si testò nelle più dure
solitudini?
O fu la sua meta
la magnetica rosa
di una stella?
Nessuno
potrà saperlo, né dircelo.
L’oceano in questo
ampio sentiero
non ha isola alcuna,
e l’albatros errante
nella interplanetaria
parabola del vittorioso volo
incontrò solo giorni,
notti, acqua, solitudini,
spazio.
Egli, con le sue ali, era
l’energia,
la direzione, gli occhi
che vinsero sole e ombra:
l’uccello scivolava nel cielo
verso la più lontana
terra sconosciuta.
Uccello esteso, immobile
sembravi
volando tra i continenti
sopra mari perduti,
una sola vibrazione di ala,
un agile colpo di campana e piuma:
così cambiava appena
la tua maestà la rotta
e trionfante continuavi
fedele nell’implacabile,
deserto cammino.
Felice eri girando
appena tra l’onda e l’aria
sommergendo la punta
della tua ala nell’oceano
o sentendoti nel mezzo
della estensione marina
con le ali chiuse come una cassaforte
di segreti gioielli,
dondolato
dalle solitarie schiume
come una profezia muta
nel movimento dei salmi.
Uccello albatros, perdono,
dissi, in silenzio,
quando lo vidi disteso,
irrigidito nella sabbia,
dopo l’immensa traversata.
Eroe, gli dissi, nessuno
solleverà sopra la terra
in una piazza di paese
la tua estasiata statua,
nessuno.
Lì si sdraierà nel mezzo
dei tristi allori ufficiali
l’uomo dai baffi
con cappa e spada,
chi uccise nella guerra
la contadina,
chi con un solo
obice sanguinoso
fece a pezzi
una scuola di bambini,
chi usurpò le terre degli indios,
o il cacciatore
di colombi, lo sterminatore
de cigni neri.
Si, non aspettare,
dissi
al re del vento,
all’uccello dei mari,
non aspettare
un tumulo eretto
alla tua prodezza,
e mentre tetri cittadini
riuniti intorno alle tue spoglie
ti strappavano
una piuma, cioè,
un petalo, un messaggio
uraganato,
io mi allontanai
perché, almeno,
il tuo ricordo,
senza pietra, senza statua,
in questi versi voli
per l’ultima volta contro
la distanza
e rimanda così vicino al mare il tuo volo.
Oh, capitano oscuro,
caduto nella mia patria,
magari che le tue ali
orgogliose
continuassero a volare sopra
l’onda finale, l’onda della morte.
1956
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testo originale:
Oda a un albatros viajero
Un gran albatros gris
murió aquel día.
Aquí cayó
en las húmedas arenas.
En este mes opaco,
en este día
de otoño plateado y lloviznero,
parecido a una red
con peces fríos
y agua de mar.
Aquí cayó muriendo
el ave magna.
Era en la muerte
como una cruz negra.
De punta a punta de ala
tres metros de plumaje
y la cabeza curva
como un gancho
con los ojos ciclónicos cerrados.
Desde Nueva Zelandia
cruzó todo el océano
hasta morir en Chile.
El océano en este
ancho sendero
no tiene isla ninguna,
y el albatros errante
en la interplanetaria parábola
del victorioso vuelo
no encontró sino días,
noches, agua,
soledades, espacio.
El, con sus alas, era la energía,
la dirección, los ojos
que vencieron sol y sombra:
el ave resbalaba en el cielo
hacia la más lejana
tierra desconocida.
Pájaro extenso, inmóvil
perecías volando
entre los continentes
sobre mares perdidos,
un solo temblor de ala,
un ágil golpe de campana y pluma:
así cambiaba apenas
tu majestad el rumbo
y triunfante seguías
fiel en el implacable,
desierto derrotero.
Hermoso eras girando
apenas entre la ola y el aire,
sumergiendo la punta
de tu ala en el océano
o sentándote en medio
de la extensión marina
con las alas cerradas como un cofre
de secretas alhajas,
balanceado
Ave albatros, perdón,
dije, en silencio,
cuando lo vi extendido,
agarrotado en la arena,
después de la inmensa travesía.
Héroe, le dije, nadie
levantará sobre la tierra
en una plaza de pueblo
tu arrobadora
estatua, nadie.
Allí tendrán en medio
de los tristes laureles
oficiales al hombre de bigotes
con levita o espada,
al que mató en la guerra
a la aldeana,
al que con un solo obús sangriento
hizo polvo una escuela
de muchachas,
al que usurpó las tierras
de los indios,
o al cazador de palomas, al
exterminador de cisnes negros.
Sí, no esperes, dije,
al rey del viento
al ave de los mares,
no esperes
un túmulo erigido
a tu proeza,
y mientras
tétricos ciudadanos
congregados en torno a tus despojos
te arrancaban
una pluma, es decir,
un pétalo, un mensaje
huracanado,
yo me alejé para que
por lo menos,
tu recuerdo, sin piedra, sin estatua,
en estos versos vuele
por vez postrera contra
la distancia
y quede así cerca del mar tu vuelo.
Oh capitán oscuro,
derrotado en mi patria,
ojalá que tus alas orgullosas
sigan volando sobre
la ola final, la ola de la muerte.