I poeti sono riconosciuti nella loro grandezza, in generale, dopo la scomparsa. Sarà anche il destino di Vincenzo Loriga (1922-2019), grandissimo indagatore e cantore dell’animo umano nell’arco di circa settanta anni tra insegnamento, psicanalisi, impegno culturale e politico
Di Agostino Bagnato
Πоєтам
Вообще не пристали грехи.
Анна Ахматова
Ai poeti
Non si addicono in genere i peccati.
Anna Achmatova
ESORDIO TRA GRANDI
PSICANALISI E POESIA
Il Premio Viareggio per la poesia, nel lontano 1958, è stato vinto da Salvatore Quasimodo. Ma tra i favoriti c’era anche il giovane poeta Vincenzo Loriga con il volumetto Materia presentato da Bino Rebellato, editore molto noto, fondatore del premio Cittadella a Padova. L’anno prima era stata la volta di Pier Paolo Pasolini per la raccolta Le ceneri di Gramsci. Nel 1959 il riconoscimento sarebbe andato a Italo Calvino, a riprova del livello molto qualificato dei partecipanti all’ambito riconoscimento. Non c’era spazio per un giovane tra i giganti della narrativa e della poesia di quegli anni.
La riprova sta nella dinamica dell’assegnazione del Premio Nobel. Dopo poche settimane dalla conclusione del Premio Viareggio, il Nobel sarebbe stato assegnato a Boris Leonidovič Pasternak, il grande poeta russo autore di memorabili raccolte poetiche, da molto tempo note anche in Italia. Il riconoscimento era legato alla pubblicazione del romanzo Doktor Živago, avvenuta in Italia nel 1954 da parte della giovane casa editrice Feltrinelli di Milano che da quella fortuita circostanza iniziava la sua crescita imprenditoriale. Di Pasternak poeta non si parlava, se non per accenni, per cui Sestra moja žizn’ (Mia sorella la vita), Kogda razguljacija (Quando rasserena), Poverch barerov (Oltre le barriere), Rannye poezdy (Treni mattinali) è come se non fossero esistiti. Nel 1959 il premio dell’Accademia reale svedese sarebbe stato assegnato proprio a Salvatore Quasimodo, creando un vero e proprio caso letterario, particolarmente in Italia, divisa tra Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale come meritevoli di tanto riconoscimento. L’anno precedente il premio era stato assegnato ad Albert Camus, i cui romanzi La peste e Lo straniero avevano destato grande impressione in tutto il mondo.
Il poeta Vincenzo Loriga, ottobre 2018, Libreria Farhenheit (foto Flavio Bruno)
Vincenzo Loriga non era poeta di professione. Aveva condotto solidi studi umanistici e letterari a Roma, dopo il trasferimento dalla natia Cagliari, dove era nato il 17 aprile 1922 e dove aveva frequentato la scuola di base. Si era iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma “La Sapienza” ed aveva intrecciato un ottimo rapporto con Carlo Dionisotti, all’epoca uno dei docenti più prestigiosi di italianistica, collaboratore della casa editrice Einaudi nella sede romana. Si tratta di una personalità che ha avuto molto peso nella formazione culturale del giovane sardo, aprendogli orizzonti inediti nel campo ideologico, per la sua vicinanza alle posizioni di Giustizia e Libertà, del liberalismo e della laicità nella vita e nello Stato. Gli studi che avrebbe condotto sulla poetica di alcuni poeti, a cominciare da Giacomo Leopardi, contribuiranno a rafforzare il crescente interesse degli studiosi per la poesia civile.
Il giovane avvia stimolanti contatti con Diego Valeri, Marino Moretti e altri letterati e studiosi che gli consentono di allargare i propri orizzonti. Nel 1945 Loriga inizia lo studio della psicoanalisi di scuola junghiana, in compagnia di Mariella Gambino, una giovane conosciuta proprio nella residenza romana della famiglia. Il padre di Vincenzo, Francesco Loriga, noto avvocato e Direttore Generale dell’Unione Industriali Sardi, nel 1939 era stato chiamato a dirigere l’Unione Industriali del Lazio, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma. Diventerà Direttore Generale dell’Assicredito, divenuta successivamente Associazione Bancaria Italiana (ABI), importante struttura di rappresentanza del sistema bancario italiano che eserciterà una funzione di accompagnamento delle politiche economiche e imprenditoriali che porteranno al «miracolo economico». Di formazione liberale, Francesco Loriga era interprete di una cultura economica aperta, lontana dall’autarchia decretata dal regime fascista in conseguenza della sanzioni inglesi imposte all’Italia per la guerra di conquista dell’Etiopia. Il giovane Vincenzo assorbe la lezione di tolleranza e rigore allo stesso tempo, le aperture mentali della famiglia, gli stimoli ad allargare sempre più gli orizzonti della mente. Sono tratti tipici della futura personalità del Poeta che ha sempre guardato all’infanzia e alla giovinezza con spirito aperto, senza nostalgia sentimentalistica per il tempo che scorre. Egli è pieno di fascinazioni per la vita e impara a vivere ogni momento con la maggiore intensità possibile, in base ad un’etica positiva. Sono i tratti tipici della famiglia borghese, in cui liberalismo e intraprendenza si sposano con l’impegno civile e la solidarietà responsabile.
Mariella Gambino accompagnava il giovane economista Guido Carli che doveva incontrare proprio Francesco Loriga, padre di Vincenzo. I due giovani fanno la reciproca conoscenza, simpatizzano immediatamente e nasce un interesse reciproco per lo studio e l’approfondimento della psicanalisi. Si tratta di un campo nuovo di studi e di indagine nell’Italia appena uscita dalla guerra. Due giovani intelligenti e aperti alla vita non possono che essere attratti dalla psicanalisi. Guido Carli avrebbe proseguito i suoi impegni e gli studi di economia, diventando uno dei principali protagonisti della politica economica italiana, fino a raggiungere i vertici della Banca d’Italia con la nomina a Governatore dell’istituto di emissione.
