di Agostino Bagnato
Perché bisogna celebrare la battaglia di Waterloo e rendere ancora onore ai tanti caduti, gli ultimi della tempesta napoleonica sull’EuropaQUALE CELEBRAZIONE
Waterloo, 18 giugno 1815. La sera scende lentamente sulla vasta pianura piena di fumo e di fuochi. Intense scariche di artiglieria continuano verso la collina in direzione della cittadina, mentre i colpi di cannone diradano. Gruppi di soldati francesi sbandati si dirigono disordinatamente verso il bosco, inseguiti dalla cavalleria nemica. Dov’è la cavalleria di Napoleone? Intanto, la Guardia imperiale sta completando il proprio sacrificio, cedendo sotto l’assalto di Wellington e del sopraggiunto Blücher.
I destini dell’Europa si erano compiuti.
Duecento anni dopo l’Europa unita dovrebbe celebrare quella memorabile battaglia, ma le nazioni che presero parte agli avvenimenti e che oggi costituiscono la struttura portante dell’Unione Europa, non riescono neanche a decidere come celebrare quella data e rendere onore ai circa 47.00 caduti. Napoleone Bonaparte non sa se gongolare sotto il granito rosso del sarcofago all’interno del Panthéon a Parigi o indignarsi.
Ma quella terribile giornata non può passare sotto silenzio anche tra le popolazioni di quell’Europa guidata da inetti statisti, incapaci di dare una risposta al dramma politico, economico e sociale della Grecia, nonché alla spaventosa tragedia dell’emigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente.
Un’Europa inutile, forse anche dannosa se continua nella sua insipienza e codardia. Quante speranze deluse!
L’unico auspico, a questo punto, è che non ci sia una nuova Waterloo, simbolica ma altrettanto catastrofica, sul piano politico e monetario.
UN PERSONALE INIZIO
Il professore di storia Antonio Sposaro aveva probabilmente studiato Napoleone Bonaparte sui testi più noti, perché riportava opinioni e punti di vista di tanti storici, tra cui Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Federico Chabod, Giorgio Spini. L’obiettivo era quello di incuriosire e fare crescere l’interesse degli studenti attorno agli avvenimenti napoleonici, senza rinunciare alla propria opinione, radicata nel nazionalismo gentiliano che imbozzolava la sua cultura. Io ero attentissimo, ma quando affrontò il tema della caduta definitiva dell’Imperatore, in conseguenza della sconfitta a Waterloo, improvvisamente mi trovai in disaccordo. Non tanto sulle ragioni della sconfitta napoleonica, quanto sulle modalità della battaglia. Il professore sosteneva che i francesi erano stati sconfitti perché l’Imperatore aveva ritardato alcune manovre tattiche nella conduzione strategica della battaglia. Ma non era soltanto il giudizio sulla battaglia che mi divideva dal mio professore, cui ero molto legato, quanto le conseguenze seguite alla sconfitta, a partire dal Congresso di Vienna.
Qualche settimana prima avevo letto I Miserabili (Les Misérables) di Victor Hugo in una vecchia edizione Sterbini che era custodita nella libreria di famiglia e mi aveva impressionato la precisione con cui l’autore de Il Novantatrè raccontava la battaglia. Più di ogni altro mi aveva colpito la fatalità della pioggia insistente che si era abbattuta nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1818 nella vallata sottostante la cittadina di Waterloo, con il conseguente impantanamento dei campi e la colmatura dei fossi. I soldati francesi erano stati rallentati nelle manovre di attacco alle linee inglesi schierate a nord, fino a restare affondati nel fango. La lentezza della manovra aveva consentito al prussiano Blücher[1] di sopraggiungere sul campo di battaglia e di assestate il colpo fatale, producendo lo sbandamento e lo sfaldamento generale che Stendhal avrebbe descritto mirabilmente qualche decennio dopo nel romanzo La Certosa di Parma. Ma Blücher era stato aiutato dalla fortuna: uno sconosciuto pastore gli aveva indicato la strada più corta per raggiungere la pianura di Waterloo.
Le sorti della battaglia, sostenevo io, erano state decise da quello che Victor Hugo chiama «Quid obscurum sed divinum».
