di Milena Milazzo

Il corpo questo sconosciuto. La casa in cui abitiamo e di cui mai finiamo di conoscere i segreti, la piel che habito secondo Almodovar, “corpo dato” lo definisce la psichiatria, genetico e culturale, soggetto a una trasformazione continua. La lingua tedesca ne coglie la duplice “anima” definendolo con due diversi termini: Körper, il corpo nella sua materialità, come complesso di organi (può anche significare “cadavere”) e leib, il corpo vivente e senziente, attivo e operante nel mondo e nella storia, nella sua dimensione relazionale, interattiva, partecipata, teatro dell’incontro con l’altro e la cui essenza è la fragilità.

Virginia Woolf e la dissociazione di corpo e mente
Trarrò due esempi dai saggi della grande scrittrice Virginia Woolf che ci illuminano su due diversi modi di interpretare il corpo in relazione con la mente. Il primo è un passaggio da “Three Guineas” (Le tre ghinee), un pamphlet anomalo in forma epistolare pubblicato nel giugno 1938 alla vigilia della seconda guerra mondiale: “Il modo migliore per aiutare a prevenire una guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi”.


Virginia Wolf (Londra 1882 – Rodmell, 1941)

Qui Virginia è la scrittrice tutta mente, che riflette sulla incombente vicenda della guerra partendo da una condizione di outsider, esclusa da ogni forma di processo decisionale in quanto appartenente al genere femminile. Il suo era un angolo visuale che si poteva rileggere come un vantaggio da utilizzare per rifondare un nuovo modello di azione politica. I tempi non erano ancora maturi, tanto è vero che il saggio venne visto dai suoi contemporanei come prova dell’isolamento della scrittrice dalla realtà, e le sue proposte giudicate nebulose e confinate nel regno dell’estetica. Oggi una rilettura di questo saggio porta a considerarlo “uno scritto profetico”, carico di un valore che si impone nella sua attualità.
La seconda anima di Virginia, o meglio il suo “corpo senziente” si disvela in un altro suo saggio dal taglio giornalistico, scritto nel 1940 durante la battaglia d’Inghilterra e pubblicato postumo nel 1942. Il titolo, “Pensieri di pace durante un’incursione aerea”, racconta già tutto: lei era lì, in carne e ossa, mentre le bombe distruggevano il suo mondo, quel quartiere di Bloomsbury dove il suo genio aveva trovato nutrimento. E annota, perché è una scrittrice in tutte le sue fibre e non può fare a meno di trasformare in scrittura ciò che vive:
«I tedeschi erano su questa casa la notte scorsa e quella prima. Eccoli di nuovo. È una strana esperienza stare sdraiati al buio e sentire il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerti a morte. È un rumore che interrompe il pensiero freddo e coerente della pace. Eppure è un rumore che assai più delle preghiere e degli inni dovrebbe costringerci a pensare alla pace. A meno di non riuscire a pensare alla pace, ognuno di noi, ognuna di noi – non questo corpo qui, in questo letto, bensì milioni di corpi non ancora nati – rimarremo al buio ad ascoltare questo rantolo di morte sulla testa.



