Il futuro interrotto
di Milena Anna Milazzo
“Tu sei entrato in un lungo viaggio durante il quale dovrai scivolare, cadere, stancarti ed esclamare: Meglio la morte! e, così, mentire. Tra siffatti incidenti dovrai percorrere fino alla fine quest’aspro sentiero che è la vita.” Così scrive Seneca in una delle 124 Lettere Morali a Lucilio a noi pervenute, e all’amico raccomanda: “Sia l’animo preparato ad ogni evento, sappia di essere venuto dove lampeggia e tuona”: un luogo che, citando Virgilio, descrive come “il covo del pianto e dell’ansia, dove abitano le pallide malattie e la triste vecchiaia”, una visione che riflette quella di Publio Terenzio Afro, che perentoriamente definiva la vecchiaia una malattia: “Senectus ipsa est morbus”. Non gli è da meno Tolstoj, che a distanza di secoli da parte sua affermerà che “la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possano capitare all’uomo.”
Prepararsi significa dunque diventare coscienti che presto o tardi arriverà anche per noi l’ultima stazione. Se la nostra vita è stata piena, quel momento arriva di sorpresa, e quasi all’improvviso ci accorgiamo di avere fatto il nostro ingresso in quella categoria di pensiero e di vita che con un eufemismo viene definita la terza età. Da esploratori percorriamo i sentieri di questa terra incognita.
Se la mente è vigile, come sempre curiosa e partecipe della realtà là fuori, ansiosa di comprendere un mondo che è così drasticamente cambiato, è il corpo che a tappe ravvicinate mi fa prendere coscienza di una sua crescente fragilità. Lo sento sempre più estraneo, mi lancia segnali attraverso mille piccoli disturbi, dolori, punzecchiature, reclama la mia attenzione costante. Anche il sonno è cambiato, è quasi un dormiveglia, e il risveglio da lento e pigro si è fatto immediato e cancella i sogni che prima indugiavano a lungo nella memoria. Il peggio viene quando mi guardo allo specchio. Studio la tormentosa trasformazione della mia fisionomia e quasi non mi riconosco in quel viso segnato da rughe nuove e dalle borse sotto gli occhi. Se però provo a sorridere ritrovo l’espressione della serenità. Questo mi rassicura, cambia la mia prospettiva e vedo il mio viso come il risultato di tutta una vita, una superficie levigata su cui le abitudini hanno lasciato il segno e dato forma alla mimica.
In breve, ho vissuto le mie possibilità per molto tempo e ora mi rendo conto che a mia insaputa iniziano a sfumare come avvolte in una nebbia. Devo capire quali piani realizzare, trovare un modo per riequilibrare le forze che si stanno indebolendo. La parola d’ordine è forse quella che chiude la mia poesia “Io” inclusa nella raccolta “Nostos (il ritorno)”: “Io, foglie segnate dall’autunno: ma con oro e rosso. Ancora”
Caspar David Friedrich - Viandante sul mare di nebbia - 1918
Rinfrancata, cerco di nuovo ispirazione nelle mie letture. E’ ancora Seneca a darmi la chiave, che nel saggio “De brevitate vitae” afferma che il tempo e la saggezza sono correlati come il mare e il porto, simboli di stabilità. Il saggio trionfa del tempo perché pensa alla qualità della vita, non alla sua quantità. Ancora a Lucilio scrive: “Affrettati, mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita”, come dire che l’attimo ben vissuto vale un’intera vita, e che l’oggi del saggio è atemporale. Si pensa all’invito affettuoso che nel Vecchio Testamento rivolge al discepolo il profeta Siracide: “Figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene. Non privarti di un giorno felice”, parole che esprimono la tenerezza paterna di Dio o, per il non credente, l’esortazione a sentire quella gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana.
Nel nostro tempo, gli eredi di tale saggezza si trovano nei campi più disparati. La viaggiatrice e scrittrice Alexandra David-Néel, studiosa della civiltà indiana e della religione buddista, prima donna a diventare Lama, accosta le massime di Epitteto alla Bhagavad Gita quando afferma che la vera saggezza va cercata dentro di noi. Morta centenaria nel 1969, lei che, come recita l’Ecclesiaste, “ha seguito le vie del cuore e i desideri dei suoi occhi”, assomma come lascito della sua vita avventurosa questo insegnamento: “Dimorate in voi isolati, in voi rifugiati, in null’altro rifugiati.”. Più vicino a noi, il monaco e saggista Enzo Bianchi, fondatore ed ex-Priore della Comunità Monastica di Bose, nel suo libro “La vita e i giorni” insiste che il problema non è tanto di prepararsi alla morte, ma di “aggiungere vita ai giorni”. Come? mantenendo vivo il desiderio di vivere: in altre parole, la sovrabbondanza della vita è la vera promessa di eternità.
