Pietro Ingrao lascia una scia luminosa nella storia della Repubblica, del movimento comunista italiano e nelle battaglie per l’emancipazione dei lavoratori. Una scia che ha il suo nucleo nella Sicilia garibaldina: trapiantato nel Lazio, il suo bisnonno a Lenola, nei pressi di Fondi, ex Regno di Napoli, dà origine alla famiglia dove nel 1915 nasce Pietro. Anche se si trasferisce giovanissimo a Roma, il giovane Ingrao conserva l’inconfondibile accento pontino che, accanto al volto dai tratti inconsueti e agli occhi nerissimi profondi e accesi ne fanno una figura inconfondibile del panorama universitario romano alla fine degli anni Trenta e nel Centro Sperimentale di Cinematografia. Un crogiolo formidabile di intelligenze, insofferenze, aspirazioni, sogni composto da giovani che contribuiranno a fare l’Italia e a costruire l’egemonia culturale della sinistra: Pietro Ingrao matura la scelta decisiva della sua vita nel 1940, aderendo al PCI clandestino. Entra così nelle file del movimento comunista italiano una figura indimenticabile e pressoché unica nella sua dimensione etica, morale e culturale, sempre proteso alla ricerca di nuovi significati e valori, sempre impegnato a cercare la verità anche quando si tratta della «sua» verità, coerente fino in fondo con il proprio pensiero politico.
Oggi si potrebbe parlare di Ingrao come di un Illuminista del Novecento per la sua fiducia cieca nell’uomo, per il bisogno di condurre le masse emancipate ad assumere funzioni di potere per trasformare la società, per il sogno di emancipare e sviluppare la società attraverso la politica, intesa come partecipazione, responsabilità, esercizio di diritti e di doveri nell’equilibrio dei poteri tra le istituzioni dello Stato democratico.
La sua vita all’interno del PCI di Palmiro Togliatti e poi di Luigi Longo, Enrico Berlinguer e Achille Occhetto non è stata semplice. La sua visionarietà spesso cozzava con la realtà, in particolare con l’economia reale che in quegli anni andava assumendo connotati differenti con la fine del colonialismo e l’avvio dell’internazionalizzazione, della globalizzazione e le trasformazioni tecnologiche nell’apparato industriale. La fabbrica si avviava a perdere la sua centralità nel processo produttivo, conducendo gradualmente a una profonda diversificazione interna di funzioni e di ruoli tra i lavoratori. Ma la sua straordinaria capacità di leggere i processi in divenire metteva in guardia dai pericoli dell’omologazione generalizzata che avrebbe portato l’uomo ad essere sempre più un numero e quindi ad alienarsi e alla fine a perdersi. Metteva in gioco la dignità dell’uomo, in particolare dei lavoratori più umili e sfruttati. Memorabile il suo intervento in Parlamento in occasione della crisi Fiat negli anni Ottanta con il grido «Io sono un esubero!», per protestare contro i licenziamenti. ma non ha mai portato avanti operazioni frazionistiche all’interno del PCI quando aveva un notevole seguito nel sindacato, nell’associazionismo e tra gli intellettuali. Per molte persone la sinistra era Ingrao, il suo modo di vedere le cose, di concepire la politica e lo Stato, ma egli non si staccò dalle radici solide del partito che aveva scelto giovanissimo.
Non condivise la svolta del 1989 che portò, prima ancora del crollo del muro di Berlino e della fine dell’URSS, alla trasformazione del PCI in una forza socialdemocratica occidentale. Bisogna anche ricordare che Pietro Ingrao ha sempre avuto un atteggiamento critico nei confronti del socialismo reale, di cui coglieva le gravi contraddizioni tra la lezione marxista originaria e le realizzazioni autoritarie e antidemocratiche. Ma non riusciva a delineare nella sua immaginazione fervida una struttura del potere capace di conciliare esigenze di rappresentatività popolari e governo quotidiano dei processi interni alle società sempre più complesse del Novecento. Il saggio del 1978, Masse e potere, probabilmente il suo libro più impegnato, ne è la dimostrazione. Ma dove Pietro Ingrao riesce a dare la grande prova della sua dimensione umana, intellettuale e politica, è il libro di ricordi Volevo la luna. La rievocazione della sua esperienza formativa è straordinariamente lucida e nello stesso tempo poetica, ricca di riflessioni a posteriori, in cui il grande orizzonte delle trasformazioni possibili è ancora tutto sullo sfondo ed egli lo tratteggia con la grande chiarezza di propositi, fermando la narrazione agli anni Sessanta. La realtà sarà profondamente differente: l’irrompere dell’autunno caldo sembrava esercitare una propulsione inarrestabile ai processi di democratizzazione e di assunzione di compiti di governo alla classe operaia e alle masse lavoratrici in generale. Ma il terrorismo, le gravi lacerazioni all’interno della sinistra, il craxismo e la crisi inarrestabile dell’URSS mutarono completamente quelle condizioni.
Pietro Ingrao rimase se stesso. Non restò certo a guardare. Di fronte al vuoto attuale della politica, non più sostenuta da solide basi ideali e programmatiche, da valori di solidarietà e di giustizia sociale, di uguaglianza e umanità, egli ha continuato a dire la sua, ad esercitare il lucido diritto a pensare. La lezione di Pietro Ingrao mantiene intatto il senso di sé. Non può essere ignorato il suo insegnamento, anche quando non convincono pienamente le conclusioni del suo procedere politico, quando si ravvisano eccessi di ottimismo nella capacità delle masse di esercitare quel ruolo egemone che è stato l’assunto dell’intera sua esistenza, quando la ricerca delle risorse economiche per governare i processi nella società contrasta con l’universalismo dei diritti. Ma qualsiasi suo punto di vista era e resta un’occasione importantissima per confrontarsi e discutere. Un punto centrale del pensiero del Novecento. E’ stato chiamato spesso eretico per la sua capacità di distinguersi, nel volare alto. Ma per Ingrao il «pensiero unico» era la vera eresia della storia, inconcepibile nelle società liberate dalla tirannide nazifascista, nella cultura gramsciana e nella ricerca di nuove dimensioni del sapere e della speculazione intellettuale.
Un grande italiano prima di tutto. E un grande marxista. Di conseguenza, il suo essere comunista è una lezione di civiltà per le generazioni future.
Agostino Bagnato
Roma, 28 settembre 2015