Ma c’è un altro modo di combattere per la libertà – senza armi: possiamo “fabbricare” idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte in cielo a sconfiggere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle. Dobbiamo metterle in atto. Così il calabrone in cielo risveglia un altro calabrone nella mente. Tutti quelli che producono le idee, e sono in grado di attuarle, sono uomini maschi. Ecco un pensiero che affossa il pensiero, e incoraggia l’irresponsabilità. Perché allora non sprofondare la testa nel cuscino, turarsi le orecchie e abbandonare la futile attività di produrre idee? …” E ancora, più avanti: “Hitler!” esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cos’è Hitler? Aggressione, tirannia, amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi. Sulla mia testa ora il rimbombo degli aerei è come la sega sul ramo di un albero… va in tondo, e sega il ramo proprio sopra la mia casa. Cerchiamo di portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime: è il desiderio di aggressione, il desiderio di dominare e di schiavizzare».
In questo testo di breve respiro Virginia la pacifista in nuce, la femminista di là da venire fa piazza pulita di tante divagazioni sul tema del totalitarismo e dei suoi mali, compresa la guerra, con due fulminanti metafore – il calabrone e l’albero segato. Poco tempo dopo scriverà nel suo diario: “Hitler dunque sta accarezzando i suoi spinosi baffetti. L’intero mondo trema e il mio libro sarà forse come una farfalla sopra un falò consumato in meno di un secondo.” L’immagine della farfalla sopra il falò potrebbe evocare la farfalla gialla che vola al di sopra dei fili spinati disegnata dalla bimba di Terezin, citata da Liliana Segre come simbolo della forza della vita che vince al di là della distruzione del corpo, se non fosse che qui il suo significato si rovescia: la farfalla muore bruciata e con essa l’illusione della libertà del pensiero.  Mentre scriveva quell’articolo sulla guerra che stava vivendo nella sua pelle, non immaginava, Virginia, che di lì a pochi decenni sarebbe stata assunta come portabandiera del movimento femminista, che Centri culturali e persino Università le sarebbero stati intitolati; così come in quel momento non poteva immaginare che il suo corpo sarebbe stato presto sopraffatto dal terrore di quella visione il cui ricordo avrebbe oscurato la luce della sua mente, tanto da indurla ad abbandonarsi con le tasche piene di sassi alla corrente del fiume Ouse, prossimo alla casa di campagna dove si era rifugiata con il suo compagno di vita Leonard, forse nell’illusione di poter ricostruire il suo piccolo prezioso mondo di pace dove regnavano l’amicizia e la solidarietà e l’ardore del pensiero condiviso. L’ultima annotazione nel suo diario è datata 8 Marzo 1941, a pochi giorni di distanza dal gesto definitivo. Scrive tra l’altro:
«Mettiamo che io mi abboni alla biblioteca, ci vada tutti i giorni in bicicletta, a leggere libri di storia…Occuparsi è essenziale. Ed ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena… merluzzo e salsicce. Credo sia vero che scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce».
In queste righe si coglie lo sforzo sovrumano di farsi guidare dal corpo per vincere le resistenze opposte dalla mente: se lei voleva lasciarsi andare alla depressione, lui voleva continuare ad esistere osservando e usando il mondo attorno a sé, in ogni minimo dettaglio, là dove si nascondeva la vita. Aveva scritto, poche righe prima: “Voglio affondare con la bandiera spiegata”. Non ci riusci’ ma scrisse invece una lettera di addio a Leonard piena di riconoscenza e di amore e si avviò verso la sua nuova casa, il fiume iI cui nome, Ouse, per ironia della sorte, è diverso da house solo per una prima lettera mancante: ho sempre pensato che ci sia una logica in questo, forse è quel tanto di magico che si nasconde in certe circostanze della vita normale.

Il corpo delle donne e la rivendicazione della libertà
Sono stati necessari molti decenni di presa di coscienza e di lotta perché le donne, grazie soprattutto alla battaglia collettiva e travolgente del movimento femminile per la parità dei diritti, riuscissero a conquistare nei Paesi a tradizione democratica un loro spazio ai vertici delle istituzioni così come nei luoghi del lavoro, anche se le loro vittorie non ancora piene richiedono, come nel caso della parità di retribuzione, più efficaci miglioramenti e una vigilanza costante per essere garantite costituzionalmente. Vi sono però diritti che, conquistati a caro prezzo, sono sempre a rischio: il principale di questi è il diritto all’aborto, che per la donna comporta la libertà di gestire il proprio corpo.



Nonostante l’esistenza di una legge che lo sancisce nel definirne limiti e regole, è sufficiente che salga al governo un regime che si dichiari per principio o ideologia ad esso contrario per minacciarne la sopravvivenza. È ciò che sta accadendo oggi nel nostro Paese, dove la polemica è scoppiata subito dopo l’insediamento delle Camere sollevando un notevole scalpore, coinvolgendo rappresentanti della politica e della cultura.
Una voce autorevole a difesa del diritto di interruzione della gravidanza è rappresentata in Europa dalla scrittrice Annie Ernaux, premio Nobel per la Letteratura, nota in Italia per il film vincitore del leone d’oro di Venezia nel 2021 “La scelta di Anne”, tratto dal suo romanzo “L’événement” dove aveva raccontato come lei stessa si fosse trovata, giovane studentessa universitaria nella Francia del 1963, a gestire una gravidanza indesiderata. In una recente intervista a Repubblica la scrittrice esprime l’allarme per il nuovo corso in politica che mette in discussione il diritto all’aborto. “Io credo, ha dichiarato, che le donne, assieme agli uomini di buona volontà, debbano vigilare e continuare sempre ad essere garanti dei loro diritti.”


Una manifestazione degli anni '80 in Italia per il diritto all'aborto

“Questo costante attacco, dichiara ancora la scrittrice, alla possibilità delle donne di scegliere di avere figli è inaccettabile in quanto rappresenta una volontà di controllo da parte degli uomini presente fin dalla preistoria”, e auspica che il diritto all’aborto sia garantito costituzionalmente nel suo Paese, in Italia e nel resto del mondo.
Il raggiungimento della parità dei diritti di uomo e donna non è cosa scontata in Paesi a regime teocratico o come l’Afghanistan dei Talebani, dove la donna è stata esclusa dalla cultura superiore, è costretta ad indossare il burka e ad uscire solo se accompagnata da un membro della famiglia.