A Roma, Mariella Gambino e Vincenzo Loriga iniziano a frequentare i corsi di Ernst Bernhard, uno dei principali esponenti della psicanalisi analitica che ha avuto un ruolo importante nella capitale, trattandosi di una figura complessa di intellettuale dagli orizzonti molto vasti. Nel frattempo Vicenzo Loriga si laurea, discutendo la sua tesi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza” con Natalino Sapegno, uno dei massimi storici della letteratura italiana, i cui studi sul Trecento rappresentano ancora oggi un pilastro della ricerca letteraria. Di formazione crociana, negli anni Quaranta aveva maturato crescenti interessi per lo storicismo gramsciano che si riscontra nelle sue ricerche letterario successive. Per lunghi anni nelle scuole medie superiori e nei licei è stato adottato il Compendio di storia della letteratura italiana in tre volumi, cui ha fatto seguito la monumentale Storia della letteratura italiana, con la collaborazione di Emilio Cecchi. L’insegnamento di Sapegno deve avere lasciato tracce profonde nel giovane Loriga, i cui studi trovano uno sbocco proprio nella laurea in lettere. Quell’apprendistato universitario, unitamente all’esempio di Carlo Dionisotti, saranno molto importanti per la conformazione dell’architettura poetica di Loriga e costituiranno i principali stimoli per la collocazione fuori dalle correnti dell’epoca, giungendo alla formazione di una qualità propria, un segno distintivo e identificativo nel linguaggio e nella ricerca poetica successivi. Dionisotti andava approfondendo gli studi su Giacomo Leopardi, che diverranno un esempio alto di ricerca e di critica letterarie che il giovane ha sempre ricordato.
Mariella Gambino e Vincenzo Loriga si sposano nel 1948, continuando a vivere a Roma. La figlia Marzia nasce nel 1951. Nel frattempo, i due giovani accrescono l’interesse per la psicologia e approfondiscono gli studi sulla psicanalisi. Questo complesso scenario porta Vincenzo Loriga a maturare la decisione di dedicarsi alla psicanalisi e ad intraprendere l’attività di psicoterapeuta. Pertanto, decide di specializzarsi e di approfondire la teoria e la pratica della psicanalisi direttamente con il suo fondatore. Nel 1951 si reca a Zurigo e frequenta l’Istituto Jung. Lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica di scuola non freudiana, è ancora in vita e continua ad esercitare un fascino straordinario nei giovani che si accostano alla psicologia e alla psichiatria. Le sue opere sono considerate capisaldi per gli stessi studi filosofici, antropologici e sociologici, partendo dalla concezione della coscienza collettiva che caratterizza la società contemporanea. Il «Maestro» come lo chiamerà Loriga negli anni successivi la sua permanenza a Zurigo, coordina i corsi di specializzazione dei suoi collaboratori. Scelta stimolante e impegnativa che porta il giovane a fare l’analisi personale ed il training analitico con il dottor Carl Adolf Meier, uno dei principali esponenti dello Jung Institut. Il centro porta avanti una sperimentazione di grande fascino culturale, oltre che scientifica, intrecciando psicologia e filosofia, antropologia e sociologia. Nel 1952 la moglie e la figlia lo raggiungono a Zurigo, dove vivono per un anno. Completati gli studi e ottenuto il diploma di psicoterapeuta, Vincenzo Loriga torna in Italia insieme alla moglie e alla figlia. Decide di avviare la professione di psicanalista a Roma.
É uno dei primi giovani in Italia a interessarsi di psicanalisi non freudiana e viene guardato con particolare attenzione da psicologi e psicoanalisti. Ma non abbandonò il suo interesse per la poesia e la letteratura in genere. Dopo la laurea in lettere ed avviato la pubblicazione delle prime poesie su riviste sparse, considerava il linguaggio e la parola tra gli strumenti più importanti per affermare la personalità umana. La sua poesia risponde a logiche di analisi e di ricerca sul linguaggio e la sua significanza e adeguatezza per trasmettere emozioni, sensazioni, sentimenti, paura, angoscia e soprattutto per rappresentare gli stati d’animo dettati dall’amore e dal sesso. Per questo il suo verso è fatto di poche parole, precise, taglienti, resistenti all’urto della contraddizione. Ma non c’è asperità né occulta interpretazione, perché prevalgono musicalità e ritmo, dettati da una scansione controllata e mai fine a se stessa. Le sue poesie sono in genere brevi, basate sull’ispirazione che si traduce in un concetto immediato e poi sviluppato per arricchirlo di significanza, fino alla negazione del valore iniziale, quasi «polemos» tra idea e risultato. Il contributo della psicanalisi risulta rilevante nello scavo della mente, ma è la parola che prende il sopravvento e la psicanalisi diventa una sovrastruttura quasi irrilevante di fronte all’abilità e alla maestria del Poeta.
Vincenzo Loriga era partito da una originaria giovanile fascinazione per Gabriele D’Annunzio. Anche se il Vate si era rifugiato a Gardone nell’eremo sontuoso del Vittoriale, dopo l’avventura di Fiume, in un’orgia letteraria disordinata e un decadentismo ostinato, la sua influenza era notevole tra i giovani ancora alla fine degli anni Trenta. Complice la politica del fascismo di chiusura verso l’esterno, per cui restava poco da conoscere oltre i nuovi poeti dell’ermetismo, isolati nel contesto culturale del tempo dominato da uno stanco e frusto futurismo. Il suo approccio alla poesia negli anni giovanili non poteva che risentire della lettura di Gabriele D’Annunzio, la cui prorompente fonetica aveva incuriosito ed affascinato il giovane al tempo degli studi liceali. Da quella primigenia infatuazione, subito trascurata e poi abbandonata, nasce la variegata articolazione del poetare di Vincenzo Loriga, passando dalla rottura di ogni schema formale alla libertà della struttura compositiva, approdando di tanto in tanto alla più stretta osservanza della rima e in particolare di quella alternata. Non restano molte tracce di quel periodo poetico che lo vedono concentrato nel costruire la figura dello psicoterapeuta. Il suo studio a Roma diviene un punto di riferimento della cultura psicanalitica del tempo ed esercita una funzione di orientamento degli studi in materia.
