di Armida Corridori
Il desiderio è la brama di consumare….
Per contro, l’amore è il desiderio di
Prendersi cura
E di preservare l’oggetto della propria cura.
Un impulso centrifugo, a differenza del desiderio,
che è centripeto…..L’io amante si espande
attraverso il proprio donarsi all’oggetto amato.
L’amore consiste nella sopravvivenza dell’io
attraverso l’alterità dell’io.
Zygmunt Bauman,
Amore liquido
Il 25 novembre si celebra la giornata contro la violenza sulle donne e mai come quest’anno ha fatto rumore. Sono scese in piazza in tutta Italia un milione di persone.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta ci obbliga questa volta a guardare a un aspetto nuovo della violenza. Protagonisti sono sempre più spesso giovani i cosiddetti nativi digitali.
L’aggressione di Turetta a Giulia Cecchettin è un delitto commesso da un 22enne contro una coetanea. Occorre chiedersi da dove viene il seme dell’odio che spunta dentro la generazione Zeta e dei Millenials che sempre più spesso diventano vettori di aggressione sia contro il prossimo che contro le donne.
Come è possibile che questa versione ancestrale del disprezzo per la vita abbia contagiato i più giovani nel mezzo dell’avveniristico XXI secolo?
Forse una delle risposte potrebbe venire dagli studi che indicano come nelle democrazie avanzate, la tipologia più comune di aggressione fra i giovani sia il bullismo digitale.
La possibilità di usare il web, i social network per aggredire amici e coetanei è ormai una modalità di violenza diffusa anche tra i giovanissimi che crescono nella dipendenza da immagini offensive e aggressive.
Questi strumenti consentono di esercitare il male contro chiunque dal segreto del proprio schermo nella propria camera trasformando la solitudine in un’arma spietata e creativa.
Non c’è dubbio che ad alimentare il bullismo digitale siano le aggressioni sessuali, stimolate da immagini oscene e frasi aberranti. Quanto più questa violenza diventa abituale, tanto più si cresce in un contesto suddiviso tra chi commette e chi subisce tali aggressioni.
Un elemento non secondario è la carenza di conoscenza sempre più diffusa fra chi cerca nello schermo digitale la risposta a ogni domanda. Non si dedica il tempo e concentrazione a leggere libri, guardare film, ascoltare concerti, partecipare a eventi sociali e men che meno politici.
Il pericolo più grande che deriva da questi strumenti risiede anche nel rischio di crescere e maturare nella convinzione che il tempo sia composto da frazioni istantanee, destinato a essere consumato con l’unico scopo di provare emozioni sempre più intense e drammatiche.
Vengono usati linguaggi, codici, siti Internet di cui genitori e insegnanti ignorano l’esistenza, il che permette al bullismo di diffondersi senza ostacoli.
La soluzione non può essere il rifiuto luddista della rivoluzione digitale ma ha bisogno che vengano declinate sul web con fermezza le regole dello Stato di diritto.
Per la generazione di donne che erano ragazze negli ’70 e che militavano nelle organizzazioni femminili dei partiti e in quelle femministe protagoniste di tante lotte per l’emancipazione e la libertà, assistere a tanta violenza è un trauma.
Qualcuno dovrà avere la colpa di questa strage continua,106 donne uccise solo quest’anno. La colpa è del Patriarcato? Non avevamo iniziato a distruggerlo più di 50 fa riuscendo a eliminare le leggi contro le donne e conquistarne di nuove: Il nuovo diritto di famiglia, l’interruzione volontaria della gravidanza, il divorzio, solo per citarne alcune.
Inoltre si sono aperte alle donne alcune carriere come quella nella magistratura e quella militare ma anche le classi miste a scuola. Avevamo sperato nel superamento dell’opposizione maschio/femmina, contraddire i ruoli, ridiscuterli, opporsi alla loro ossificazione, sfumare quel confine che fino a due o tre generazioni prima era stato indiscusso e implacabile.
Speravamo acquisito il fatto che non deve essere il corpo biologicamente diverso a determinare il proprio posto nel mondo, non deve essere una “condanna” inappellabile.
L’assegnazione dei ruoli è un portato storico e culturale e si può cambiare.
Nell’uccisione di Giulia si intravede però anche un elemento che non è stato evidenziato in altri casi, quello dell’Invidia che è il più meschino dei sentimenti.