In Afghanistan le donne, per uscire, sono costrette ad indossare il burka

Gravi violazioni della libertà femminile si verificano anche in Paesi più progrediti come l’Iran, dove molti diritti che le donne avevano ottenuto durante il periodo monarchico sono stati aboliti o pesantemente ridotti secondo la legge islamica, e molteplici sono le discriminazioni subite in ambito lavorativo e politico. Nonostante I notevoli passi avanti sulla strada dell’emancipazione femminile ottenuti dall’azione di attiviste e sostenuti anche da uomini che sembrano intenzionati a cambiare la mentalità del Paese, negli ultimi anni il clima quotidiano di intimidazione delle donne è aumentato proprio a causa della tentata emancipazione femminile. I video in circolazione sui social media mostrano sempre più squadre filo-governative intente a far rispettare rigorosamente le leggi sull’obbligo del velo, valido a partire dai 9 anni d’età. Per chi viola la norma sono previste multe o un periodo di detenzione da 10 giorni a due mesi. Tutto ciò ha ispirato una protesta che è una vera e propria rivoluzione delle donne, la cui prima scintilla è stata innescata dal decesso dopo giorni di coma di una giovane donna, Masha Amin, avvenuto dopo essere stata picchiata a sangue da parte della polizia religiosa a causa del velo indossato in maniera scorretta.


In Iran si susseguono manifestazioni contro l'obbligo del velo

Questa vicenda che ha colpito tutto il mondo per la sua gravità ha contribuito ad allargare una consapevolezza importante anche per i Paesi come il nostro, democratici e liberi. Le donne hanno capito che non basta avere parità di diritti o che alcune arrivino ai vertici. È necessario costruire una nuova società in cui il corpo delle donne, di cui regimi come quello iraniano ha così tanta paura, sia libero. Se ci si interroga sul perché ancora oggi in Paesi come l’Afghanistan e l’Iran, sia obbligatorio coprire i capelli, la risposta più convincente è che per gli uomini i capelli sono un forte richiamo sessuale, un pregiudizio alla pari con quello che portava al delitto passionale. Dove si uccidono le donne perché vogliono essere libere di scegliere se sposare o no l’uomo imposto dalla famiglia, là si può loro imporre di coprire una parte del loro corpo che è una delle caratteristiche della femminilità e un modo di dispiegare la loro libertà.

Il corpo: fragilità, cura, solidarietà
I due eventi di portata globale che stanno caratterizzando il nostro presente, la pandemia e la guerra, sono il catalizzatore di visioni che affondano le loro radici in un tempo remoto e rimettono in luce problematiche lasciate in sospeso. Il primo in particolare, la pandemia, riguarda il concetto di corpo che si ripropone in un modo nuovo, si amplifica e si diffonde in mille rivoli. Il corpo attaccato dal virus sconosciuto viene studiato con gli approcci più diversi, dalla medicina alle scienze umane, dalla sociologia alla politica, dal pensiero filosofico al lato storico, fino a sfociare nell’ambito letterario, religioso e persino mistico.  Il corpo insomma, quel corpo che, per dirla con Fenoglio , se bombardato si smembra e annega nel sangue, viene indagato con la lente di ingrandimento; e poiché la componente fisica è inscindibile dalla psichica – quella che con valenze diverse viene chiamata anima o spirito oppure anche Sé – ecco che proprio al culmine se non al termine della ricerca su come vincere la guerra contro quel virus mortale, accanto allo sguardo puntato su questa doppia dimensione si fanno spazio dimensioni altre che ne fanno oggetto della storia, mentre implodono problemi che sembravano risolti e stavano sopiti sotto traccia, e in un fermentare di forme vecchie e nuove parole d’ordine come “cura” e “solidarietà” tornano alla ribalta.

“Cura” è stata a lungo una parola controversa, legata strettamente al materno, intesa come destino assegnato dalla natura prima che dalla tradizione. Declinata, anche in seguito alle lotte femministe, come “lavoro”, la cura è stata risucchiata dalla sfera economica, distribuita tra diverse attività e figure, nelle case come nei servizi pubblici e privati. Immessa nell’esperienza umana, è diventata una leva di trasformazione, una pratica sociale e politica. Ma c’è di più: cura è la trama su cui si regge il mondo e in cui si restituisce senso al limite e alla responsabilità, un’esperienza in cui non si può prescindere da quelle della vulnerabilità, della dipendenza, della relazione. Non posso prendermi cura dell’altro se non mi riconosco io stesso vulnerabile e non mi prendo cura di me. 

