Corrado Barberis, Ennio Calabria, Claudio Crescentini, Franco Ferrarotti, Andrea Margheri, Lucio Saviani ricordano il magistero culturale del grande maestro e intellettuale scomparso
di Agostino Bagnato
Botteghe Oscure, accompagnato da Andrea Margheri, dirigente del partito e direttore della rivista Il Ponte. E’ la primavera del 1997. Al Umberto Eco entra nel portone della Direzione PDS, in via secondo piano li attende Massimo D’Alema, segretario del Partito Democratico della Sinistra per essere intervistato da Umberto Eco. E’ una sorpresa questa veste pressoché inedita dello scrittore. Molti si domandano come sia nata l’iniziativa. A distanza di tanti anni, lo ricorda lo stesso Andrea Margheri, quando gli rammento l’episodio.
«Tutto nasce a Gargonza, nel corso del seminario sul rapporto società politica partiti. Massimo D’Alema sosteneva, in quella occasione, che la separazione tra politica e partiti è molto meno netta di quanto si vuol far apparire, perché i partiti, nonostante limiti e difetti, esprimono la realtà più di quanto si vuol far credere. Umberto Eco ed il fotografo Oliviero Toscani polemizzarono su questo aspetto della discussione ed io ho replicato come direttore dalle pagine della rivista Il Ponte. Ho così proposto allo scrittore di incontrare Massimo D’Alema proprio per affrontare, in maniera più distesa e approfondita, il tema in questione. E’ nata così l’intervista che ha avuto una vasta eco, in quanto affrontava, anticipandoli, temi che nei prossimi anni sarebbero diventati determinanti per la trasformazione della scena politica italiana».
Andrea Margheri ricorda questo episodio della sua vita di dirigente politico, giornalista e uomo di cultura con grande nitidezza, consapevole di avere contribuito a rendere ancora più pregnante il rapporto di Umberto Eco semiologo, scrittore, filosofo e divulgatore culturale, con la politica. Rapporto condotto alla maniera propria, senza schemi e logiche di appartenenza, sbrigliato da costrizioni ideologiche o culturali riconducibili a una qualsivoglia sovrastruttura. Da uomo libero da vincoli, Umberto Eco si comportava di conseguenza e guadava alla politica con l’interesse e la curiosità e anche la responsabilità del «cives» moderno e del «magister» e «faber» allo stesso tempo più che del «maître à penser» d’illuministica ascendenza.
Ora che il grande intellettuale non c’è più, scomparso a Milano lo scorso 19 febbraio all’età di 84 anni, tutti s’interrogano sull’importanza della sua figura nella cultura italiana del Novecento e di questo inizio di Millennio. La sua figura giganteggia all’orizzonte, non c’è dubbio, nelle tante discipline che ha saputo affrontare, con cui si è cimentato ed ha dominato da par suo. Chi non ricorda la sua attenzione per il fenomeno televisivo e di costume legato alla figura di Mike Bongiorno ed allo studio che vi ha dedicato, trasformato quasi subito dopo nel saggio Opera aperta su cui si sono formate generazioni di studenti divenuti poi insegnanti, docenti, professionisti, artisti e di uomini di cultura. E chi non rievoca con emozione e commozione il suo testo ancora più significativo per lo sviluppo del pensiero analitico sulla comunicazione di massa, intitolato Apocalittici e integrati?
E’ vero, Umberto Eco esorcizzava l’enorme successo del suo prima romanzo Il nome della rosa, apparso nel 1980, divenuto autentico fenomeno mondiale di trionfo librario, da cui è stato tratto un film diventato altrettanto fenomeno cinematografico e commerciale. Temeva che in futuro si sarebbe parlato prevalentemente di quel libro, trascurando o sottovalutando la sua vastissima opera di saggista, filosofo, osservatore dei costumi, semiologo. Ed in effetti una conferma mi viene parlando con Corrado Barberis, sociologo, docente universitario, presidente dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, storico di economia agraria e studioso delle tradizioni e dei costumi alimentari degli italiani e degli europei. Inizia citando Diogene Laerzio: «De mortuis nil nisi bene». E prosegue con voce netta e sicura: «Detto questo, non posso dimenticare tuttavia che Il nome della rosa, a parte la vicenda avventurosa sullo sfondo del Medioevo, è una silloge di un qualunque trattato di storia della filosofia ad uso della terza liceo, condotta con grande perizia. Ciò naturalmente aumenta la mia ammirazione per le doti comunicative dello scrittore che ha saputo così bene utilizzare ai fini narrativi la filosofia medievale e farne un autentico successo mondiale. Per il resto non saprei che dire». In queste parole dello studioso si compendia il timore dello stesso Eco di essere ricordato prevalentemente per il successo planetario del suo primo romanzo, con il rischio che la sua più vasta opera di filosofo, ricercatore e docente universitario sia posta in ombra.
