di Paola Brianti

Una divertente storiella cinese narra di un rospo che, seduto sull’orlo di un pozzo, guarda il pezzetto di cielo che si riflette sull’acqua e ne deduce che il cielo è delle stesse dimensioni della circonferenza del pozzo.

Mutatis mutandis, il ragionamento del rospo cinese è molto simile alle conclusioni cui sono pervenuti gli espertissimi opinion maker americani nel corso della recente campagna presidenziale, dove lo specchio del pozzo riflette i sondaggi e il cielo rappresenta gli elettori o meglio, i“grandi elettori” chiamati a rappresentarli e che sono il vero enigma di queste inusitate elezioni “ for president”.

La candidata Hillary Clinton ha ottenuto, complessivamente, oltre 227 mila voti in più del rivale Trump. Non moltissimi, considerato il numero degli elettori, ma comunque in misura sufficiente per determinare una sua indiscutibile vittoria nel caso che le elezioni si fossero svolte senza la intermediazione dei 538 tra deputati e senatori che costituiscono il gruppo dei “grandi elettori”, come invece prevede la vigente legge elettorale americana.

In sostanza, se si considera la maggioranza numerica degli americani che hanno votato a favore della rappresentante democratica, non si può stabilire che i sondaggi che hanno tratto le loro previsioni dalle interviste e dai contatti diretti con la popolazione, siano sbagliati. Sbagliato, forse, è stato il metodo dell’indagine che ha trascurato di sondare le reali intenzioni dei grandi elettori e, soprattutto, la loro potenzialità nell’esito finale dei voti.

Ritornando alla storiella cinese, si è scambiato una parte per il tutto.

Non è la prima volta che accade nella storia delle elezioni statunitensi e, se la legge non muta, probabilmente non sarà neppure l’ultima. Ma per queste particolari elezioni presidenziali, la sorpresa è stata più violenta e, dato che le proteste non si sono ancora esaurite, si può prevedere che lo shock avrà ripercussioni emotive per un periodo di tempo più lungo del solito.

Per adesso, è comunque interessante esaminare con occhio critico e distaccato l’iter che ha preceduto questa controversa elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America.

In una campagna elettorale che è stata portata avanti senza esclusione di colpi, il leitmotiv che ha caratterizzato i dibattito tra i due candidati, non è stato il programma di governo, ma l’attacco frontale, personale. In particolare, Trump non soltanto ha rinfacciato alla Clinton di avere votato a favore dell’invasione dell’Iraq durante l’amministrazione Bush, ma l’ha accusata anche di incapacità politica o peggio, citando espressamente il misterioso attentato di Bengasi dell’11 settembre 2012 che costò la vita dell’ambasciatore Chris Stevens e di alcuni suoi collaboratori e che ancora non ha avuto una spiegazione accettabile.

In quei giorni, le versioni dell’attentato furono tanto varie quanto incontrollabili Alla fine, venne steso un pesante silenzio sull’accaduto e nessuno ne parlò più finché il candidato Trump non lo trasse dalle nebbie dell’oblio. Né si è limitato a quel lontano episodio, perché tutta la politica di Hillary in Medio Oriente è stata passata spietatamente al setaccio, dall’invasione dell’Iraq, alla guerra in Libia, alla fugace “primavera araba”, fino ad arrivare alla guerra in Siria. E qui i confini si fermano.

Trump, ancora estraneo alle sottigliezze dei contorsionismi politici, non è chiaro se per scelta o per inesperienza o per entrambi, avrebbe potuto oltrepassarli e dimostrare al mondo come le decisioni americane sul medio Oriente e l’esercizio di una influenza su una delle aree più incandescenti del globo e costata ai contribuenti miliardi e miliardi di dollari, si siano risolti alla fine con un clamoroso fallimento. Ma il candidato repubblicano si è fermato alla linea di demarcazione araba e, prima di passare il Rubicone medio-orientale, ha atteso di vedere quali ripercussioni avrebbero prodotto le sue accuse, non tanto sugli elettori, quanto piuttosto sui più alti responsabili della sicurezza del Paese.