Per riprendere l’idea senechiana del viaggio, mi rivolgo a Dante. “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, recitano i versi che introducono alla prima tappa del suo viaggio. Lui aveva circa 35 anni, ma da allora il ciclo della vita è cambiato profondamente, tanto da farci spostare quel momento tra i 50 e i 60 anni. Quanto al tempo d’inizio della vecchiaia, i poeti ce lo rappresentano in modi diversi che hanno in comune il senso di una perdita irreversibile. Saffo, la poetessa che dell’amore ha cantato i risvolti più passionali equiparandolo a un impetuoso vento alpestre, a un mostro amaro e dolce che serra le membra in un intrico d’angoscia, ma la cui memoria sa isolare dal buio delle delusioni presenti i punti di luce delle gioie provate, sembra cedere alla ineluttabilità del tempo nell’accorata preghiera alla compagna: “Se mi vuoi bene, scegli una sposa più giovane. Di vivere con te non avrò cuore. Io sono troppo vecchia.” La solitudine che quella rinuncia presagisce è espressa nello struggente notturno: “E’ sparita la luna, le Pleiadi. Notte alta. L’ora del tempo varca. Io dormo sola”. Ma è nei versi della cosiddetta “Ode della vecchiaia” che Saffo ne esprime con maggiore crudezza l’ineluttabilità. Il testo lascia prima intravedere una situazione nella quale invita le ragazze al canto e alla danza, chiedendo per sé la lira per suonare e cantare dal momento che l’età ormai non le permette più di danzare e l’età la indebolisce, non solo nel fisico ma anche nell’anima. Seguono due versi che proclamano l’inevitabilità della vecchiaia per gli esseri umani: “Questo spesso piango, ma cosa potrei fare? Se sei uomo non puoi restare senza vecchiaia.”
Ancor più spietato è il giudizio che Shakespeare dà della vecchiaia quando fa dire a Juliet, impaziente di ricevere dalla nutrice ritardataria notizie di Romeo: “Se avesse le passioni e il sangue caldo dei giovani, si muoverebbe veloce come una palla: le mie parole la lancerebbero al mio dolce amore e le sue a me. Ma i vecchi, molti, sembrano già morti: sono gravi, pesanti e pallidi come il piombo.”
Nel Sonetto 2 Shakespeare fissa ai quarant’anni il tempo in cui la bellezza si dilegua: “Quando quaranta inverni ti cingeranno la fronte e scaveranno trincee nel campo della tua beltà, la fastosa livrea di gioventù, ora ammirata, sarà un luttuoso cencio di ben scarso conto.”
Ma ci sono altre perdite fatali di cui siamo eredi per nascita.
Per il Leopardi del Canto “Il passero solitario”, la “detestata soglia” porta con sé il vuoto e l’assenza di desideri e, nell’ “Ultimo canto di Saffo”, il cocente rimpianto delle “sperate palme e dilettosi errori”. Anche per Keats il pensiero della morte che si avvicina porta con sé la nostalgia di ciò che non si è ancora vissuto e il ricordo dolente di occasioni mancate, come nel famoso sonetto:
“Quando la paura mi prende di morire
Prima che la penna tutto
Il mio cervello abbia spigolato,
Prima che molti libri abbiano raccolto
Come granai pieni ciò che è ben maturato,
Quando osservo sul volto stellato della notte
I segni profondi e nuvolosi d’una grande storia,
E penso che potrebbe non toccarmi mai la gloria
Di tracciare le loro ombre con la mano magica della sorte,
Quando sento, amica bella d’un momento,
Che mai più ti guarderò né mai godrò più
Dell’incantato amore senza tormento -
Allora sulla spiaggia del gran mondo solo e pensoso resterò,
Finchè Amore e Fama naufraghino nel nulla.”
L’ immagine potente che chiude il sonetto evoca il famoso quadro di Caspar David Friedrich dove, anche se lo sfondo è il mare invece della brughiera di Hampstead, simile e altrettanto forte è il senso di solitudine e nostalgia evocato dall’immagine del viandante immobile davanti a un mare di nebbia.
Il tempo ritrovato
Poeti e filosofi sembrano fare a gara nell’indicare sentieri che ci guidino alla serenità dell’anima, alla sopportazione delle sventure e in particolar modo alla capacità di contrastare il pensiero della morte.