Ma non è così. Lo dimostra la vastissima eco e l’emozione profonda dettate dalla sua scomparsa. Appena appresa la notizia i mezzi di comunicazione di massa di tutto il mondo hanno diffuso la notizia. La figura di Umberto Eco è stata collocata nella giusta dimensione. Quasi nulla è stato trascurato in così poco tempo, segno evidente che l’opera del maestro è ben presente all’attenzione delle istituzioni, degli studiosi e degli uomini di cultura in generale, oltre che del vasto pubblico a livello mondiale.
In effetti, il filosofo Lucio Saviani rende omaggio all’attività più vasta e generale del maestro con parole illuminanti che offrono un quadro completo della sua importanza. «Cultura e filosofia non si possono separare e né l’una né l’altra possono prescindere dall’opera e dal pensiero di Umberto Eco. Il suo orizzonte esplorativo è stato vastissimo. E’ stato il primo a scrivere di fumetti e fare fumetti, a cominciare dalla fondazione di Linus. Proverbiale il suo saggio su Mike Bongiorno, a dimostrazione che non esistevano barriere per i suoi interessi culturali. Allievo e poi assistente di Luigi Pareyson, viveva il rapporto con la realtà con grande curiosità, riuscendo a entrare in contatto con i fenomeni sociali senza rinunciare al rigore scientifico per di privilegiare la comunicazione del proprio pensiero. La cultura italiana dovrà fare i conti con l’eredità di Umberto Eco, perché è stato uno sperimentatore di grande vigore, dotato di una energia sorprendente. E anche la cultura europea e quella mondiale dovranno fare i conti con l’eredità del suo pensiero. Egli è una figura mondiale nel panorama della cultura generale del Novecento.
Ho recentemente tradotto un saggio dall’inglese che Umberto Eco ha scritto in occasione dei settanta anni di Gianni Vattimo. Ricordo che alla scuola di Pareyson si erano formati insieme, mentre hanno affrontato insieme a Furio Colombo e Andrea Barbato il rapporto con la Rai per i programmi culturali, fin dalle origini, partecipando al concorso nel lontanissimo 1954. Questo è un aspetto non sufficientemente conosciuto della sua intensa vita. Da sempre, in Umberto Eco mi ha colpito la capacità di coniugare la filosofia con l’immaginazione, considerandola un atto di meraviglia, come sostiene Aristotele. Tutto questo è ancora più straordinario se si pensa che la meraviglia, lo stupore si manifestano in una società dove tutto è disvelato, mostrato, esaltato».
C’è un lato del percorso analitico di Umberto Eco che non sempre viene messo in evidenza ed è il contributo che egli ha portato alla definizione di una estetica nell’arte che sappia fare i conti con il presente. Ennio Calabria, pittore insegne e divulgatore di nuove teorie fenomenologiche, ricorda di avere avuto dei rapporti con il semiologo al tempo in cui l’artista era consigliere della Biennale d’Arte di Venezia. «La sua opera è se stesso. Egli è l’ibridazione della varie discipline, riuscendo a fare di ogni cosa un fatto a sé. Per fare un esempio, voglio ricorrere al mio mestiere di pittore. Eco ha compreso che l’arte è la cosa in sé e non in quanto ci sono altre cose che le girano attorno, come la critica d’arte, l’attività espositiva, il mercato. La cosa in sé restituisce contenuti all’essere, lo fa divenire l’elemento dominante. Le trasformazioni nella società e nella cultura sono iniziate a partire dal pensiero debole che Eco, probabilmente senza rendersene conto del tutto, ha iniziato con Apocalittici e integrati e con Opera aperta. Egli ha aperto un nuovo fronte della conoscenza, da questo punto di vista. Per questo è un testimone del Novecento. La sua figura giganteggia proprio per questa straordinaria capacità di frantumare il presente, di aggredire i monoliti del pensiero e delle convenzioni, facendo di tutto un potente gioco sperimentale. Cos’è la sua presenza nel Gruppo 63 se non lo slancio provocatorio contro l’esistente e l’estetica dominante?»