Poi qualcosa muta. Nel 1955 nasce la seconda figlia Sabina. La madre decide di trasferirsi a Ivrea con le due bambine, avendo accettato la proposta di Adriano Olivetti di dirigere la scuola materna della moderna industria Olivetti. Il progetto avanzatissimo per quel tempo della fabbrica inserita nel contesto ambientale e costruita a misura d’uomo, suscita grande interesse nei giovani del tempo e a quella fascinazione è sensibile Mariella Gambino. Resterà ad Ivrea cinque anni. Conclusa l’esperienza nell’industria italiana più innovativa, si trasferisce con le figlie a Milano. A sua volta, Vincenzo Loriga viene coinvolto dallo stesso Olivetti nella rete organizzativa della grande azienda per macchine da scrivere e calcolatori elettrici, a riprova dei suoi multiformi interessi e della capacità di adattamento professionale. Nel 1958 va a vivere a Napoli, con l’incarico di selezionare il personale per il rafforzamento della rete commerciale dell’azienda, divenuta nel frattempo una impresa con diramazioni nei più importanti paesi industrializzati. Si tratta di una esperienza professionale e di vita molto importante, perché riguarda quale decisione prendere per i futuri dipendenti dell’azienda. Decidere il destino di centinaia di persone non è compito agevole. Le scelte si debbono compiere con grande senso di responsabilità, tenendo conto degli obiettivi dell’azienda ma anche nel rispetto della personalità e delle aspirazioni di ciascuno. La lezione psicologica e psicoanalitica debbono avere esercitato una funzione basilare nelle scelte del responsabile delle «risorse umane» di Olivetti, come si direbbe oggi.
MATERIA
La presenza al Premio Viareggio segna la prima tappa della carriera di poeta del giovane psicanalista. Non si tratta di una occasione fortuita, ma è frutto del rapporto con Bino Rebellato. In effetti, la conoscenza di Bino Rebellato, figura originale di mecenate, poeta e pittore padovano, fondatore del Premio Cittadella, lo aveva spinto a riprendere ed a proseguire la ricerca poetica. Ed ecco l’occasione per presentare in vista del Premio Viareggio, sotto l’egida della casa editrice Rebellato la sua prima raccolta, proprio nel 1958, superando le selezioni previste. Leonida Repaci, fondatore e reggitore degli eventi a partire dal 1929, anno di nascita della prestigiosa istituzione, era il grande sciamano del Premio e sapeva circondarsi dei maggiori artisti, intellettuali e uomini di cultura del tempo, dando lustro crescente al Premio e facendolo divenire molto ambito. Essere presente a Viareggio era una importante conquista, anche perché Repaci era riuscito a rompere gli steccati del provincialismo e aprirsi alle giovani generazioni, soprattutto a quelle di formazione marxista. La raccolta poetica dal titolo Materia non passò inosservata. Era una voce nuova nel panorama poetico dell’epoca, sospeso tra tardo ermetismo e crescente poesia sociale. La riprova si ha proprio nell’assegnazione del Premio Viareggio ai maggiori rappresentanti delle due scuole, Giuseppe Ungaretti e Pier Paolo Pasolini. La voce di Vincenzo Loriga segna una rottura inevitabile tra le tendenze prevalenti, sia nella scelta tematica che nell’uso della parola. Superamento di una introspezione fine a se stessa e di una protesta per il divenire politico e socio-economico nell’Italia della ricostruzione e del primo miracolo economico.
Eccomi qui, ridotto in questa stanza
a intrattenermi con me stesso, coi miei sentimenti
che non diventano meditazione
e non possono abbracciare la mia solitudine
non possono sconvolgere le uova del mio nulla.
Ecco l’incipit. Innanzi tutto il ritmo libero del verso, centrato sulle dissonanze più che sull’armonia, ma con la parola che emerge in tutta la sua evidenza e si presenta senza misteriose corrispondenze. La parola è per Loriga non la superficie della melodia, ma il marmo duro, la pietra scabra su cui si scolpiscono i proprio pensieri. Sono presentati senza filtri o allusività. La parole deve essere diretta. Non deve avere la criticità interpretativa degli ermetici né la voce urlata da manifesto dell’impegno politico e del realismo sociale. Ma anche la forma icastica, di rimando ermetico, riappare nella raccolta, come dichiarazione di fede alla tradizione migliore.
Le aperture di luce del futuro
gemono tarde
le sento talvolta
attirarmi a sé.
Oppure ancora più esplicito nel rimando dottrinale:
In questo secolo non c’è stata speranza
né fedeltà.
In una vuota contaminazione
l’uomo ha odiato il suo simile.
Prosegue su altri fronti questo peregrinare alla ricerca della verità, quella che ricostruisce il senso da dare alle cose e alla vita.
Io mi sento troppo solo
per amarti.
Eccomi proiettato
nel grande mulino
dell’aria.
Io sono sospeso.
Eppure
se volessi umiliarmi
non potrei.
Fino alla conclusione della raccolta, potente esclamazione del bisogno di vivere, essendo sempre se stessi.
Non più gli angeli, non più la figura senza martirio
Ma l’unica occasione: in quella volevi vivere.
Volevi riprenderti a un filo
Dove spezzata s’era più volte la forza
Di decidere e d’essere: te stessa o un’altra.
Per essere sempre più tua
O semplicemente per ripeterti nella tua verità
Puntuale, irripetibile: una sfera o una cruna.
Dove quell’«irripetibile» è riferito sostanzialmente a persona unica, identitaria, senza somiglianza altra o sosia. L’uomo è quello che è, esiste come essere irripetibile, appunto.
In questa prima raccolta di versi si avverte già prepotente il contributo che la psicanalisi fornisce al Poeta, sia nel sentire il pensiero e le emozioni sia nel modo di trasmetterli e farli conoscere. La parola diviene essenziale, definita, sicura. Non deve esserci interpretazione ma convinzione. E’ questo che delimita le condizioni della personalità umana, unica ed irripetibile, ma non isolata dal contesto più generale della società e della natura. Sono le basi di quella laicità del pensiero di Vincenzo Loriga che si farà panteismo negli anni successivi, avendo sempre grande fiducia nell’Uomo come cellula dell’universo. Unicità anche nella ricerca della felicità e dell’«Essere». Un rimando a Parmenide di Elea e più ancora a Martin Heidegger, all’esistenzialismo di cui aveva approfondito alcuni aspetti legati al comportamento della psiche durante il soggiorno a Parigi e alla fenomenologia, fino a forme di nichilismo che affioreranno nelle opere ultime del Poeta. In particolare, la concezione dell’Essere come conquista della conoscenza è per Loriga un punto impegnativo per contestare e ostacolare la formazione nella coscienza individuale del potere ontologico. Tuttavia, la Poesia è l’espressione massima del sapere e dell’esperienza in linea con la fenomenologia.