Per restare ai classici, è significativo che il finale della cosiddetta Ode della vecchiaia di Saffo sia stato messo in dubbio dal ritrovamento di un successivo rotolo di papiro i cui ultimi quattro versi sono in contrasto con il verso finale del precedente: “Ma io-sappiatelo- amo/ la raffinata eleganza/ e a me l’amore per il sole/ ha dato in sorte lo splendore e il bello”. Sono versi che hanno il sapore di un bilancio, dove il pensiero della vecchiaia incombente è compensato dallo splendore e dalla bellezza che caratterizzano la vita del tiaso, una vita piacevole e agiata in un ambiente nobile ed elevato che ripaga la poetessa della perdita della gioventù.
Per esorcizzare il pensiero della fine Orazio raccomanda a Leuconoe di non consultare gli oracoli ma di cogliere l’attimo, che mentre parliamo è già fuggito, mentre Catullo esorta Lesbia a vivere l’amore per non perdere nemmeno un istante di possibile felicità.
William Skakespeare offre in due dei Sonetti altrettanti esempi di modi per contrastare il passare degli anni e la perdita del fulgore giovanile. Nel sonetto 2 è lui a suggerire la risposta a chi chiede dove sia finita la bellezza della donna amata, in un dialogo dal taglio teatrale: “Questo mio bel fanciullo salderà il mio conto e scuserà in me vecchiezza”. E nel distico finale conclude: “ Sarebbe questo un farsi nuovo essendo vecchio, e veder caldo il tuo sangue quando freddo lo sentirai.” Se si prescinde dalla teoria che fa del “fair friend” l’incarnazione della bellezza neoplatonica, ambedue i protagonisti vengono immersi nel flusso ineluttabile del tempo rivissuto drammaticamente, sicchè il tempo stesso diviene un terzo personaggio con cui s’ingaggia una lotta disperata, ergendosi di volta in volta come antagonista del Poeta che fida nella durata e potenza dei suoi versi, oppure come ogni uomo, soggetto allo sfacelo della vecchiaia e della morte. E se, come nel sonetto 18, il poeta trova una consolazione nella Poesia che rende eterna l’estate della giovinezza, questa visione ambivalente troviamo rappresentata nel sonetto 73 che si ispira all’autunno e si chiude con il distico:
“Questo tu senti, e fa ciò l’amor più forte:
amare quel che dovrai lasciar tra poco.”
Salvator Dalì - La persistenza del tempo - 1931
Lo psichiatra Vittorino Andreoli, in un recente testo dal titolo “Una certa età. Per una nuova idea della vecchiaia”, parte dalla premessa che oltre al linguaggio filosofico e poetico, ci sono tanti altri modi in cui articolare il discorso della vecchiaia, da quello della biologia, della medicina (la geriatria, le malattie), della sociologia (il ruolo dei vecchi nella società), della psicologia (depressione, solitudine), della politica (età del pensionamento, assistenza). Tra tutti quello della riflessione filosofica è il più adatto a trasformare la percezione convenzionale della vecchiaia, liberandola da idee preconcette per capirne il senso e scoprirne le prospettive. Per farlo occorre superare due automatismi o stereotipi: la contrapposizione vecchio/ giovane è il primo, il secondo l’identificazione liquidatoria di vecchiaia come prossimità alla morte, corsa verso il nulla.
Significativo è anche l’aspetto linguistico del termine. La parola “vecchio” ha un uso alternativo: quando parliamo di vecchi amici, di vecchi reperti storici, di parti vecchie della città attribuiamo ai sostantivi una forma di durata come se fossero senza fine e perciò preziosi, confortanti. In inglese la parola old risale a una radice indoeuropea che significa nutrire; suggerisce quindi una cosa matura, cresciuta, simbolo di vita ricca, accumulata. Altra cosa è quando definiamo un abito vecchio, una casa vecchia, una vecchia macchina: in questo caso l’aggettivo suona come logoro, cadente, contrapposto a nuovo, efficiente. Il tempo, in altre parole, ha due facce: indebolisce, è distruttivo, ma al tempo stesso è la condizione grazie alla quale la vita continua, dura. Nello stesso modo la vecchiaia può essere pensata come incarnazione di tale durata e l’intelligenza della vita richiede l’invecchiamento esattamente come richiede la crescita durante la giovinezza.