L’invidia di un giovane uomo per i brillanti risultati della sua fidanzata negli studi e forse anche per la sua vitalità esuberante che lui guardava da spettatore-controllore senza condividerla.
Giulia e il fidanzato Filippo, divenuto il suo omicida
Invidia, una parola che non appartiene al vocabolario affettivo dei drammi amorosi come la gelosia e l’infedeltà ma a quello della competizione e delle performance diventate le leggi sacre della società attuale.
La scienza ci dice che non c’è una predisposizione biologica alla violenza se non in un ambiente percepito come pericoloso. Scegliere di attaccare o fuggire non è attribuibile all’assetto genetico quanto al contesto ambientale/culturale.
L’attacco degli uomini alle donne è lo stravolgimento compiuto a livello culturale di un bisogno primordiale, la difesa appunto che legittima l’aggressione maschile come risposta a una donna che mette a rischio il suo ordine.
Questo schema si è affermato negli ultimi diecimila anni dell’evoluzione umana dopo il passaggio dall’essere cacciatori erranti all’invenzione della agricoltura e di conseguenza alla vita in comunità sedentarie.
Addomesticando gli animali l’homo sapiens comprese come il coito risultasse fondamentale per la riproduzione e quindi i maschi della comunità che avevano il compito di procacciare le risorse, si resero conto che controllando sessualmente le femmine potevano limitare il numero dei figli da sfamare.
Da questo momento in poi l’uomo ha cominciato a esercitare una forma di dominanza sessuale sulla donna tramandata e rafforzata poi dalle religioni, dalla medicina, dalla filosofia.
Una sorta di regola comunitaria non scritta ma accettata e tollerata. Va da sé che questa dominanza è andata degenerando in forme di controllo anche violento che per millenni ha avvelenato la convivenza civile.
Gli uomini che odiano, maltrattano e uccidono le donne sono quelli che pensano che la donna sia afflitta da una minorità ontologica, morale e cognitiva che la consegna a non essere altro che un oggetto passivo nelle mani dell’uomo.
Gli studi ci dicono che più una società è strutturata gerarchicamente e con le donne in posizione subordinata, più si manifesta la violenza maschile; al contrario, se crescono i diritti delle donne- lavoro, autonomia, uguaglianza- si abbassa la conflittualità di genere.
La violenza si scatena infatti quando si sgretola la certezza del potere acquisito, quando i ruoli un tempo rigidamente definiti a favore dell’uomo si indebolisce.
Chi ha perduto posizioni si rende conto di aver perso i vantaggi insiti nel potere ma anche il ruolo identitario, l’immagine sociale, il senso del proprio stare al mondo.
Oggi si sta vivendo un momento marcato da questi fenomeni, ovvero un maschilismo obsoleto cerca di fare i conti in modo feroce con donne che non stanno più alle sue regole.
Non consola il fatto che la tragedia infinita dei femminicidi non è un problema solo italiano, anzi il nostro paese non è in cima alle classifiche europee. È al quarto posto dopo Spagna, Svezia e Grecia.
Le leggi italiane sono tra le più avanzate nel contesto europeo, in particolare la legge n.69 del 2019, il Codice Rosso che velocizza l’avvio del procedimento penale e quello a protezione della vittima.
La legge n.134 del 2021 per l’efficienza del processo penale ed estende le tutele per le vittime di violenza domestica e di genere. La legge n.53 del 2022 potenzia la raccolta di dati statistici, rafforza e migliora il coordinamento di tutti i soggetti coinvolti.
La legge n. 122 che introduce l’obbligo per il PM di assumere informazioni da chi ha denunciato entro tre giorni dall’iscrizione della materia di reato. Questa in sintesi è stata fino ad oggi l’attività legislativa svolta dal Parlamento.
Tutto questo non basta. Resta tanto da fare intanto riguardo l’informazione, la sensibilizzazione ma necessaria rimane la maturazione di un processo culturale che cambi lo sguardo sulle donne.
I SOCIAL
Una domanda: nella lotta contro la violenza sulle donne, i social, la Rete sono nemici o possono diventare alleati?
Rispondere è difficile ma chiederselo è necessario dal momento che ormai si vive anche online. La Rete è uno strumento che può essere usato a fin di bene ma anche per fare del male.
