di Lucrezia Rubini
Il libro di Agostino Bagnato, “A un passo dal buio”, per i tipi de l’albatros, è un romanzo straordinario, che si legge tutto d’un fiato, estremamente coinvolgente, captante. Oltre a trascinarci nelle vicende del protagonista, Ludovico, che si definisce editore – ma che scopriremo essere anche un giornalista, musicofilo, appassionato d’arte, poliglotta e viaggiatore infaticabile – l’originale pubblicazione ha una funzione di straordinaria utilità, riguardo al tema del tumore, in questo caso specificamente alla prostata, da cui è affetto il protagonista del romanzo, che è anche esperienza vissuta dall’autore stesso.
Il racconto, infatti, è fortemente autobiografico: possiamo individuare, nei personaggi che ruotano intorno al protagonista, i familiari e gli amici di Agostino Bagnato – alcuni di noi sono stati anche nominati – così come le sue esperienze personali, i viaggi, l’attività associativa de l’albatros e di promozione della rivista omonima, di cui è presidente.
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Sono già stati pubblicati libri in cui i malati di cancro hanno descritto la loro esperienza, anche con dovizia di particolari; in alcune cliniche vi sono persino progetti di narrativa terapeutica, ma la specificità del tumore alla prostata, da cui è affetto il protagonista-autore, oltre ad essere invalidante, è umiliante, poiché coinvolge anche la sfera sessuale.
Ludovico ci accompagna, passo dopo passo, nelle esperienze terapeutiche, visite e analisi a cui viene sottoposto, descrivendole senza mai fare vittimismo, senza enfasi, in una maniera assolutamente obiettiva e veritiera, aprendo così una luce impietosa su questo argomento, anche per i costi altissimi che deve affrontare: due parcelle che cita, sono rispettivamente di 300 e 500 euro; questo ci fa riflettere sulla condizione di chi non ha mezzi economici per affrontare questa malattia, visto il disservizio della sanità pubblica, che non rende praticabili le cure con una tempistica adeguata.
Dunque il racconto ci trasmette messaggi utilissimi, e di grande attualità.
Il primo è che quando la vita ci travolge con esperienze così difficili, la cultura può salvarci, così come Ludovico si è salvato, nutrendosi di musica classica, di letteratura, di poesia, di arte figurativa e di viaggi, reali o immaginari: in tutte queste aree l’autore fa digressioni da esperto, eppure avvicinandoci a quei brani in modo coinvolgente, dimostrandone tutta la bellezza. Per i viaggi è evidente che quelli descritti sono stati vissuti dall’autore stesso, che li fa rivivere al protagonista Ludovico, nel tempo concitato della sua malattia: da Praga a Istanbul, da Madrid a Toledo e Barcellona, fino a Gerusalemme; questo forse è l’aspetto più romanzesco, che può fa passare Ludovico per una persona piuttosto irresponsabile ed esaltata, ma esprime invece, una reazione comune in queste circostanze, che attiva una “fame di vita”, da consumare nel poco tempo che si ha a disposizione. Altri viaggi, poi, vengono rivissuti da Ludovico nei ricordi e negli incubi, ricorrenti, che attanagliano le sue notti sempre angosciate, sempre in preda al panico e al corpo madido di sudore, sempre conclusi con un urlo. Gli incubi, ma anche le fantasie, talvolta le allucinazioni, ci coinvolgono in un caleidoscopio che attiva i meccanismi della sospensione temporanea dell’incredulità, e mescola illusionisticamente dimensioni reali e inventate, creando limiti fragilissimi, in cui ogni capacità di discernimento mentale e sensoriale è annullata: noi siamo Ludovico.
Altro elemento salvifico, che emerge nel romanzo, è l’amicizia: le amiche e gli amici con cui Ludovico si rapporta, che incontra – con cui condivide la convivialità nel bere ottimo vino, nel fare una passeggiata o un viaggio – lo aiutano, poiché lo comprendono, partecipando alla sua condizione con affetto sincero, senza commiserarlo.
La capacità di saper godere dei piaceri della vita, di saper gustare e apprezzare con attenzione ogni cosa bella che la natura e tutto quanto ci circonda può ancora offrire; saper vedere la bellezza anche attraverso il filtro delle malattie, personali ed endemiche, e delle guerre: tutto questo ci insegna questo libro.