Vediamo come nelle varie declinazioni della cultura voci e testimonianze sull’argomento siano disparate e spesso contrastanti, a partire dalla Bibbia e dai classici latini e greci. Il punto di svolta si verifica con la modernità, con la progressiva sostituzione di società dinamiche e complesse a società statiche. Viene così ripensata l’idea di longevità per intenderla come l’inizio di un’altra modalità di vita, attribuendo all’inevitabile invecchiare un andamento positivo e mettendo in atto strategie di adattamento che coltivino e rafforzino quei valori spirituali che conferiscono alla vita una consistenza metafisica, come dimostrano autori di ispirazione cattolica tra i quali Romano Guardini; oppure, in una visione laica, creino una cultura basata sull’idea dell’invecchiamento come fonte di autorealizzazione pur nella consapevolezza del limite, in un rapporto imprescindibile con la società che vada al di là di una logica puramente consumistica e conferisca alla vecchiaia senso e valore.
Secondo molti studiosi, la vecchiaia si caratterizza con un sentimento di malinconia, intesa come consapevolezza di aver compiuto un cammino parziale e non avere tempo abbastanza per proseguirlo o migliorarlo: un sentimento che vediamo espresso in poeti come i già citati Keats e Leopardi, al quale si oppone il tentativo di certuni di proporre un atteggiamento meno dolente e più costruttivo. Per citare i più grandi studiosi della psiche, mentre per Freud negli anni della vecchiaia la pulsione di morte prevale su quella della vita, di diverso parere è Carl Gustav Jung che, a 85 anni, poco prima di morire, scriveva: “Quanto più invecchio, quanto più mi colpiscono la caducità e le incertezze del nostro sapere, tanto più cerco rifugio nella semplicità dell’esperienza immediata per non perdere il contatto con le cose essenziali che improntano l’esistenza umana attraverso millenni.” E in una lettera ad Aniela Jaffé confida: “La mia voglia di vivere è un daìmon ardente che talvolta mi rende maledettamente difficile mantenere la coscienza di essere mortale.”
T.S.Eliot ha scritto: “I vecchi dovrebbero essere “esploratori”. Gli esploratori hanno il coraggio di indagare, di lasciarsi guidare dalla curiosità, per costruire nuove mappe nel territorio che stanno percorrendo. Dello stesso parere è lo psicoanalista Massimo Ammaniti che nel suo libro “La curiosità non invecchia”, pur riconoscendo che in età avanzata il baricentro delle nostre riflessioni si sposta verso il passato e la spinta vitale e l’apertura verso il domani si attenuano, afferma che nonostante ciò non è detto che non si possa guardare avanti e fare progetti.
“Questo, scrive, vale sicuramente per gli scrittori, perché con il passare degli anni l’ispirazione non viene meno, così come il desiderio di avere dei lettori a cui affidare le proprie storie o trasmettere le proprie conoscenze.”
In conclusione di questo mio excursus nel senso del tempo, propongo la poesia di Rainer Maria Rilke che porta questo titolo.
Il tempo
Bisogna, alle cose,
lasciare la propria quieta, indisturbata evoluzione
che viene dal loro interno
e che da niente può essere
forzata o accelerata.
Tutto è portare a compimento
la gestazione
e poi dare alla luce.
Bisogna avere pazienza
verso le irresolutezze del cuore
e cercare di amare le domande stesse
come stanze chiuse a chiave e come libri
che sono scritti in una lingua che proprio non sappiamo.
Si tratta di vivere ogni cosa.
Quando si vivono le domande,
forse, piano piano, si finisce,
senza accorgersene,
col vivere dentro alle risposte
celate in un giorno che non sappiamo.
L’idea di un tempo lento, paziente “verso le irresolutezze del cuore”, è l’opposto di quella che l’uomo occidentale vive oggi, in un’epoca in cui l’efficienza, la produttività sono i valori dominanti e la macchina, come scrive Umberto Galimberti nel suo saggio “I miti del nostro tempo”, è sempre di più il modello a cui deve adeguarsi l’uomo. Solo l’impegno morale, solo la vita vissuta nella comunione e nella solidarietà ci consente di sfuggire al senso del nulla e del vuoto che ci fa giungere insensibilmente alla morte. A noi è demandato il compito di lasciare fiorire nella nostra vita interiore il destino insondabile della gioia, rispettandone il tempo che è quello del presente aperto al futuro, o forse quello del tempo senza tempo.
Marco Varriale, Osservando lo scorrere del Tempo - 2022
Letture:
Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, Oscar Mondadori. La brevità della vita, BUR Rizzoli
Ruth Middleton, Alexandra David-Néel, la vita avventurosa di una donna buddista, Ed.Astrolabio
Enzo Bianchi, La vita e i giorni-Sulla vecchiaia, Il Mulino, 2018
Vittorino Andreoli. Una certa età – Per una nuova idea della vecchiaia, Solferino, 2020.
Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Serie Bianca Feltrinelli, 2009.
Massimo Ammaniti, La curiosità non invecchia, Elogio della quarta età, Mondadori 2017.