Claudio Crescentini, storico dell’arte e dirigente del MACRO, Museo di Arte Contemporanea di Roma, è categorico nel giudizio sulla sua figura: «Umberto Eco è uno di quelli che ha capito che la cultura deve essere per tutti. Sia che scriveva di semiotica che della teologia di S. Tommaso, di filosofia, di Medioevo o di comunicazione di massa, il suo messaggio è alla portata di tutti anche perché il linguaggio è espressamente comunicativo. Per fare un esempio, al quale ricorre chiunque voglia parlare di Eco, con il romanzo Il nome della rosa ha fatto un grande affresco gotico del Medioevo e della teologia di S. Tommaso. Anche coloro che sono digiuni di studi storici e filosofici capiscono di cosa si sta trattando. E questo non è da poco, per chi intende la cultura come fatto di massa e non cibo per glia angeli. Ha studiato la numerologia sui testi di Athanasius Kircher, con riferimento al pensiero e all’organizzazione dei Gesuiti. Ma probabilmente il contributo più importante all’arte contemporanea e all’estetica lo ha dato con lo studio dei fumetti. Bisogna riconoscere che grazie al suo impulso e alle considerazioni critiche, il fumetto è diventato opera d’arte. Ha scoperto Hugo Pratt, autore di Corto Maltese ed ha contribuito a fare entrare gli autori di fumetti nei musei di arte contemporanea. Egli considera il museo non soltanto una sede di conservazione, magari meno statica possibile, ma un laboratorio in continua evoluzione, strettamente legato alla produzione artistica ed ai linguaggi più avanzati. Grazie a lui molte opere d’arte hanno svelato inedite significanze estetiche».
Parlo per ultimo con Franco Ferrarotti, sociologo, scrittore, professore emerito alla “Sapienza” Università di Roma, uno degli intellettuali più prestigiosi a livello mondiale, per conoscere l’opinione di un uomo che ha attraversato la cultura del Novecento nel senso più pieno del termine e che è in grado di offrire un giudizio del tutto sereno, fatto di competenza e di interesse culturali. «Ho avuto modo di incontrarlo in quattro occasioni importanti, alle quali sto riandando con la memoria proprio in queste tristi ore. L’Italia perde un gigante della cultura e per la sua importanza, mi permetto di dire che meriterebbe di essere sepolto all’interno del Pantheon, perché è un simbolo del Paese. Anche se resto convinto che la cultura non può essere divertimento, riconosco che Umberto Eco come giocoliere delle idee, sapiente regista della mescolanza dei generi e degli stili, alchimista dei temi e delle epoche, scriveva cose molto importanti che resteranno come esempio di diffusione del sapere, oltre che strumento per nuove indagini. Ma voglio sottolineare un aspetto particolare della sua vastissima attività: il posto che Umberto Eco ha nella difesa del libro. La sua era una vera e propria religione del libro, in quanto intendeva il libro come un misterioso scrigno che garantisce l’anima individuale e la coscienza collettiva. Non si tratta della bottiglia di Michel de Montaigne gettata nell’oceano che qualcuno prima o poi troverà, ma di qualcosa che accompagna l’uomo costantemente, perché fa parte di sé, del proprio vivere quotidiano. Voglio esprimere la mia più profonda ammirazione per questo suo impegno e lodarne la coerenza durata una vita intera. A dispetto di tutte le teorie applicate all’informatica sulla sua diffusione con strumenti elettronici, bisogna tenere conto che il libro stampato lo si può tenere con sé in ogni luogo, lo si può portare a passeggio e porre sotto il cuscino quando si va a dormire. Il libro è sangue del nostro sangue. E’ vero che anche un ebook contiene la parola, ma si tratta di una trasmissione fredda, lontana, immateriale, la cui durata nel tempo non si conosce ancora. Al contrario, il libro stampato attraversa i secoli».
La folla che si accalca al Castello Sforzesco di Milano per le esequie di Umberto Eco, nell’umido pomeriggio del 23 febbraio, prima ancora delle autorità e dei rappresentanti della cultura nelle sue differenti espressioni, è la testimonianza più eloquente del legame che lo scrittore aveva con il pubblico vasto di lettori e di semplici osservatori. E’ un tributo spontaneo ad un uomo che ha saputo fare della propria professione un maglio contro le convenzioni immutabili e le ipocrisie della convenienza.
Sfogliare i giornali, visitare i differenti siti on line, interrogare coloro che hanno conosciuto Eco e ne hanno seguito il magistero culturale, ci si rende conto del suo immenso lascito. Ci vorranno anni per catalogare, analizzare, sistemare le sue carte. A cominciare dalle collaborazioni giornalistiche e dalle sue apparizioni televisive. Il suo ultimo volume che sta per arrivare nelle librerie nei prossimi giorni, dal dantesco titolo emblematico Pape Satàn Aleppe, edito dalla nuova casa editrice La Nave di Teseo, sarà una prima occasione di verifica. Una lunga conversazione con Eugenio Scalfari, trasmessa on line dal quotidiano “la Repubblica”, fornisce intanto una prima dimensione della novità degli argomenti trattati in questa opera lungamente meditata, strettamente legata alla collaborazione giornalista con il settimanale “l’Espresso”.
Una riflessione sull’Italia di oggi e il suo futuro. Idealmente, un ritorno a quella intervista a Massimo D’Alema del 1998. La conferma della sua straordinaria bulimia culturale e umana.
Roma, 23 febbraio 2016