I compagni di classe ascoltavano stupefatti alla mia rievocazione confusa delle fasi della battaglia. Non mi ero mai interessato di storia militare e degli aspetti bellici della storia. Quella parola «Merde!» gridata dal generale Pierre Cambronne[2] in faccia ai generali comandanti Colville o Maitland che intimavano «Prodi francesi, arrendetevi!», è ancora oggi impressa nella mia memoria in maniera nitida. E’ diventato un luogo comune dello sprezzo che si porta al nemico di fronte alla sconfitta. E poi la fatalità ulteriore, per come la racconta Victor Hugo: «Entrambe le parti aspettavano qualcuno; fu il calcolatore esatto che vinse. Napoleone aspettava Grouchy[3]; non giunse. Wellington[4] aspettava Blücher; giunse»[5].
Ma l’aspetto più rilevante della discussione ha riguardato le conseguenze della caduta dell’impero napoleonico. La restaurazione che ne è seguita ha cancellato molte conquiste della Rivoluzione francese, principalmente in Italia, sostenevo io. Quell’evento memorabile ha tuttavia aperto le porte alla cospirazione carbonara in un primo tempo e poi alla predicazione mazziniana della Giovine Italia e quindi ha gettato il primo seme del Risorgimento italiano. Il professor Sposaro insisteva nel giudizio negativo su Napoleone, in quanto sovvertitore dell’ordine monarchico e soprattutto per avere fatto arrestare il pontefice Pio VII, pur ammirandone le gesta di soldato e di condottiero. Io insistevo che l’Europa poteva essere conquistata consolidando le idee e i principi della Rivoluzione francese e non con le armate, la conquista, l’occupazione militare, le persecuzioni. Idee a quel tempo molto confuse, scaturite da letture eterogenee e dalla formazione vagamente materialista basata su poche nozioni di filosofia hegeliana e marxista.
Per il resto, non avevo neanche idea dove si trovasse Waterloo.
WATERLO NEL 1978
Sono stato a Waterloo per la prima volta nella primavera del 1978. Ero una giornata grigia, piovosa, fredda. Ero in compagnia di Franco Ianniello, giovane dirigente della Commissione Europea incaricato nel settore agrario e segnatamente per la gestione del Feoga (Fondo europeo di orientamento e garanzia per l’agricoltura) e di Giuseppe Casoria, dirigente della Regione Lazio, che aveva preparato la visita a Bruxelles per discutere con la Commissione Europea alcuni progetti di sviluppo agricolo. Ero assessore all’agricoltura nella Regione Lazio ed avevo a cuore ottenere i finanziamenti previsti dalla tenace azione di Giovanni Marcora, ministro dell’agricoltura del governo italiano. L’incontro con il Direttore Generale del Feoga, il tedesco Gero Dalayden, era andato bene. Il dossier predisposto dalla Regione per ottenere i fondi europei riguardanti la costruzione di impianti agro-alimentari era stato valutato positivamente. Potevo tornare a Roma con un buon risultato.
Restava un giorno da dedicare alla visita del Brabante e delle Fiandre. Ianniello propose di visitare Waterloo in mattinata e poi di recarsi a Bruges e ad Anversa.
Presa la strada verso sud, l’automobile condotta da Ianniello percorse alcuni villaggi sparsi nella vasta campagna scintillante sotto qualche pallido raggio di sole che di tanto in tanto riusciva a penetrare tra le nubi aggrovigliate. Fitti boschi di querce impedivano allo sguardo di spaziare sulle colline, ma i campanili delle chiese e i pinnacoli dei palazzi municipali davano la dimensione dell’agricoltura fiorente e del benessere degli agricoltori.
Dopo circa venticinque chilometri giungemmo sul fianco di una collina e subito dopo si aprì la pianura di Waterloo. La città era rimasta alle nostre spalle. La mia emozione è stata grandissima, quando mi trovai di fronte alla grande scalinata che portava alla sommità della collina ricavata con la terra del campo di battaglia sottostante, dove sorgeva imponente il grande leone in bronzo, fuso con i cannoni sottratti ai francesi. Il fiero leone faceva guardia severa e sicura sulla restaurazione che era seguita a quella celebre battaglia. La collina era stata eretta da Guglielmo I dei Paesi Bassi dove si pensava fosse stato ferito il figlio. Il leone era posto sulla sommaità, cui si accedeva scalanda circa trecento gradini.
Con l’entusiasmo di un bambino, mi arrampicai alla base del pianoro artificiale e mi feci fotografare nella difficile posizione che rendeva impossibile inquadrare anche il re della foresta. Entusiasmo di un bambino di provincia… A distanza di circa quarant’anni, non ritrovo più quelle foto. Nel frattempo, ripetevo dentro di me le parole di Hugo: «Il campo di Waterloo oggi ha la calma che appartiene alla terra, sostegno impassibile dell’uomo, e somiglia a tutte le pianure»[6].
