di Agostino Bagnato

Gioacchino Cacciotti stava accovacciato davanti la tenda del servizio d’ordine alla Festa Nazionale dell’Unità alla stadio Flaminio di Roma. Era l’inizio di settembre 1972 e tutti i dirigenti e i militanti comunisti romani erano stati mobilitati per garantire il normale svolgimento della manifestazione. Gioacchino era sindaco di Carpineto Romano. Aveva la responsabilità di un settore dello stadio ed esercitava il suo compito con grande equilibrio e fermezza. Parlava con tono pacato, sicuro di sé. Ogni cancello di accesso allo stadio era presidiato e di tanto in tanto qualcuno del gruppo centrale, di cui faceva parte Cacciotti, veniva mandato a controllare che tutto procedesse regolarmente. La tensione era presente tra i presenti, a causa di possibili incursioni squadristiche. La responsabilità era percepita da tutti come un dovere da esercitare. Nelle interminabili ore di attesa, prima e dopo le manifestazioni politiche e gli spettacoli, si parlava di tante cose, mentre i ristoranti, le librerie e gli stand pullulavano di visitatori. Il popolo comunista e non affollava tutte le sere i viali attorno allo stadio nella calda estate romana.

Gioacchino parlava di politica con la semplicità con cui affrontava temi riguardanti la storia della sua città, arroccata sul versante romano dei Monti Lepini, tra selve di ulivi e boschi di castagno e carpino, regno di tortore, pernici, istrici, funghi porcini e galletti. Era orgoglioso del paradiso naturalistico da cui proveniva. Ma fare politica per lui significava affrontare problemi concreti: mobilità interurbana, strade, trasporti locali, acquedotti, fognature, viabilità rurale. Come ridurre l’isolamento atavico di un comune montano era l’imperativo di sempre.

Da sindaco si proponeva di valorizzare quei monti che da Segni e da Montelanico si alzavano fino alla vetta della Semprevisa dopo la spianata di Carpineto dominata dal castello Aldobrandini. C’erano i tesori d’arte da custodire, come il S. Francesco di Caravaggio, da restituire alla chiesa di S. Pietro e altri dipinti, compreso la collezione Pecci. A Roma lo ascoltavano con attenzione, magari stupiti di non sentire citazioni di Hegel, Marx, Lenin, Gramsci. Se lo aspettavano da uno studente di scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”. E invece, ecco un esempio palpabile di un modo nuovo di fare politica, come si diceva allora: andare sul concreto, con la gente, toccare con mano le cose, fare vivere i problemi quotidiani come tasselli di un mosaico più grande che si regge se la parete e la malta su cui si stende sono solide, salde, sicure. La concretezza al potere, si potrebbe parafrasare, allora come ancora oggi! Questa naturale vocazione al realismo Gioacchino non l’ha mai smarrita. E’ rimasta come un radar sempre acceso sulla politica militante e istituzionale.

Quando ha messo piede nell’aula di Giulio Cesare in Campidoglio, nel luglio 1975, nella seduta d’insediamento della seconda legislatura regionale, nessuno si è sorpreso. Quel giovane sindaco di uno sperduto comune della Campagna romana era approdato nel posto giusto per portare la sua esperienza amministrativa, il proprio entusiasmo politico e la speranza nel domani. «Les landemains que chantent…» La musica di Arthur Honegger risuonava nelle orecchie. Tutti ci abbiamo creduto, in quel momento! «Le communisme, jeunesse du monde!» E Gioacchino vi aveva creduto con una motivazione aggiuntiva, quella della terra aspra e sfruttata da secoli di feudalesimo agrario che si era tradotto nell’enfiteusi e nella colonia migliorataria. Non a caso il pontefice Leone XIII, al secolo Gioacchino Pecci, originario di Carpineto romano, era l’autore della celebre enciclica Rerum Novarum nel 1891 che dettava i principi della dottrina sociale della Chiesa e che aveva originato le Casse rurali, le cooperative agricole tra i piccoli proprietari, le associazioni dei lavoratori cattolici che avrebbero partecipato alla nascita del sindacato nel 1906 e che nel 1950 avrebbero portato alla costituzione della CISL.

Da sindaco Cacciotti aveva sostenuto le rivendicazioni degli olivicoltori e dei pastori per affrancare il canone colonico, così come rivendicava da consigliere regionale la revisione dei confini tra le province di Roma e Latina in quella parte dei Lepini dove la secolare promiscuità dei diritti di pascolo e di legnatico tra le comunità di Carpineto e di Sezze era stata risolta temporaneamente a favore di quest’ultimo comune. E questo stato di fatto era oggetto di contrasto tra Gioacchino e Mario Berti, ex sindaco setino e autorevole consigliere regionale comunista. Tra i due c’era una profonda stima reciproca, ma prevaleva la sottile ironia di chi voleva averla vinta…

Anche le castagne e i funghi erano oggetto di divertita diatriba tra i due: Berti prometteva delizie culinarie da Baffitto, un locale sperduto nella campagna; Gioacchino replicava con orgoglio l’ospitalità carpinetana per tutti, una volta superati i tornanti di Montelanico, ma niente cestini e canestri di prodotti lepini recapitati a Roma. Il tempo delle regalie a domicilio era finito per sempre! Aveva ragione, perché a modo suo, praticava una sorta di marketing territoriale ante litteram.  