Nel corso di tutta la sua campagna elettorale, Trump ha evitato di fare ricorso a infingimenti o a sottintesi, scegliendo piuttosto un linguaggio schietto e a volte perfino brutale, sempre finalizzato a raggiungere una determinata classe di elettori allergici alle alleanze dei salotti e alle raffinatezze della politica aristocratica.

Consapevole che la guerra in Iraq è rimasta una ferita aperta nella recente storia americana, ha dato la parola a Al Baldasaro, membro della Assemblea Parlamentare del New Hampshire e veterano della guerra in Iraq perché tutto il mondo fosse consapevole del pericolo che incombeva sulla sua rivale. Al Baldasaro non ha deluso il tycoon repubblicano e, senza alcun fair play, ha lanciato la sua minaccia: “ Hillary for prison”.

L’accusa, destinata alle orecchie dei tanti reduci americani che ancora stanno pagando le conseguenze di una invasione sciagurata, era però anche un chiaro avvertimento ai servizi segreti.

Se Trump non fosse riuscito a farsi eleggere, la prima presidente donna degli Stati Uniti, forse sarebbe stata anche il primo capo di Stato americano a subire l’accusa di tradimento della Nazione.

Un primato abbastanza inquietante perché i servizi si sentissro obbligati a prenderne atto.

A dieci giorni dal voto finale, l’FBI avviò un’indagine sulla candidata Hillary per indebito uso della sua posta privata nella corrispondenza del Dipartimento di Stato e, come spesso succede in questi casi, presto arrivò il puntuale responso tranquillizzante, ma in un linguaggio quasi cifrato: “Negligente, ma nessun reato imputabile”.

Parallelamente, non si sa ancora bene se per dovere d’ufficio o per distrarre dal vero fine delle indagini, vennero fatti emergere indizi di reati sessuali a carico di Anthony Weinerm, marito della più stretta collaboratrice di Hillary, Huma Abedin, legata alla candidata democratica da affinità politiche oltre che da affettuosa amicizia.

I due sposi sono complementari: Weiner è un acceso fautore della politica israeliana, Huma, di contrappunto, è una grande esperta delle tematiche dei Fratelli Musulmani. Il tutto condito da un inquietante sfondo sessuale. Gli spunti per un film avvincente ci sarebbero tutti.

Ma questo non è un film, è la lotta per il potere di due candidati che si sono contesi fino all’ultimo respiro la guida del Paese più forte del mondo e dalle cui decisioni dipendono le sorti dell’intero pianeta. Quali segreti inconfessabili si nascondevano nelle famose e-mail della candidata Clinton esaminate per ben due volte, di cui l’ultima nella fase più cruciale della campagna elettorale?

La posta in gioco era altissima e il rischio di una accusa infamante contro chi stava per pronunciare il solenne giuramento di fedeltà alla Nazione, si prospettava troppo grave per poter essere sottovalutato. La corsa di Trump verso la Casa Bianca aveva ormai la strada spianata. All’FBI è stato dunque affidato il compito di cercare in tutti i modi possibili una soluzione accettabile che salvasse la reputazione del candidato più votato alla Casa Bianca e, al tempo stesso, evitasse senza certe conseguenze terrificanti che non avrebbero lasciato indenne nessuno.

Il dubbio che si pone ora è se il neo eletto presidente porterà alle estreme conseguenze le accuse e le minacce espresse nel corso della sua campagna elettorale, oppure se si accontenterà della sua miracolosa vittoria.

La visita ad Obama alla Casa Bianca, i cavallereschi complimenti elargiti alla rivale Clinton all’indomani della vittoria, farebbero propendere per la seconda ipotesi. In questi ultimi decenni, l’Italia è stata costretta a subire i danni provocati dagli errori americani, dalle guerre scatenate ai suoi confini, alla crisi finanziaria seguita ai subprime ed ha pagato sempre a duro prezzo le conseguenze di una politica disinvolta e bellicosa, scaricata sulle nostre spalle senza troppi riguardi. Speravamo che vincesse la Clinton non per incondizionata ammirazione delle sue capacità politiche o del suo spirito umanitario, ma perché questo ci sembrava il male minore. Adesso ha vinto Trump. Let’s wait and see.

Per gentile concessione della rivista online IL DOMANI D’ITALIA

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