Ma la sorpresa più grande fu la visita al gigantesco Panorama, enorme cilindro di legno e muratura che riproduce in miniatura le scene salienti della battaglia. Di colpo mi sono ricordato della discussione con il professor Sposaro. Come dimenticare quello spettacolo!
Tuttavia, di notte, vi si sviluppa una specie di nebbia visionaria, e se qualche viaggiatore vi si aggira, se guarda, se ascolta, se sogna come Virgilio nelle funeste pianure di Filippi, lo domina l’allucinazione della catastrofe. Lo spaventevole 18 giugno rivive; la falsa collina-monumento scompare; quel leone qualunque si dissipa; il campo di battaglia riprende la sua realtà; linee di fanteria ondeggiano nel piano, galoppi furiosi attraversano l’orizzonte; l sognatore spaventato vede lo scintillio delle sciabole, lo splendore delle baionette, il fiammeggiare delle bombe, l’incrociarsi mostruoso dei fulmini; sente, come un rantolo in fondo a una tomba, il clamore vago della battaglia fantasma. Quelle ombre sono i granatieri; quelle luci sono i corazzieri; quello scheletro è Napoleone; quell’altro scheletro è Wellington; tutto ciò non è più, e si cozza e si combatte ancora; e i burroni s’imporporano, gli alberi fremono, e v’è della furia fin nelle nubi, e nelle tenebre. Tutte quelle alture feroci, Mont-Saint-Jean, Hougomont, Frischmont, Papelotte, Plancenoit, appaiono confusamente coronate da turbini di spettri che continuano a sterminarsi.[7]
Soltanto il Panorama della battaglia di Borodino, sorto nel 1912 a Mosca al termine della lunghissima Prospettiva di Kutuzov (Kutuzovskij prospekt), sul luogo dove avvennero le ultime scaramucce tra francesi e russi, riuscì a procurarmi la stessa emozione. Soltanto tre anni separavano le date delle rispettive battaglie: 1812, Borodino; 1815, Waterloo. In soli tre anni si erano compiuti i destini dell’Europa. E come suonavano nelle mie orecchie le parole che avevo scritto sul compito di italiano che il professor Sposaro aveva assegnato agli studenti della V classe C dell’Istituto Tecnico per Geometri di Vibo Valentia nel dicembre 1960 per parlare di Napoleone: «Il cannone non aveva ancora cessato di sparare a Waterloo che i destini dell’Europa erano definitivamente segnati». Restaurazione, reazione e persecuzione delle libertà portate dalla Rivoluzione francese e da Napoleone e su cui si era accesa la discussione in classe.
WATERLOO NELLA STORIA
Molti anni dopo mi sono trovato tra le mani i tre volumi di Storia d’Europa di Herbert Albert Laurens Fisher. Lessi avidamente le pagine riguardanti i cento giorni di Napoleone. Quante assonanze ho trovato con la discussione in classe di venti anni prima!
Fu gran ventura per la causa dei conservatori che i sovrani e ministri alleati fossero ancora riuniti a Vienna quando si seppe (7 marzo 1815) che Napoleone era di nuovo sul suolo di Francia. In quindici giorni si conclusero i lavori del congresso, si proclamò Napoleone sospetto e fuori legge, e si definì un’alleanza militare contro di lui. Prima che un sol colpo fosse stato scambiato non rimaneva più, nelle mani di Napoleone, una sola carta diplomatica. Quand’anche la battaglia di Waterloo avesse avuto esito diverso, era impossibile ch’egli non soccombesse alle forze unite di tutta Europa.
Eppure, iniziando la sua disperata avventura con una campagna per la conquista di Bruxelles, Napoleone s’era assicurata, nel migliore dei modi, la simpatia della Francia. Da secoli, portando con sé il grande estuario del Reno, il Belgio aveva per il popolo francese un valore simbolico, quasi misterioso. Più e più volte il suolo del piccolo paese era stato irrorato da sangue francese e l’ambizione di conquistarlo aveva continuamente dominato lo spirito degli statisti di Francia. La conquista del Belgio era stata la prima e massima gloria della giovane repubblica francese e la sua perdita la più grave disavventura dell’impero; ben poteva ora la riconquista essere gradita al cuore d’ogni francese. Era logico dunque che Napoleone tendesse a Bruxelles, e altrettanto logico che Wellington gl’impedisse il passaggio, accampandosi a Waterloo.[8]
Ma in cima alla collina artificiale, guardando il lontano orizzonte schiacciato dal cielo basso per le nuvole sempre minacciose, la mia mente andava alle vicende della battaglia, per come le ricordavo dalla descrizione di Victor Hugo.