Venne poi il momento della responsabilità diretta nel governo regionale. Nel 1980 Gioacchino Cacciotti è stato eletto assessore al lavoro e al personale, nella giunta di sinistra presieduta da Giulio Santarelli. Compito ingrato, in tempo di pansindacalismo e di sacralità del verbo sindacale. Concepire la struttura regionale in termini di efficienza e di democrazia è stata una impresa titanica, dopo anni di demagogia unanimistica e di concertazione sociale molto spesso a senso unico. Ma Gioacchino è riuscito a portare a casa un risultato prezioso, basato sul consenso maggioritario e sulla scelta di responsabilità. Un’altra dura prova, in quegli anni di tempesta provocata dal terrorismo, ha trovato Cacciotti pronto a dare risposte ferme. Era il tempo dello scandalo della P2 in cui la Regione Lazio si è trovata coinvolta con quattro dirigenti e un assessore iscritti alla loggia massonica segreta di Licio Gelli. La discussione sulle misure da adottare è stata sofferta, ma alla fine si decise di sospendere dagli incarichi i dirigenti infedeli. Così com’è stata equilibrata e basata sulla competenza la gestione delle risorse finanziarie per le cooperative giovanili, oggetto di scandali in altre Regioni e l’approccio alle vertenze sindacali per la crisi industriale che aveva colpito il Lazio meridionale con il ridimensionamento e la successiva soppressione della Cassa per il Mezzogiorno.

Terminata l’esperienza di governo, Cacciotti ha proseguito il suo impegno politico sul territorio nelle varie strutture di servizio, accompagnando le trasformazioni politiche che, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno investito la sinistra italiana e l’organizzazione della rappresentanza popolare non più garantita dai partiti storici. E si è dedicato al consolidamento del rapporto tra la sua città e gli emigranti carpinetani, collaborando con il Comitato costituito nella sua città. Si era recato fino in Australia, in qualità di membro della Consulta regionale per l’emigrazione, appositamente costituita per ristabilire relazioni con le comunità degli emigranti laziali. Questa vocazione di Gioacchino risaliva a quando era sindaco, essendosi recato in Canada per incontrare i carpinetani emigrati nel corso dei decenni.  Era orgoglioso di assolvere tale impegno che considerava un compito di civiltà e di amore per la propria terra. Ma era anche la lezione della solidarietà che nasceva dalla formazione comunista nell’età giovanile. Subito dopo il sisma del Belice nel 1968, si era recato a Gibellina in compagnia di un gruppo di studenti universitari per portare soccorso alle popolazioni terremotate. E lo stesso ha fatto in Irpinia, molti anni dopo, da assessore regionale: la Regione Lazio decise d’impegnare tutti i suoi amministratori nelle operazioni di soccorso e ricostruzione nella martoriata terra campana. Una freddissima sera di gennaio 1981, due mesi dopo la tragedia, portarono la loro solidarietà Ettore Scola e Nanny Loy, visitando i campo base della Regione Lazio. Con il regista delle Quattro giornate di Napoli, Gioacchino aveva stretto un fraterno rapporto di amicizia sui banchi del Consiglio Regionale. Mi manda Picone, l’altro film di Loy allora molto noto, era oggetto di divertita parodia da parte di Cacciotti, apprezzata dal regista per la spontaneità e la naturalezza.  

Non si è mai tirato indietro quel giovane sindaco divenuto assessore regionale e uomo delle istituzioni. Quando è nata l’Associazione degli ex consiglieri della Regione, ancora una volta ha messo generosamente a disposizione la sua esperienza e la pazienza di ascoltare, suggerire, consigliare. Lo aveva fatto da segretario del gruppo comunista, lo ha fatto da tesoriere dell’Associazione. Tutto ciò, nonostante problemi personali rilevanti che hanno caratterizzato la sua esistenza. Una parola sempre pronta per tutti, una battuta ironica, un sorriso appena accennato ne hanno fatto un dirigente politico autentico, rigoroso e impegnato. Mai chiuso in logiche di partito, mai settario, sempre disponibile con tutti, perché le istituzioni sono la casa di tutti. Fino all’ultimo, nonostante la grave malattia che lo aveva colpito, si è prodigato per assicurare un ruolo responsabile e attivo all’Associazione, nella consapevolezza che fare politica non è un privilegio ma un servizio reso alla collettività, sottoposto al giudizio del popolo e al controllo del voto, contribuendo a respingere il giustizialismo mediatico della politica e il populismo della miseria storica e culturale di tanta parte del Paese.

Un anno fa Gioacchino Cacciotti ha preso per l’ultima volta, a ritroso, la strada che aveva percorso oltre cinquanta anni prima per frequentare a Roma l’università e la vicina sede romana del PCI. Ma non è stato solo nella sua Carpineto: accanto all’affetto e alla riconoscenza dei suoi compaesani, c’è il ricordo di quanti lo hanno conosciuto e ne hanno apprezzato l’umanità e la profonda onestà intellettuale e politica. I suoi familiari, a cominciare dalla figlia Giorgia e dalla moglie Maria, possono essere orgogliosi di lui, sapendo che «the name is not wrote in water», che il suo nome non è scritto sull’acqua.

 

Roma, 15 marzo 2016

 

 

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