Un passo del Vangelo di Marco narra la storia del risanamento da parte di Gesù di un uomo posseduto da una “legione” di spiriti impuri. L’evento miracoloso così si conclude: “Mentre [Gesù] saliva sulla barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». Dunque Gesù esorta il guarito a tornare dai suoi, per ritessere relazioni che la malattia aveva spezzato.
Il tema della relazione diventa centrale nella lettura, a prima vista paradossale, fatta da Caterina Botti, docente di Etica e Filosofie di genere presso l’Università Sapienza di Roma, del distanziamento nella pandemia come possibile recupero di una dimensione di vicinanza, in quanto proprio questo ci ha obbligati a renderci conto che dipendiamo gli uni dagli altri e che nessuno si salva da solo. Nel testo “Vulnerabili, cura e convivenza dopo la pandemia”, afferma il principio che l’etica della cura premia la capacità umana di riconoscere e sostenere le reti di relazioni in cui ci troviamo tutti immersi. Da questo punto di vista, aver cura non è tanto fare appello ai buoni sentimenti, quanto piuttosto un modo di ricostruire il nostro senso di socialità, un concetto che l’inglese esprime con il verbo “to care”, prestare attenzione, che non sta per essere buoni, e neppure prendersi cura del proprio privato, perché, per usare una metafora, “il confine tra l’uno e l’altro è poroso”. Mantenerci porosi verso gli altri, vulnerabili, contagiosi emotivamente può rappresentare un modo per sentirci partecipi, e la fragilità diventare una caratteristica positiva dell’umano che ci permette di sentirci coinvolti nel destino altrui, di pensare alla nostra responsabilità come comunità anche in altre situazioni estreme, ad iniziare dai profughi ammassati alle frontiere e dai naufraghi bivaccati sulle navi soccorritrici in attesa di un porto sicuro.
Ed è proprio la rottura del legame comunitario che espone il corpo alle opposte possibilità di incontro con l’altro: cura e violenza, protezione e distruzione, l’umano in tutto il suo bene e in tutto il suo male. Lo dimostrano situazioni di male estremo come la tortura espletata su quegli stessi naufraghi in fuga da prigioni che avrebbero dovuto essere luoghi di transito verso una nuova patria.
Si dimentica allora che siamo un corpo, si attua una specie di disincarnazione dell’uomo moderno che ci allontana dalla visione cui san Francesco ci richiamava: la naturalità del nostro essere terra, insieme alla consapevolezza che l’esperienza corporea è costruita dalla relazione, la cui magia ultima è il contatto fisico che passa attraverso la pelle: “il più psichico dei nostri organi” la definisce lo psichiatra Vittorio Lingiardi, quell’affective touch che unisce clinici e scienziati  nella convinzione che l’esperienza corporea è costruita dalla relazione e a sua volta la determina, in un mondo che è il luogo in cui siamo ospiti.
Forse un nuovo “Cantico delle creature” è ancora possibile, e ce lo dimostra questa lirica della poetessa Mariangela Gualtieri che riporto qui in estratto come chiusa del mio breve trattato sul corpo e la sua essenziale componente, la mente.

In quest’ora della sera
da questo punto del mondo
ringraziare desidero il divino

labirinto delle cause e degli effetti
per la diversità delle creature
che compongono questo universo singolare,
ringraziare desidero

per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità
per il pane e il sale
per il mistero della rosa

che prodiga colore e non lo vede
e per il mare
che è il più vicino e il più dolce
fra tutti gli Dei,

ringraziare desidero
per i cani, per i gatti,
esseri fraterni carichi di mistero
per i fiori

e la segreta vittoria che celebrano
per il silenzio e i suoi molti doni
per il silenzio che forse è la lezione più grande
per il sole, nostro antenato.

E infine ringraziare desidero
Per la gran potenza d’antico amor
Per l’amor che move il sole e l’altre stelle.
E muove tutto in noi.


I wish... - foto Mimosa Bolatti Guzzo
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Letture:
Virginia Woolf, “Le tre ghinee”, Feltrinelli, 1992.
Virginia Woolf, “Diario di una scrittrice”, Oscar Saggi Mondadori, 1980.
Annie Ernaux, intervista a “la Repubblica”, 26 ottobre 2022.
Caterina Botti, “Vulnerabili. Cura e convivenza dopo la pandemia”, Castelvecchi, 2020.
Mariangela Gualtieri, “Bello mondo (Ringraziare desidero)”, Poesie, Live estate 2020.

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