IL TEMPO DELLA PSICANALISI
Conclusasi l’esperienza del Premio Viareggio e la collaborazione con Adriano Olivetti, Vincenzo Loriga si concentra sull’attività professionale. Gli studi a Zurigo e le prime esperienze come psicoterapeuta gli consentono di partecipare al dibattito che si andava aprendo sulla psicanalisi junghiana, all’ insegnamento della psicologia analitica e dei suoi contenuti che in quegli anni si andavano precisando sul piano scientifico e metodologico. A Roma si dedica all’attività di psicanalista e nello stesso tempo insegna letteratura italiana nei licei della capitale. Il rapporto con la parola è costante, anche per ragioni didattiche. L’insegnamento di Dionisotti e di Sapegno sono utili supporti alla sua ricerca sul linguaggio, ma è la psicanalisi che lo conduce a portare avanti studi innovativi, unitamente a colleghi e amici, mettendo a frutto la vastissima cultura che si è andata addensando nella giovinezza e nella prima maturità. Conosce Paola Mazzetti, a cui si lega per sempre. Paola Mazzetti è stata spettatrice, da bambina, di una terribile vicenda nei pressi di Firenze, in compagnia della sorella gemella Lorenza, nel corso della Seconda guerra mondiale. I nazisti avevano trucidato nella villa del Focardo, senza pietà e soprattutto senza ragione, la famiglia di Robert Einstein, cugino del celebre fisico Albert. A quel tempo Robert Einstein aveva avviato nella tenuta agricola nei pressi di Rignano sull’Arno un interessante sistema di allevamento zootecnico, oggetto di studio da parte degli agronomi e degli agricoltori della zona. L’eccidio era avvenuto probabilmente per vendetta nei confronti del premio Nobel che aveva abbandonato la Germania e si era dedicato negli Stati Uniti, con altri scienziati tedeschi, agli studi sulla fissione e sulla fusione dell’atomo che avrebbero portato nel 1945 alla costruzione della bomba atomica.
Paola e Lorenza erano figlie di una sorella della moglie di Robert Einstein, Olga Liberati. Avendo perso entrambi i genitori in giovane età, dopo un breve soggiorno presso una balia ad Anticoli Corrado, nelle vicinanze di Subiaco, erano state ospitate dal pittore Ugo Giannattasio. Ma la sorella della madre, Cesarina, moglie di Robert Einstein, dichiarò la disponibilità dalla propria famiglia, di prendersi cura delle nipoti. Così Lorenza e Paola si trasferirono nella villa di Rignano sull’Arno, frequentando la scuola elementare unitamente alle cugine, con le quali hanno condiviso mesi di spensieratezza e di allegria, circondate anche dall’affetto del personale di servizio e dei contadini. L’eccidio è avvenuto nell’agosto del 1945, un giorno prima dell’arrivo degli alleati per la liberazione di Firenze e della Toscana. Robert Einstein, che si era unito ai partigiani nella zona del Mugello, non sopportando il devastante dolore per la perdita della famiglia, tentò dopo il suicidio immediatamente dopo la tragedia. Visse nella disperazione qualche mese, togliendosi la vita nella primavera del 1945. Purtroppo, la strage è rimasta impunita, nonostante le numerose sollecitazioni di aprire una inchiesta. Anche Albert Einstein è intervenuto presso il comando militare americano di stanza in Italia, subito dopo l’assassinio dei parenti, ma senza successo. Le due sorelline sono state affidate a un tutore, nominato per gestire i beni lasciati in eredità dagli zii Cesarina e Robert Einstein. Lorenza Mazzetti ha posto al centro del suo libro Il cielo cade, pubblicato da Garzanti, la tragica vicenda, ottenendo il premio Viareggio come opera prima nel 1961. Dal romanzo Suso Cecchi d’Amico ha tratto la sceneggiatura per un film dallo stesso titolo nel 2000. Tra gli interpreti risultano Isabella Rossellini e Jeroen Krabbè. Il film ha ottenuto il premio al festival di Giffoni. Lorenza Mazzetti è deceduta all’inizio del 2020, poche settimane dopo la scomparsa di Vincenzo Loriga.
L’esperienza terribile della strage segnerà in maniera indelebile le due sorelle gemelle che resteranno unite per tutta la vita, pur prendendo strade diverse. Il sodalizio tra Paola Mazzetti e Vincenzo Loriga si trasformerà in una esperienza di amore e di vita, cementata ogni giorno di più dalla ricerca di emozioni e sentimenti profondi, anche tra i più contrastanti e talvolta confliggenti. Ma è stata proprio la capacità di misurarsi quotidianamente con l’altro da sé che ha fatto di quell’amore un esempio di modernità e di cultura e che lascerà tracce significative nella poesia dell’uomo. Infatti, l’amore per la ragazza segna una fase nuova della vita del giovane psicanalista e docente di letteratura. Quella che prepara la stagione poetica della maturità, mettendo a frutto l’esperienza di vita e le suggestioni professionali. La vita culturale della capitale è in pieno fermento all’inizio degli anni Sessanta. Il cinema è il punto catalizzatore delle energie creative più fresche e genuine e annovera tra questi la stessa Lorenza Mazzetti che aveva maturato una importante esperienza cinematografica in Inghilterra, accanto ai protagonisti del Free cinema. E’ la stagione dei grandi film, come La dolce vita, La grande guerra, Rocco e i suoi fratelli segnano una svolta nella produzione cinematografica, confermata successivamente da La ciociara. Il neorealismo è ormai lontano e nuovi orizzonti si aprono ai giovani registi e attori. L’avventura di Michelangelo Antonioni apre le porte a cinema dell’introspezione. Il gattopardo segna il punto delle grandi produzioni di Luchino Visconti, accanto a Senso di qualche anno prima. Hollywood si accorge dei registi italiani. Dopo la stagione nel neorealismo e della commedia all’italiana, inizia una fase di ricerca di un linguaggio originale con Pier Paolo Pasolini, Francesco Rosi, Elio Pietrangeli, Gillo Pontecorvo, Nanni Loy e tanti altri. Sul piano musicale, il «dominus» è Goffredo Petrassi, mentre si affaccia la musica dodecafonica con Roman Vlad. La pittura e la scultura subiscono una profonda trasformazione con l’apparizione della Pop art e la scuola di Piazza del Popolo è il punto di attrazione dei giovani artisti, mentre continua a trascinarsi stancamente la polemica tra figurativo e astrattismo: Giorgio de Chirico e Renato Guttuso da una parte, Afro Basaldella, Alberto Burri, Giulio Turcato, Piero Dorazio, Carla Accardi, Achille Perilli dall’altra. Tuttavia, è la letteratura che dovrebbe subire le trasformazioni più profonde con la nascita del «Gruppo 63» animato da Edoardo Sanguineti e Nanni Balestrini, ma la dominanza di Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Carlo Cassola frena ogni sovvertimento della forma. Carlo Emilio Gadda prosegue il suo percorso solitario, come tanti altri. La poesia cerca di distinguersi, aprendosi alla lezione di Brecht, Lorca, Majakovkij, Machado, Neruda, Eluard ma non riesce a superare l’eredità di Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Vincenzo Cardarelli, Corrado Alvaro e tutto il seguito di poeti dignitosi, di cui quasi nessuno riesce ad emergere sul piano nazionale, a parte Amalia Rosselli.
