di Carolina Lombardi

"Terra, Homo, Humus. Nell'usteros della terra come in ventre di Mater-Materia".

La sacralità della Terra (Terra/Mater) ci riporta etimologicamente al termine “humus”, da cui deriva il sostantivo “homo”, nella sua accezione collettiva e indifferenziata. Mater/Materia come simbolo del mondo contadino, tanto caro a Pasolini, con i suoi ritmi circolari, che inglobano la vita e la morte.

Ho portato un mucchio di terra custodito in un contenitore ovale.
Tutto ciò che nasce è santo, al di là del genere.

Il sacro ha sempre avuto la doppia valenza di ciò che Attrae e Spaventa, unendo in sé tutte le contraddizioni, fino alla contraddizione estrema di Vita e di Morte.
Vita e Morte sono in Pasolini estremamente connesse. Pasolini era così disperatamente vitale (dal titolo di una sua poesia: “Una disperata vitalità”) da essere in stretto contatto con la morte, “…come un gatto bruciato vivo, pestato dal copertone di un autotreno, impiccato da ragazzi a un fico, ma ancora almeno con sei delle sue sette vite, come un serpe ridotto a poltiglia di sangue, un’anguilla mezza mangiata, le guance cave sotto gli occhi abbattuti, i capelli orrendamente diradati sul cranio…”. “Divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine”.
Tutto ciò appare in contrasto con la piatta e ipocrita razionalità borghese capitalista, la desolazione dell’uomo civile che “…ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza” (Freud 1929 “Il disagio della civiltà”). Come dirà in un’intervista a proposito della figura di Medea: “Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. […] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica” (da "Il sogno del Centauro” a cura di Jean Duflot, 1994).



Vita e morte sono intese quindi in senso totalmente antiborghese, rivoluzionario. Nella poesia “Profezia/Alì dagli occhi azzurri” che fa parte della raccolta “Poesia in forma di rosa” del 1964 egli immagina l’arrivo di migranti dal nord dell’Africa, portatori di una nuova innocenza, prendendo il posto dei contadini che hanno abbandonato la terra e scrive: «…usciranno da sotto la terra per rapinare…scenderanno dall’alto del cielo per espropriare e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita, per insegnare ai borghesi la gioia della libertà, per insegnare ai cristiani la gioia della morte…».
Vita e morte inscritte quindi nell’eternità dei cicli naturali, in una dimensione sacra, ancestrale dell’esistenza. La Terra/madre nella sua profondità/usteros, è buio, ma anche momento che precede la nascita.

Pasolini mette in scena miti e riti propiziatori, come nel film “Medea” in cui l’uccisione e lo smembramento di un ragazzo si veste di selvaggia sacralità per favorire la fertilità della terra, il seme che si dissolve nel terreno per poi tramutarsi in germoglio. “Dà vita al seme e rinasci con il seme”, invoca Medea al termine del sacrificio umano. E ancora, dopo il suo arrivo nella civilizzata Corinto: «Parlami Terra, fammi sentire la tua voce. Non ricordo più la tua voce».
Terra madre è anche l’amore sacrale per la madre Susanna, a cui affida il ruolo della Madonna nel film “Il Vangelo secondo Matteo”, mentre sesso e carnalità sono rivolti verso “corpi senz’anima”, che amplificano inquietudine e senso di morte. Nella poesia: “Supplica a mia madre” della raccolta “Poesia in forma di rosa” Pasolini scrive: «[…] Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima […]. …io mi sento isolato come un condannato a morte” riporta Dacia Maraini “e infatti tra un amore in case diroccate e fetide, e un amore in un cesso, tra un amore con dolci scimmie in branco, coperte di magliette col veliero di Saint Tropez sul petto, i calzoni da duemila lire, e un amore tutto umilianti trattative di compensi, furti, odore di corpi e sessi non lavati, non mi resta che fare oggetto della mia poesia la poesia se tutto il resto è ormai sotto la sfera di una brutta morte. La carne vuole sangue».

Dacia Maraini in “Caro Pierpaolo” dirà: «il tuo rifiuto del corpo femminile non deriva da un desiderio represso, ma dal timore di compiere sacrilegio… Le morbidezze dell’altro sesso le evitavi perché rappresentavano il mondo carnale della Madre Terra».
” …Oh, un terribile timore; La lietezza esplode contro quei vetri al buio.” (Pasolini - in Timor di me? Dedicato a Maria Callas, da Trasumanar e organizzar del 1971)
“[…] Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce è un ritorno dalla morte: e chi può mai ridere - Dietro, sotto il riquadro del cielo annerito riapparizione ctonia! […]”.
E a proposito di Medea, interpretata dalla Callas: “[…] Corinto emargina in primo luogo una donna depositaria di un remoto sapere del corpo e della terra” (da "l sogno del Centauro, op.cit.).

Impastato di terriccio e materiale organico è infatti il ritratto a carboncino che Pasolini realizzerà per Maria Callas suggerendone il forte legame simbolico con la potenza della terra, la sua fierezza arcaica e ancestrale, segni di una vitalità senza compromessi.
Mater/materia è scissa in Pasolini. Entrano in gioco facce poliedriche del femminile, una sacra e conturbante, feroce e archetipica, l’altra remissiva e idealizzata o ancora quella in cui la femminilità sembra essere la prerogativa di una puttana, emblema innocente dell’umiliazione e dello sfruttamento o specchio di una dinamica consumistica in cui, per citare lo stesso Pasolini, “il corpo della donna diviene strumento e la cui disponibilità erotica favorisce i consumi neoliberisti.” A proposito della tv egli diceva: “La donna viene delegata a incarichi d’importanza minima, […] costretta a farlo in modo mostruoso, cioè con “femminilità” (intervista rilasciata a Dacia Maraini – 1972).
La terra evoca il ventre, la struggente nostalgia dell’“usteros” nella sua “profondità”. Ristoro e rifugio allo stesso tempo.
In “Caro Pierpaolo” Dacia Maraini scrive: «Mi sono chiesta se nel fondo dei tuoi desideri non ci fosse quello di ritornare nel confortante buio del ventre di tua madre per raggomitolarti, come facevi qualche volta preso dai dolori dell’ulcera, e cercare la pace del corpo. Tu giocavi quotidianamente con la morte” […]  –- Da tempo sento più forte il rimpianto del ventre materno – scrivi in Propositi di leggerezza.
[…] Non riuscivi a uscire da quel ventre, il solo luogo sicuro, quieto, sereno della tua esistenza».

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