Da un lato c’è divulgazione, condivisione di informazioni e risorse utili come le app che aiutano le vittime; dall’altro cyberstalking che permettono ai violenti di spiare le partner e revenge porn, cioè la diffusione non consensuale di materiale intimo.
Le vittime in Italia sono 2milioni e il 70% è donna. Un altro punto fermo: i social polarizzano, è nelle loro natura perché gli algoritmi prediligono gli scontri in quanto economicamente più redditizi per i gestori della Rete.
Su questi aspetti illuminante è lo studio di Lilia Giugni “La rete non ci salverà” Longanesi, 2023 sull’intreccio tra capitalismo digitale e patriarcato, dimostrando che la rivoluzione digitale è sessista e come tracciare una roadmap di resistenza.
Chi la pensa in un certo modo tende a chiudersi in bolle social autoreferenziali. Ad esempio i versi delle canzoni pop che mercificano il corpo femminile sono considerate normali e le ragazze romanticizzano la possessività.
Sulle piattaforme spopolano anche slogan semplificatori e strumentalizzazioni con le battaglie più serie ridotte a treding topic o merci da monetizzare. Ci sono però messaggi che grazie ai social viaggiano veloci e sembrano più forti di ogni semplificazione.
“Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”, ha scritto Elena sorella della 22enne uccisa. Parole che riecheggiano i versi dell’attivista peruviana Cristina Torre Càceres: “Mamma, non piangere le mie ceneri (…..) Mamma, distruggi tutto”, si legge nella sua poesia del 2017 oggi diventata virale.
Un invito a smantellare le strutture di potere reali che nutrono la violenza.
L’unico vero antidoto alla violenza è la libertà :” Le donne devono poter essere libere di essere libere” sono le parole del Presidente Mattarella. Dobbiamo tornare a chiederla a gran voce come negli anni’70.
“Donna, vita, libertà, gridano le studentesse e gli studenti in Iran. È un tempo questo per tornare a gridare senza esitazioni Viva la libertà, con tutti i rischi che questo comporta.
Se vogliamo difendere le donne dalla violenza dobbiamo tornare dove le abbiamo lasciate, in quello che allora chiamavamo percorso di emancipazione. Lì dove sono diventate più vulnerabili, perché la metamorfosi non era conclusa e perché intorno c’erano troppi nemici.
Una sola donna libera è un problema e può essere ricattabile ma tante donne libere diventano la normalità, una condizione. Le leggi servono ma non è riempiendo le carceri che cambiano davvero le cose.
Le cose cambiano lì dove c’è partecipazione, dove si diventa un movimento una democrazia. A maggior ragione in Italia con questo governo di destra in cui è tornata in auge la retorica conservatrice sulla famiglia poi non dà soldi per gli asili nido, alza l’IVA sui pannolini e i prodotti per l’infanzia.
SCUOLA-EDUCAZIONE
Il dibattito che si è acceso dopo la morte di Giulia Cecchettin ha portato alla proposta di introdurre a scuola l’educazione sentimentale. Un’ora a settimana di educazione alle relazioni nelle scuole superiori.
Va ricordato che da tempo l’Oms parla di educazione sentimentale e sessuale:” Il suo scopo è quello di fornire informazioni corrette, competenze e valori positivi allo scopo di comprendere la propria sessualità e goderne, intrattenere relazioni sicure e gratificanti, comportandosi responsabilmente rispetto a salute e benessere sessuale proprio e altrui”.
Gli specialisti sono scettici sull’efficacia di questo provvedimento, lo considerano un’idea sbrigativa per liquidare un tema complesso. Intanto perché occorrerebbe iniziare dall’infanzia, l’età cruciale per la coscienza affettiva.
Ai bambini si deve subito far capire quanto è bello stare al mondo e prendersi cura dell’altro. Con loro è più immediato, lo si fa attraverso il gioco e la condivisione degli spazi comuni.
Gli esseri umani sono animali narranti e narrati, da sempre le cose si capiscono raccontandole. Da qui l’importanza del linguaggio da usare con i bambini e quello dei libri di testo. La scelta delle “giuste parole” è il primo strumento per cambiare narrazione e quindi cultura.
Ma fondamentale è il dialogo che deve iniziare in famiglia e quale modello i genitori come coppia propongono ai figli. In Francia l’educazione all’affettività inizia dalla primissima infanzia e non può che essere così.