Di questo contesto Vincenzo Loriga è testimone, ma non partecipe direttamente, non essendo legato a nessun gruppo. La locuzione di appartenenza a questa o a quella corrente non lo interessa. Per cui assiste da lontano e con una certo distacco allo sviluppo degli avvenimenti artistici e letterari. Riconoscerà molto più tardi che l’isolamento voluto lo ha reso estraneo ai processi editoriali e commerciali che si addensano attorno ai vari premi letterari, la cui «domina» romana continua a essere Maria Bellonci. Non rinuncia alla sua passione per la musica, ma predilige la forma classica, il suono trattato come controllo dello slancio creativo. Pertanto, è l’attività professionale che lo impegna maggiormente e tutto il resto è godimento estetico, privato, coltivato in solitudine, assorbito come sentimento ed emozione maggioranti del vivere quotidiano sul piano intellettuale. Ma il demone della comunicazione non lo abbandona. Dal 1980 si reca periodicamente a Milano, dove lavora come psicanalista, facendo supervisioni e training a giovani psicanalisti e tenendo lezioni presso l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA). In tale contesto professionale e culturale nascerà la rivista “La Ginestra. Quaderni di cultura psicoanalitica” che Loriga contribuirà a creare con i colleghi.
Ma prima ancora sono le riviste «La pratica analitica» e «Quaderni di Psiche», che Loriga fonda in quegli anni, che consentono di intervenire puntualmente nel dibattito scientifico e culturale. Tuttavia, sono i Quaderni di cultura psicanalitica «La Ginestra» che condurrà per tredici anni, precisamente dal 1992 al 2004 che segnano il suo impegno maggiore. I Quaderni costituiscono un punto importante di approfondimento dei vari temi trattati con la sua attività professionale, spaziando dalla filosofia all’antropologia, dalla sociologia alla narrativa e alla poesia avendo al centro il tema fondamentale del linguaggio. Egli può fare tesoro di un gruppo di redattori e di collaboratori che dalle pagine di ogni numero, danno il punto delle differenti tendenze. Capo redattore è Pietro Andujar, allievo e amico di Vincenzo Loriga che resterà nella redazione dei quaderni fino al termine. La psicanalisi, che si propone tra l’altro di sondare, scandagliare, radiografare ed evidenziare i diversi aspetti dell’animo umano, facendo leva sulla parola e le suggestioni del linguaggio, è il faro dell’interesse poetico. Non solo psicanalisi, ma anche poesia, prosa poetica, narrativa, teatro, musica, arti visive man mano che si palesano nel vissuto. Già dal primo numero, il testo di presentazione enuncia le linee guida del piano di lavoro.
“Quante volte, da ragazzi, non ci è capitato di pensare al mondo, nelle nostre fantasie notturne, come a uno spazio senza fine, senza fine e senza principio, dove la mente si smarriva (e così, alla fine, si prendeva sonno). La logica però ci insegna che lo spazio è finito, e formicola di oggetti che, appunto, lo definiscono. Una piccola contraddizione, che dimostra quanto sia complesso il concetto di spazio.
Nessuna meraviglia dunque, se, come osserva Emmanuel Anati nel suo bel saggio, l’uso comune preferisce al termine dello spazio, quello di luogo.
E nel luogo si abita. Nel luogo si opera. Nel luogo non ci si perde. Esso è spazio ridotto alla misura umana, gestibile da noi. Come la casa per esempio. Dove possiamo anche rispecchiarci, o prolungare, idealmente, il nostro corpo e la nostra persona. O come il setting analitico, la cui struttura varia, anche materialmente, a seconda della scuola cui l’analista appartiene e del suo modo di intendere l’analisi (se ne parla nel dibattito di apertura). Altri saggi – e, in maniera divertita, un dialoghetto di Pier Achille Barzaghi – affrontano il tema spazio sia sul versante filosofico che su quello estetico».
Consultare la collana di «La Ginestra» sarebbe oggi fondamentale per ricostruire lo sviluppo della formazione del Poeta e soprattutto del grande poema della tarda età, intitolato Lisboa antigua. Il suo rifiuto di ogni schematismo e soprattutto il rigetto del dogmatismo lo avevano allontanato dal marxismo, portandolo ad avvicinarsi agli ambienti di Giustizia e Libertà che da lì a poco avrebbero dato vita al Partito radicale, al quale Loriga è rimasto sempre legato.
è un periodo di profondi cambiamenti nel costume e nel modo di pensare degli Italiani, anticipato da un dibattito molto intenso nel mondo della cultura e delle arti e che si svilupperà negli anni Settanta. Il terrorismo interromperà questa stagione felice di rinnovamento della società e della cultura. A questo travaglio non poteva non rispondere la politica, a cominciare dalla Democrazia Cristiana e dalle forze di matrice marxista. L’atteggiamento di Vincenzo Loriga è di grande attenzione per i problemi della libertà di opinione e di espressione, per la conquista di fondamentali diritti civili che avranno una profonda incidenza nella formazione della coscienza individuale e collettiva. A questo processo, Loriga non è spettatore soltanto, ma vuole essere protagonista, intervenendo con le due riviste nei momenti cruciali della vita del Paese. Ecco perché diventa necessario studiare a fondo quel periodo per capire meglio il contributo de «La Ginestra», di Vincenzo Loriga e del gruppo di intellettuali e di artisti che si sono riconosciuti in quella testata.
