Mario Artiaco ha scritto questo lungo romanzo, dal titolo poetico Io, Lauro e le rose, che può essere letto in modi diversi. Come romanzo di formazione di tre ragazzi nati e cresciuti a Meta di Sorrento che si ritrovano adulti nello stesso posto per riscoprire come il tempo e i suoi accadimenti non abbiano cambiato i loro sentimenti, pur se la vita li ha profondamente provati. Come “rapporto” sul valore dell’amicizia e le sue conseguenze sull’esistenza di ciascuno, vera forza per affrontare le asperità del presenze. Come spaccato sociale della realtà sorrentina e più in generale sul suburbio napoletano, con tutte le sfaccettature di un mondo intricato e addentellato di usi e costumi non facilmente accettabili. Come rappresentazione narrativa di una storia vera, drammaticamente vera, in tutti i suoi aspetti dolorosi e terribili, ma anche negli squarci di lirismo, di incantamento, di ingenuità giovanile e di velleitarismo provinciale.

Un ottimo soggetto cinematografico, pane per i denti di registi come Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti, Gianni Amelio, guardando in termini storici o di alcuni autori più giovani come Paolo Virzì. Ma anche degno della penna di Domenico Rea. Un romanzo difficile, dunque. Ma molto opportuno per fare conoscere dall’interno la vita della costiera sorrentina che, in generale, si è abituati a pensare in termini turistici e folcloristici. La vita non è per niente facile, crescere in quel mondo è problematico e soltanto profondi valori innati e alimentati dallo scorrere della vita possono portare adolescenti e giovani a diventare uomini senza perdersi nei meandri tentacolari della quotidianità senza speranza, talvolta avvelenata dal comportamento della stessa famiglia d’origine.

Io, Lauro e le rose è tutto questo insieme. L’autore, l’io narrante, sceglie una struttura letteraria e narrativa originale, di tipo diaristico ma solo come involucro di ricordi, rimandi, suggestioni e dolorose rievocazioni che sono sempre in chiave dialogica, talvolta senza interpunzione descrittiva. Ci sono tuttavia momenti di forte e autentico lirismo. La decisione dei tre ragazzi di recarsi in barca a remi per assistere alla finale dei Campionati del mondo di calcio a Citta de Messico è la metafora del cavallo bianco di Sciuscià, la fuga verso l’impossibile, lo sconosciuto. Oppure di godibile ironia come l’avventura con le due ragazze russe a bordo di una improbabile Fiat 127. E subito il contraltare della dura realtà, con l’affidamento da parte della madre dei fratelli adolescenti a don Peppino, un turpe personaggio; si tratta di una scelta per stato di necessità, pur sapendo che il “benefattore” è un pedofilo. Ma la volontà di riscatto sociale attraverso lo studio è l’arma che consente di superare le barriere geografiche e lasciare Meta per altri approdi.

Molti anni dopo il ritorno e di nuovo la ricostituzione del sodalizio. Il personaggio centrale a questo punto diventa Raffaele, vero specchio di tutte le drammatiche contraddizioni umane e sociali di quel territorio. Raffaele convive con un amico gay, gli amici non giudicano questa condizione, anche se Raffaele è condizionato dalla ossessiva gelosia del compagno. Si ammala di tumore, il ricovero in ospedale e la successiva terapia sono l’asse portante della narrazione finale che si snoda in termini diaristici, incalzanti. Fino alla scomparsa dell’uomo e alla visita al cimitero da parte dei due amici con le rose, il ridere irrefrenabile e il pianto a dirotto, di fronte alla tomba di Raffaele.

«Usciamo da qui con la certezza di non stare lasciando nulla. Raffaele vivrà di luce riflessa, attraverso noi e dentro di noi, perché l’amore è più forte della morte, perché l’anima di chi non c’è più continua a vivere nell’anima di quelli che lo amano». E’ la chiusa del romanzo che consente di tirare il fiato dopo 375 pagine intensissime di scrittura. Una scrittura fluida, limpida, controllata nel senso di sé. L’autore dimostra una padronanza notevole della lingua italiana e delle sue regole, oltre che delle formule narrative. Non è assolutamente facile raccontare una storia così complessa attraverso un ininterrotto flusso di memoria e di sensazioni. I continui rimandi temporali, partendo dalla giornata ora di visita a Raffaele in ospedale o per altre circostanze, obbliga ad un controllo rigoroso della materia e ad una verifica costante del “già detto o scritto”, per evitare ripetizioni o contraddizioni. Mario Artiaco c’è riuscito. Deve avere faticato moltissimo, come risulta dalle sue stesse dichiarazioni nei ringraziamenti a coloro che lo hanno sostenuto e incoraggiato. E gliene rende merito una bella e moderna copertina, concepita e costruita su disegni di bambini. Perché Raffaele, alla fin fine, era un bambino, come dichiara una pagina del libro. «La felicità è uno splendido uomo senza età, goffo, instabile, dolce e cocciuto, incapace di comprendere tutto e bene fino in fondo, che corre impazzito sulla banchina del porto di Meta di Sorrento, con le braccia levate al cielo, con uno zainetto in spalla e un berretto giallo e blu ben calzato in testa, pronto a salpare per coronare il suo sogno».

Il libro è disponibile su Amazon.

 

Agostino Bagnato

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