Il ritardo italiano sul tema è dovuto a un pudore perverso, temere che parlare delle cose le faccia succedere. Invece è esattamente il contrario; pensarsi, nominare e riconoscere le emozioni, discutere le cause della violenza di genere sino ai suoi esiti più infausti concorrono a prevenirla.
Perché dove puoi metterci la testa non ti servono le mani.
In seno alla famiglia, i padri sono chiamati a esercitare con maggiore consapevolezza e decisione il loro ruolo educativo. Non si può dimenticare però che nella società italiana le madri esercitano un ruolo centrale nel perpetuare sia nei confronti dei figli maschi che delle figlie, modelli basati su dominanza da un lato e sottomissione dall’altro.
È davvero impressionante la leggerezza con cui gli adulti abdicano al loro dovere di dare ai giovani un’educazione sessuale sentimentale. L’abbandono educativo è particolarmente grave perché gli adolescenti oggi vivono in una società fortemente sessualizzata in cui il sesso è esibito e gli stimoli sessuali numerosi.
La pornografia, accessibile in rete, rischia di essere il principale veicolo di diseducazione sessuale e sentimentale, soprattutto per i maschi.
La pornografia insegna agli adolescenti a fare sesso-ossessivo, impersonale, violento- non certo a fare l’amore con una persona umana, su un piano di rispetto e di condivisione.
Un bambino e un adolescente che non fanno sufficiente esperienza di rapporti reali e di socialità positiva con i coetanei non possono svilupparla, Bisogna tenere a mente che nel nostro cervello le connessioni che non si esercitano non si formano o vanno perdute per sempre.
Un compito educativo decisivo è quello di formare a una “cittadinanza intima”, cioè al diritto alla parità tra uomini e donne e all’autonomia sessuale della persona, libera da ogni coercizione o sfruttamento.
L’OMS sottolinea anche l’importanza del pensiero critico, strumento indispensabile per affrontare le sfide poste a livello personale dall’autonomia e dal consenso nelle negoziazioni tra partner.
Anche questa competenza è da sviluppare, ancora di più nella adolescenza quando la maturazione cognitiva la rende possibile mentre il conformismo al gruppo, tipico di questo periodo, opera invece in senso contrario.
Il programma del governo prevede trenta ore nelle scuole superiori per l’educazione all’affettività ma resta fuori dal curriculum nel pomeriggio. È un progetto al ribasso e confuso nelle modalità d’attuazione. Gli psicologi chiedono invece che si cominci fin dalla prima infanzia e che si allarghi lo sguardo a tutte le tematiche connesse all’affettività.
L’Italia resta uno dei pochissimi Paesi europei in cui l’educazione all’affettività non è inserita nel curriculum. Ciò che si è fatto finora è stato a discrezione dei dirigenti scolastici nell’ambito dell’autonomia di ogni scuola.
E pensare che di educazione sessuale si parla da più di un secolo. Il primo atto parlamentare è del 1902 in cui si discute se introdurre corsi di “igiene sessuale” per la prevenzione delle malattie veneree.
In Svezia è dal 1942 che è stata introdotta la nuova materia, in Italia il primo disegno di legge che intende l’educazione sessuale non soltanto in termini di igiene e salute ma anche di benessere, è datato 1976 a firma Giorgio Bini, parlamentare del P.C.I.
Nel 1980 se n’è occupata anche Tina Anselmi. Poi di proposta in proposta l’approvazione di una legge si è spostata in avanti fino ad oggi. Si impone quindi la necessità di educare attivamente le competenze cognitive, emotive e sociali di cui parla l’OMS, in una concezione unitaria che coniughi sesso e affetto.
Questi dovrebbero essere gli obiettivi alla base di ogni progetto, altrimenti la sessualità adolescenziale rischia di non essere pienamente umana con un costo assai elevato in termini di sofferenza per i singoli e per la società.
Rispetto al passato, oggi abbaiamo il vantaggio di disporre delle conoscenze necessarie per perseguire in modo sistematico l’obiettivo di superare la violenza e costruire un futuro di relazioni paritarie più evolute per le donne e gli uomini.
Di fatto, questo cammino non termina mai, perché dobbiamo sempre fare i conti con le nostre zavorre biologiche e con le molte influenze culturali negative.
Occorre il continuo contributo di tutti e di ciascuno affinché i rapporti tra uomini e donne, tra le due metà del cielo, possano realisticamente essere vissuti in modo migliore.