Sul piano letterario e poetico, al centro c’è il linguaggio, l’interpretazione della parola, il significato da dare alle cose reali e la relazione tra Essere e divenire, realtà e sogno, tra materia e morale, tra coscienza e psiche. La parola deve essere lo strumento della relazione tra pensiero e senso, oppure un mero fonema? Vincenzo Loriga conduce una battaglia per dare alla parola il senso di sé, quello che fanno altrove Roman Jakobson e Michail Bachtin, Jurij Lotman; in questo modo la parola diviene uno strumento della fenomenologia del pensiero poetico e dello slancio creativo. Rappresentare la realtà come si presenta è l’ambizione del gruppo de «La Ginestra» in tutti i campi. Bisogna anche considerare la contemporanea esperienza dei quaderni di cultura psicanalitica riconducibili a «La Ginestra», accanto alle due riviste fondate nello stesso periodo. Si tratta di due testate che hanno una grande importanza nello sviluppo del dibattito teorico sulla psicanalisi e sul suo ruolo nella cultura e nella società.
La collana si apre presentando gli obbiettivi principali, da cui si evince l’ambizione di offrire un contributo più generale alla discussione in atto nel Paese. Parte proprio con i temi della parola e del silenzio, «suo indivisibile compagno».
Questa collana mira a istituire un confronto – il più possibile aperto – fra le diverse scuole della psicologia dinamica. E a riproporre il dialogo fra psicanalisi e cultura privilegiando gli orizzonti della ricerca su quelli – più immediati e ristretti – della pratica terapeutica.
Fa parte di questo programma la progressiva abolizione degli steccati linguistici e gergali che mentre rendono meno trasparente l’evento psichico, creano anche inutili barriere fra una disciplina e l’altra.
Vincenzo Loriga e gli altri curatori, sulla quarta di copertina, scrivono:
“Questi quaderni avrebbero un’ambizione: ridare concretezza al linguaggio. Sotto accusa non è soltanto il gergo psicanalitico, molte altre discipline soffrono di questo vizio, non dicono ciò che ci tocca, ciò che è reale, che sentiamo più prossimo. E’ il trionfo della parola specialistica, o della parola passepartout (basta pensare, per quest’ultima, a un termine come “creativo”, diventato una specie di toccasana per ogni situazione deficitaria). Questi due tipi di parola, apparentemente antitetici, in realtà si muovono a vicenda. Obbediscono infatti ad una stessa esigenza: quella di sorvolare sulla realtà concreta. La parola specialistica sembra avere rinunciato agli appetiti che percorrono la parola normale; mentre la parola passpartout pensa di poterli soddisfare con un colpo di bacchetta magica – e per questo è giuliva. Una fuga dal desiderio, o una magica scorciatoia per il suo appagamento.
Contro questi due atteggiamenti noi vorremmo riaffermare la dignità della ricerca culturale, la sua “autonomia”, ricordando che essa, quando persegue suoi fini, ha la stessa innocenza della sua avversaria, la natura. La quale, come già connotava Leopardi, non si cura del benessere dei singoli, guarda oltre. Oltre la religione, e oltre la morale, questi due insigni custodi del principio di autoconservazione. Guarda al futuro della specie, o alla sua evoluzione”.
I Quaderni sono dunque uno strumento di conoscenza e di analisi, strutturati per tema, con un corpo redazione di notevole qualità. Alcuni titoli danno la dimensione del lavoro svolto: L’occhio e lo sguardo, L’Io è un altro?, Il tradimento, La colpa, Castrazione e autocastrazione. Bisogna tenere conto che ad ogni titolo corrisponde uno studio che dà corpo ad un volume di centinaia di pagine. La casa editrice Franco Angeli si è fatta carico di pubblicare l’intera collana, offrendo così una strada di conoscenza di uno dei momenti più significativi del dibattito culturale, proprio nel periodo di trasformazione del Paese con la dissoluzione della cosiddetta Prima Repubblica.
LA POESIA
REGINA DEGLI INGANNI
La seconda raccolta poetica vede la luce nel 1985, quasi trent’anni dopo Materia. Ed è uno choc, una novità dirompente. Il titolo Regina degli Inganni è significativo. L’editore della raccolta è Crocetti, benemerito nel campo della poesia per lunghi decenni. Ma chi è la Regina degli Inganni? Cesare Viviani, nella bella e intesa prefazione alla raccolta, opportunamente scrive:
“Dopo un viaggio solitario nasce il desiderio di fare un dono: tanto più mite e fecondo a volte, quanto più lungo è stato il ritiro. Vincenzo Loriga … ha camminato da solo, fuori dalla società letteraria, e ora ci regala un libro luminoso e aperto. E’ il libro dell’Amore. Dove c’è, come nell’Amore, la radiosa coincidenza della pronuncia con fiore, della lingua con l’uditore. Qi non si può applicare la distinzione del «significante»: la vera poesia non la permette. Qui si svolge l’unica storia che da sempre rifiuta la buona educazione e il riposo: non c’è tregua nell’Amore. Allora siamo di fronte a una scrittura che dice le sue vicissitudini o, meglio, a un senso che miracolosamente esprime la sua teoria. Non c’entra la psicologia o l’emozione: c’entra la Storia, quella vicenda che ha rapporti stretti con l’inevitabile”.
E la Storia è la quotidianità vissuta anche con ironia, distacco, allontanamento. La Storia non è fatta di eroi o di eroine, ma di persone che vivono nella stessa casa, che s’incontrano per strada, che frequentano il proprio spazio vitale. La donna è archetipale, in questo senso, ma priva di aurea mitologica o idealizzata. Figura comune che si staglia nella vita dell’uomo. Ecco il bellissimo inizio della raccolta:
Ammazzarti cara non è
un’impresa facile né
mi solletica ma per te
farei qualunque cosa
e tu dici che la fortuna
dipende dalla luna
tu ti intrometti tu balbetti
i tuoi seni sono perfetti
la tua grazia – che strano viso
è il tuo
la tua grazia – che paradiso
mi prometti, benché scordata
e stanca, perché non provi
a truccarti?