Coloro che vogliono figurarsi nettamente la battaglia di Waterloo non hanno che da tracciare sul terreno, col pensiero, una A maiuscola. La gamba sinistra della A è la strada di Nivelles, la gamba destra è la strada di Genappe, l corda della A è la strada incassata tra Ohain e Braine-l’Alleud, il vertice è Mont-Saint-Jean; là è Wellington; la punta sinistra inferiore è Hougomont, dove si trova Reille con Gerolamo Bonaparte; la punta destra inferiore è Belle-Alliance: e qui c’è Napoleone. Un po’ al disotto del punto in cui la corda della A incontra e taglia l’asta diritta, v’è la Haie-Sainte. In mezzo a quella corda v’è il punto preciso in cui fu detta l’ultima parola della battaglia. E’ là che hanno posto il leone, simbolo involontario del supremo eroismo della guardia imperiale.[9]
Era il punto preciso dove mi trovavo io, quasi due secoli dopo!
Il triangolo compreso alla sommità della A fra le due aste e il limite, è il poggio di Mont-Saint-Jean. La contesa di quel poggio fu tutta la battaglia. Le ali delle due armate si stendevano a destra e a sinistra delle due vie di Genappe e di Nivelle; d’Erlon facendo fronte a Pieton, Reille di faccia a Hill. Dietro la punta della A, dietro il poggio di Saint-Jean c’è la foresta di Soignes. In quanto alla pianura per se stessa, si figuri un vasto terreno ondeggiante; ogni piega domina quella che segue, e tutte le ondulazioni salgono verso Mont-Saint-Jean, arrestandosi alla foresta.[10]
Per me, oggi, lo svolgimento della battaglia ha poca importanza. Le conseguenze sono note. Intere biblioteche sono state scritte sull’argomento. Le mie eventuali considerazioni non aggiungono nulla alle testimonianze e alle interpretazioni degli storici, dei commentatori, degli storici militari, dei pensatori, dei sociologi e dei filosofi. Preferisco ricorrere ancora una volta alla prosa di Fisher per rievocare Waterloo.
In una lunga giornata di giugno (18 giugno 1815), memorabile nella storia umana, si decise il grande duello tra rivoluzione e legittimismo, iniziatosi ventitré anni prima con la cannonata di Valmy. La sottile linea di Wellington, composta in parte d’inglesi, in parte di tedeschi, belgi e olandesi, e aiutata potentemente con lo scendere della sera, dai prussiani di Blücher, frantumò l’ultimo esercito di Napoleone. Confrontato con le battaglie moderne, fu uno scontro insignificante; ma, quando si consideri l’esaltazione spirituale che seguì, poche furono le vittorie più importanti. Waterloo fu l’ultimo atto di una tragedia, la fine di un’epoca e il principio di un’altra.
Fu merito degli statisti inglesi se quando, dopo i Cento Giorni, si venne a un accordo con la Francia, i paese sconfitto fu trattato con moderazione. Se la Russia avesse potuto fare a modo suo, l’Alsazia e la Lorena sarebbero state tra i sacrifici richiesti al restaurato governo di Luigi XVIII. Ma Wellington e Castlereagh che nulla avrebbe minato l’autorità dei Borboni quanto na rovinosa mutilazione territoriale. Era interesse dell’Inghilterra e vantaggio dell’Europa che la vecchia dinastia, dal prestigio già così scarso perché estranea alle glorie militari del periodo napoleonico, riuscisse tuttavia a riconquistare e conservare la devozione del popolo francese. Compito disperato – a quanto ben si comprese – se si fosse sanzionato l’intero programma prussiano di spoliazione. Si condannò perciò la Francia a perdere il ducato di Buglione e parte delle Ardenne che passarono ai Paesi Bassi, a cedere alla Germania i forti di Saarlouis e di Landau, a pagare un’indennità di settecento milioni di franchi, a subire un esercito di occupazione per un periodo di cinque o tre anni, e a restituire i tesori artistici che, alla pace precedente, le era stato concesso di trattenere. Nulla in queste condizioni, d’insopportabile per l’orgoglio francese; ma le apprensioni di Alessandro I, che dubitava fosse vera saggezza restaurare in Francia la casa borbonica, furono infine giustificate. La pianticella del legittimismo non riuscì a prosperare sul terreno ancora coperto dalla lava rivoluzionaria. Il concerto europeo non potè salvare la Francia da ulteriori sconvolgimenti né impedire il risorgere delle idee bonapartiste e la creazione di un secondo impero. E tuttavia, nonostante tutti i suoi difetti, ebbe il merito di dare all’Europa quarant’anni di pace relativa.[11]
Certamente pace fu, ma basata sulla restaurazione, sulle persecuzioni, sul terrore poliziesco, sulle prigioni più dure riservate ai patrioti in lotta contro l’assolutismo per ottenere monarchie costituzionali, quando non addirittura stati repubblicani. E questo era il terreno della divisione tra la mia visione ingenua e romantica delle conseguenze di Waterloo e quella realistica e storicizzata del professore di storia.