Un filo rosso che attraversa tutto il racconto è proprio la mancanza di commiserazione, sia da parte dei familiari e dei conoscenti, sia, e soprattutto, da parte dei medici. Questi ultimi sono generalmente ben poco empatici, sono professionali, tecnici, non illudono Ludovico sulle possibilità di guarigione della malattia, che tuttavia si può curare, mentre gli intimano di darsi da fare, di vivere, di “non cadere in depressione”, poiché egli ha tutti gli strumenti per poter agire e difendersi – e in tal senso si riferiscono proprio agli strumenti culturali. Questo ordine, dato dai medici, “non cadere in depressione” è interessante notare che viene intimato, perché considerato il risultato di un atto di volontà, frutto di un impegno perseverante e attento.
Altro messaggio importantissimo, che l’autore ci offre, è che questa malattia è curabile, sì, ma con le medicine della scienza odierna, e neanche con l’omeopatia. Con le sue capacità di studio, Ludovico si informa, indaga nella storia della medicina e risale in particolare ad Avicenna, vissuto nel medioevo, interprete del passaggio all’anno Mille, medico, ma anche filosofo, matematico, fisico, biologo, infine persiano e nutrito della preziosissima cultura araba antica. Il protagonista riporta Avicenna alla nostra attenzione, lo rivaluta – perché trascurato dalla storia – si procura casualmente una preziosa edizione del 1593 del “Canone della medicina” e fa all’antico autore un’intervista immaginaria, per metterne in evidenza soprattutto la saggezza e la utile visione olistica, piuttosto che un contributo progressivo per la medicina. Il protagonista ha fiducia nella medicina moderna e nelle sue possibilità terapeutiche, per quanto eventualmente invasive; infatti, pur tra intuizioni felici, gli antichi non avevano poi gli strumenti e le tecnologie per poterle attuare: questa sembra essere la conclusione a cui giunge Ludovico, dopo l’incontro con Avicenna.
Il medico-filosofo Avicenna in una interessante miniatura
Riguardo all’atteggiamento del protagonista, vediamo che ha una visione pienamente laica e dimostra una grande apertura mentale ed empatica verso il mondo, quando dice: “sono felice quando gli altri sono felici”; su questo punto è molto interessante come egli metta a nudo le proprie fragilità, riconoscendo che tutto il suo pensiero razionale e positivistico in questo momento non gli serve: ora ha paura, è preoccupato e ansioso, manifestando questo stato d’animo, per esempio quando fa domande insistenti e intempestive ai medici che lo tengono in cura.
In definitiva, a mio modo di vedere, pur nella laicità del pensiero del protagonista, il messaggio ultimo è un messaggio di speranza, in cui io leggo un quid del pensiero cristiano: ovvero, poiché egli ha poi la capacità – trovata, ancora, nella cultura – di affrontare la sua malattia in modo fermamente coraggioso, questo gli dà la forza della speranza, malgrado le paure, le ansie, la fragilità. Questa forza risiede, in definitiva, nel fatto che Ludovico riconosce innanzi tutto con sé stesso questa precarietà, e tale riconoscimento gli permette di gestirla.
La forza salvifica della cultura, contro gli strali della malattia, non risiede in una maschera, né in un rifugio di compiacimento evasivo, né in uno scudo difensivo, ma in una forza metamorfica, in grado di trasformare il grumo materico della malattia, in altro, nella capacità di vedere la realtà con una nuova profondità, con lenti diverse, messe a fuoco dagli strumenti derivanti dalla musica, dall’arte, dalla letteratura che, proprio andando oltre la realtà, ci permettono di penetrarla, riconoscerla, apprezzarla ed infine affrontarla meglio.
Potremmo dire che tutto il patrimonio esperienziale accumulato dal protagonista, culturale e umano, trova nella malattia un fulcro centripeto e centrifugo, che porta all’implosione della malattia stessa. Centripeto: perché i ricordi, il già vissuto si concentrano e addensano nell’esperienza che Ludovico vive al momento, acquistando un colore affettivo forte; centrifugo: perché il protagonista espande il suo pensiero in una visione più ampia e ultrareale, da condividere, ancora, democraticamente e affettivamente, non solo con familiari e amici, ma con l’universo tutto, anche tramite questo stesso racconto.
La condizione personale di Ludovico si inserisce, infine, in quella universale della pandemia e delle guerre attuali – sui due fronti ucraino e palestinese – riguardo alle quali egli esprime, senza mezzi termini, la sua opinione e prende posizione anche in modo coraggioso, talvolta; le vicende di cronaca si intrecciano alle storie quotidiane e personali, infondendo al ritmo narrativo un ductus incalzante, diatico, tra microcosmo e macrocosmo, a ricordarci la piccolezza del singolo uomo, che si dibatte nell’altra piccolezza dell’umanità tutta.