Evgenij Aleksandrovič Evtušenko non è solo poeta. Il poeta nella Russia sovietica è un vate, cantore del presente e del futuro, protagonista del proprio tempo a tutto campo. Poesia innanzi tutto, ma anche sport per quanto possibile, teatro, cinema, fotografia, promozione culturale e infine insegnamento. Tutto inframezzato da uno stile di vita improntato a cogliere ogni opportunità, sapendo scegliere bene tempo e ritmo delle proprie azioni, ma sempre con dignità e con pieno senso di sé e del ruolo rappresentato. Evtusenko non è un balagančik un saltimbanco, ma un uomo vero, talvolta aspro e provocatore, ma sempre fedele a se stesso. E comunque dotato di grande capacità comunicativa e di simpatia. 

Il giovane siberiano, nato nel 1933 a Zima, nei pressi del lago Bajkal da un ingegnere impegnato nella costruzione della ferrovia Transiberiana e da una cantante, vive i primi anni a contatto con l’ambiente difficile della cittadina sperduta nella foresta. Zima, che in russo vuol dire inverno, omen nomen quanto  mai appropriato, imprime nel ragazzo i tratti di ribellismo e di irrequietezza che caratterizzeranno tutta la sua vita. Il giovane irrompe sulla scena letteraria sovietica negli anni Cinquanta e prosegue da protagonista, con alti e bassi, compreso momenti di oscuramento, fino al termine della vita, avvenuta il 1 aprile 2017 a Tulsa, nell’Oklahoma, lontanissimo dalla sua Zima e dalla Russia. Dopo il quarto matrimonio con una americana, era andato ad insegnare letteratura russa all’Università di Tulsa. Nel 1966 a Roma tenne una čtenie, una lettura dei suoi testi poetici, al Teatro Eliseo, qualche giorno dopo il concerto dei Beatles. Pare che il poeta abbia esordito, pressappoco, con queste parole: «In questo teatro hanno cantato quattro ragazzi inglesi dai capelli lunghi e dal cervello corto». Frase che, se fosse vera, non risponderebbe alla personalità del poeta, poliedrico e vulcanico, curioso di tutto e capace di molti mestieri, come dimostra la sua esistenza. E’ stato molte volte in Italia, dove aveva numerosi amici. Ha ottenuto molti premi letterari che lo hanno portato in tantissime località della penisola. Amava il calcio e non disdegnava apparizioni televisive per commentare partite in diretta, come quella da Torino nella trasmissione Quelli che il calcio…

Figura molto controversa della vita culturale sovietica e poi quasi dimenticato nell’era post-comunista, egli lascia un segno importante del proprio tempo, intanto come prosecutore della poesia civile al cui principale protagonista Vladimir Majakovskij s’ispirava, ma anche come osservatore del costume.  Non bisogna dimenticare, a riprova della sua vasta popolarità ma anche dell’atteggiamento controverso nei confronti del regime sovietico, la collaborazione con il grande musicista Dmitrij Šostakovič. Il poema Babyj Jar fu inserito dal compositore nella sua 13° Sinfonia, che porta il nome della località nei pressi di Kiev dove sono stati sterminati migliaia di ebrei, eseguita nella Sala Grande del Conservatorio Čajkovskij della capitale sovietica il 18 dicembre 1962 con enorme successo dall’Orchestra Filarmonica di Mosca, sotto la direzione di Kiril Kondrašin. Nel 1964 il musicista chiese al poeta di scrivere i versi per la cantata dedicata al capo della rivolta contadina nel XVII, dal titolo L’esecuzione di Stepan Razin op. 119; anche quel vasto affresco della Russia cosacca ottenne un enorme successo, sempre sotto la bacchetta di Kiril Kondrašin alla testa dell’Orchestra Filarmonica di Mosca. Qualcuno volle vedere nella scelta dei soggetti la critica alle autorità sovietiche di entrambi gli autori. Nikita Chruščev era stato destituito da poco e iniziava la soffocante epoca brezneviana che avrebbe portato venticinque anni dopo alla crollo del potere sovietico. Evtušenko e Šostakovič furono oggetto di numerose critiche. Ma mentre il musicista ottenne il sostegno di molti artisti e intellettuali sovietici del tempo, il poeta è stato trascurato, quasi accusato dall’intelligencija progressista di mistificazione e di conformismo.

Evgenij Evtušenko ha scritto anche alcuni testi in prosa, come Jagodnye mesta (Il posto delle bacche) del 1981, Ardabiola (1983) e Ne umiraj prežde smerti (Non morire prima di morire) del 1983, oltre a testi teatrali e al film Detskij sad (Il giardino d’infanzia) del 1984. La fotografia è stato un campo di attività che lo ha attratto fin da giovane, dedicandosi con impegno quasi professionale, fino a progettare e tenere vere e proprie mostre in patria e all’estero, specie negli Stati Uniti, che hanno ottenuto un buon successo di pubblico e di critica.

In Italia, le opere di Evtušenko sono tradotte principalmente da Evelina Pascucci, sincera amica del poeta. Ma con la sua opera si sono cimentati i maggiori studiosi, con esiti diversi.

Si è spento senza clamore, quasi a volere offuscare il relativo scalpore che hanno suscitato alcuni atteggiamenti della sua esistenza. Bisognerà tornare principalmente sulla sua opera poetica per coglierne la forza creativa ed evocatrice nella convinta necessità di rompere schemi consolidati dalla tradizione e dal conformismo. Chi lo ha conosciuto, anche se fugacemente come chi scrive, ha il dovere di parlare di questa figura così importante nella storia della letteratura russa del secondo Novecento.

 

Agostino Bagnato

 

Roma, 2 aprile 2017

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