Mirabile quel « …perché non provi/a truccarti?» che fornisce appunto la quotidianità, si potrebbe dire la banalità, di un gesto compiuto da milioni di donne. Nel contesto, quell’incitamento fornisce tutta la confidenzialità della coppia e lascia aperta la strada alle esperienze della vita e soprattutto dell’amore che il verso «i tuoi seni sono perfetti» accresce di attesa non più estetica.
S’incontra un quesito che attraversa l’intera creazione di Loriga riguardo al carattere autobiografico della sua opera. Si tratta di vissuto trasferito nell’alone dell’arte o la suggestione dell’arte sul vissuto astratto, mentale, comunque non completamente autobiografico? Non c’è nessuna creazione artistica che sia avulsa dal contesto reale, anche quando è la più rarefatta e metafisica. Adelaide, Renata, Dora: come interagiscono tra di loro, o sono un gioco di specchi?
Sognavi un sogno. E il to capino biondo
Si illuminava a tratti. Eri diversa.
Sui glutei ferma era la luce, ferma
La mano che accarezza.
La mia sottile verga era la fionda
Che ti sbalzava verso un altro cielo.
Non è facile trovare nella poesia del secondo Novecento una concisa raffigurazione dell’amore in tutta la sua carnalità. Salvo che non sia provocazione o esibizionismo. Vincenzo Loriga riesce magistralmente ad imprimere sulla carta quello che il pittore fa sulla tela e lo scultore nel bronzo e nel marmo. Ma quel gesto d’amore in tutta la sua carica visiva non ha nulla di offensivo o di volgare. Forse trasgressivo. Ma è la qualità della poesia che rende la scena quasi magica, un fotogramma di Luis Buñuel, di Ingemar Bergman, di Michelangelo Antonioni o di François Truffaut.
Cosa nasconde questa misura mirabile del verso di Loriga? Il lungo percorso che porta da Materia a Signora d’Inganni è fabbricato con pietre e malta impastate dalla meditazione sull’Essere e sulla sua natura nel Novecento, sulla ricerca, sulla scoperta e sull’approfondimento della donna nel divenire nella vita, in cui la contemporaneità non è soltanto emancipazione e liberazione dalla tradizionale condizione minoritaria, ma diventa strumento di vita, piacere, sensualità, carnalità, sangue e carne da conquistare e che conquista l’opposto, l’uomo. un inno all’eros nel senso primigenio, ovvero vita e rinascita, un arché magico che la psicanalisi invera in comportamenti scevri da moralismi e pudori ancestrali.
Chi è la Signora degli Inganni tra le partecipanti al “catalogo” del Poeta? Leggendo i versi dedicati a colei che viene nominata di volta in volta, viene da pensare che è lei la Signora. Ma è così? A seguire il percorso poetico, in ci l’intensità erotica si misura con le diverse identità, ma sempre travolgente, è facile pensare che sono tutte signore d’inganni, salvo che non ci sia un continuo sdoppiamento, a seconda delle circostanze. Colpisce in alcune poesie un voluto scivolare sulla sessualità più esplicita e anche trasgressiva. Vincenzo Loriga poeta è uomo fatto di sensi, ma pur travolto dall’emozione erotica, non abbandona il rigore compositivo, utilizzando la parola per rappresentare seduzioni, sensazioni, eccitazioni e piacere fino al dolore provocato dall’actio in sé. Un vero manuale poetico sull’erotismo nobilitato da un linguaggio controllato e messo alla prova. Questa prova è nella reazione del lettore, nella partecipazione all’esaltazione dell’attesa, allo spasimo del godimento, alla delusione talvolta e al dolore del distacco. Il Poeta manifesta un rispetto per la donna che appartiene alla cultura di genere che negli anni Ottanta non era scontata. A ciò ha sicuramente contribuito l’esperienza della psicanalisi nella quale la componente erotica ha una sua rilevante presenza. Ma il Poeta non avrebbe potuto rifugiarsi nel sentimentalismo lirico oppure nella cruda terminologia usata da altri poeti a lui contemporanei. Per questo prosegue il suo cammino iniziato con Materia.
In questo sta la grandezza di Loriga, ovvero nella sua capacità di rappresentare situazioni vissute con linguaggio che oggettivizza ogni momento. Si tratta di esperienza autobiografica? Poco importa ai fini della resa poetica, dipendente dalla sensibilità del Poeta e dalla sua capacità di trasmettere agli altri le proprie sensazioni. Se l’Ars amandi di Ovidio, il Canzoniere di Petrarca, alcuni idilli e canzoni di Leopardi del ciclo di Aspasia, per restare in ambito latino, sfociano in Baudelaire, Emile Dickinson, Pablo Neruda, Boris Pasternak, Paul Eluard, Nazin Hikmet che costituiscono monumenti poetici del loro tempo, Loriga tesse un abito mentale dell’erotismo intelligente e allo stesso tempo, come scrive Cesare Viviani nella prefazione, “luminoso e aperto”.
Ti volevo, cara, ti voglio
Modellare con mani certe
io, le mie mani, cara, senzienti
sono, anche loro, e sognano di farti
male talvolta; una beltà fiorisce
solo così, se la si sveglia,
se non si cede alla sua
indolenza primaria,
ed ai suoi cervellotici sospiri.
Se mi sei figlia, è amaro il tuo sorriso,
se diventi nel sogno, brutta e sciocca
(ti si sgrana la pelle, qualche volta),
io non posso che renderti gemella
di me, dei miei bisogni
più urgenti.
Nell’ambiguità dell’intravisto si precisa e si misura il messaggio del Poeta. Quel «Se mi sei figlia» è un vero manifesto dell’ambiguità che fa della poesia un veicolo di riflessioni e di interrogativi.
Il pensiero è come
un navigatore
che procede senza
bussola, che va come
a tentoni, il mio pensiero
è sterile, peccato!
Ma tu, mi hai amato
come si deve, come
è logico pensare
che mi ami? E’ questo il tuo peccato,
cara, che mi hai tradito
nel più vivo del desiderio, nel
coito d’amore.
Questo, mia bella, è il tuo
peccato, per cui piango e ti castigo.