Molti anni dopo ho visitato nella città di Brno, capoluogo della Moravia, che a quel tempo faceva parte della Cecoslovacchia (ora è la seconda regione della Repubblica Ceca), la prigione della Spielberg (Hrad Špilberk) quella dove Silvio Pellico aveva scritto Le mie prigioni e Piero Maroncelli le Addizioni e dove erano stati imprigionati anche Federico Confalonieri, Gabriele Rosa e Francesco Arese Lucini, mi sono ricordato della discussione in classe e che anche quel tetro castello era conseguenza di Waterloo.
QUANTI FURONO I CADUTI
Guardando la grande scena della battaglia all’interno del Panorama, si potevano vedere molti cadaveri di saldati ammucchiati gli uni sugli altri, di entrambi i fronti. Cannoni rovesciati, carri sventrati, casse di munizioni scoperchiate, granate e palle d’artiglieria sparse ovunque, fucili, spade e pistole gettate alla rinfusa sul terreno. E l’incendio della locanda, la fuga dei soldati verso il bosco e l’inseguimento della cavalleria. L’imperatore immobile sulla collina, lo sguardo perso nel vuoto.
Uno spettacolo raccapricciante, ma istruttivo.
E dunque, la domanda che vale ancora oggi, perché conchiude l’immensa carneficina provocata dalla tempesta napoleonica. Quanti sono stati i caduti a Waterlo?
L’esercito francese, noto come Armée du Nord, era composto da 71.947 uomini, tra fanteria, artiglieria e cavalleria.
L’esercito che sconfisse Napoleone era composto da 23.900 soldati inglesi, 17.000 belgi e olandesi, 11.000 soldati dell’Hannover, 5.900 del Brunswick e 2.800 del Nassau. In totale 60.600 soldati, tra cavalleria, artiglieria e fanteria. Gli storici hanno giudicato quell’esercito “il peggio equipaggiato con il peggior stato maggiore che mai fossero uniti”, basandosi sulle parole dello stesso Wellington che era stato costretto a mettere su un’armata in tutta fretta.
I caduti non è stato mai possibile contarli con precisione. In totale si considerano 47.000 caduti. A questi vanno aggiunti i numerosissimi feriti. Molto alto risultò il numero dei disertori nelle file francesi. Ci furono anche molti prigionieri, valutati attorno a 8-10.000 soldati.
I caduti e i feriti francesi si contano attorno a 25-27.000 soldati. Quelli inglesi e olandesi raggiungono la cifra di 16.500, cui si sommano circa 7.000 prussiani.
Una contabilità che mette la parola fine al sogno di Napoleone Bonaparte di unificare l’Europa. Peccato che il suo disegno fosse basato sulla conquista e la dominazione e non sul consenso. Ma a quel tempo, probabilmente, non sarebbe stata possibile altra soluzione.
Roma, 15 giugno 2015
[1] Gebhard Leberecht von Blücher (1742-1819)
[2] Pierre Jacques Etienne, visconte di Cambronne (1770-1842)
[3] Emmanuel de Grouchy (1766-1847)
[4]Arthur Wellesley, duca di Wellington (1769-1852)
[5]Victor Hugo, I miserabili, Newton Compton, a cura di Riccardo Reim, Roma 1995, p. 236
[6]V. Hugo, cit., p. 237
[7] Ivi, pp. 237-238
[8] Herbert Albert Laurens Fisher, Storia d’Europa, III voll., Laterza 1936-1973. Vedi vol. III, L’età contemporanea, p. 92.
[9] Victor Hugo, cit., p. 215
[10] Ivi
[11] H. A. L. Fisher, cit., pp. 92-93