Ecco la parola che si erge e domina ogni sensazione, con precisione meticolosa, senza nessuna enfasi o ricerca di effetto o peggio, nascondimento furbesco. Il linguaggio che si fa poesia perché la normalità (verrebbe da dire la banalità!) del quotidiano diventa lirica perdita del godimento atteso. E prima ancora uno struggente momento di attesa:
Attimi in serie, e voi che esorcizzate
l’anima con obliqui gesti, voi
che non sapete nulla della vita
– calda vita che scorre come sangue –
potreste mai sanare una ferita
che brilla come punta di diamante?
Attimi, è questo l’attimo più bello:
zoppicando qualcuno varca il cancello.
In questo ultimo verso si ritrova una intensità emotiva che travalica l’attimo ed eleva verso un paradiso di pulsazioni e di turbamenti espressi con l’intravisto di una giornata d’attesa, magari piovosa e grigia. Ed è proprio questo un altro momento che si trasforma in autentica poesia:
La luna, vedi, è sorta
Laggiù, sorride smorta
Ai limiti del cielo, come
Una perla, di desideri
Equivoci espressione.
Fra lusco e brusco torna
Il tuo viso, il languore
Di un corpo che non sa cos’è l’amore…
Non è la luna di Leopardi, dell’interrogativo del perché della vita, ma la luna romantica e metafisica allo stesso tempo, che sottolinea «il languore / di un corpo che non sa cos’è l’amore…».
è l’eterno femminino che ci solleva, ci porta in alto.
«Ist nur ein Gleichnis;
Das Unzulängliche,
Hier wird's Ereignis;
Das Unbeschreibliche,
Hier ist's getan;
Das Ewig-Weibliche
Zieht uns hinan.»
Come suonano vere le parole in questi versi immortali di Goethe, l’ultima zampata del leone a conclusione del Faust. Come si possono tradurre questi concetti quasi surrealisti: «Adesso è una transitorietà; / E’ parabola / Solo l’insufficiente, / Qui diventa realtà. / L’indescrivibile, / Ecco fatto! / L’eterno femminino ci solleva verso l’alto.»
Cesare Viviani conclude la prefazione illuminante con parole precise e funzionali a dispiegare la natura dell’epifania di Loriga.
Voglio provare a raccogliere la poesia di ogni tempo in due grandi Scuole o Tendenze: quella del Cantare, e del Sognare. Sono, finalmente, due modi incompatibili. Faccio un esempio: il poeta è uno che si è perso nella selva. Allora si danno due possibilità, ben distinte: la prima è procedere, di avanzare Cantando, la seconda è di fermarsi, di disporsi a Sognare. Loriga sceglie di Cantare.
è ancora una volta la forza di attrazione della felicità, del godimento, del piacere che fa gridare Faust
«Zum Augenblicke
Durft ich sagen:
Verweil doch,
Du bist so schön!...
Im Vorgefuhl von solchem
hohen Gluck, Geniess’ ich jetzt
den hochsten Augenblick.»
«All’ Attimo / direi, sei così bello! / Fermati! [...] / Presentendo una gioia / Tanto grande, io godo ora l’attimo supremo.» Loriga non è Faust, e non c’è Mephisto tentatore, quanto la realtà che va esplorata alla ricerca del sogno, materializzato in figure di donne che fanno della propria personalità, in ogni senso, lo strumento dell’ascesa, quel «zieht uns hinan» che s’incontra nelle grandi storie e passione d’amore. Mephistofele, che è molto più concreto, esclama:
Sen liebt mir
Dafür des Ewig-Leere.
Ovvero «Per me io preferisco / Il vuoto eterno!». La coerenza è il tratto distintivo del Poeta, sia nel pensare che nell’agire, nel quotidiano come nell’amore che di volta si palesa e si presenta nelle diverse figure femminili, specchio magari della stessa Unsterblieche Liebe (Immortale amata) di beethoveniana memoria. La conclusione della raccolta è proprio questa coerenza che riscatta delusioni e dolore, perché la gioia e il possesso prevalgono su tutto.
La vita se ne va senza sapere
Nulla di te, che brilli in lontananza,
e relegata ai margini del cuore
ne frughi le ombre, ne decifri il senso.
La vita se va, non ha potere
Sopra di te, rinuncia a controllarti.
E si ritrova uguale anche alla foce.
Come arriva a questo miracolo? Nella vita le sorprese sono dietro l’angolo. Il Romanticismo aveva visto nella poesia una condizione quasi salvifica. Wolfgang Johann Goethe ne aveva fatto il più elevato strumento di esternazione e di comunicazione delle emozioni e del pensiero, componendo Faust nell’arco di venticinque anni, vero testamento di un’epoca. Successivamente il poeta Friedrich Hölderlin concepisce la poesia come il completamento dell’Essere: sembra tornargli prepotentemente alla memoria: «Was bleibet aber, stiften die Dichter», ovvero «Il poeta fonda ciò che resta». Questa concezione attraversa tutto l’Ottocento, partendo da Giacomo Leopardi più che dal gruppo dei manzoniani, e, nonostante positivismo e marxismo, si spinge fino alla fenomenologia e all’esistenzialismo nel Novecento. Martin Heidegger era partito dallo studio di Hölderlin per arrivare alla conclusione che «Der Dichter ist der Stifter des Seyns», ovvero «Il Poeta è il fondatore dell’Essere». Vincenzo Loriga, pur impregnato di cultura filosofica, guarda alla poesia come linguaggio per manifestare le componenti dell’Essere, ovvero i contenuti del suo «Io» profondo. Controllare le emozioni diventa un esercizio per manifestare la propria Natura. La poesia è dunque la strada per proseguire la ricerca psicanalitica. Anzi, elevare quella disciplina a dignità artistica. La parola come maieuta dell’Es. Per riuscire nell’intento, occorre possedere un bagaglio che consenta di maneggiare la materia con grande competenza e rigore. Strumenti che non mancano a Vincenzo Loriga.
SULLA PUNTA DELLE DITA
Quindici anni separano Regina degli Inganni dalla successiva raccolta, il cui titolo è di per se stesso un verso d’impalpabile musicalità. Si tratta di Sulla punta delle dita (Book editore, 2004). Il primo lampo accecante è una terzina marmorea:
Cerco la mia libertà
Con gesti secchi d’automa.
E filiforme avanzo nella luce.
La luce avrà nella poetica di Loriga un ruolo importante, luce intesa come sapere, conoscenza, scoperta, impegno, tensione morale, volontà. La conquista della luce, la condizione dell’Io, della personalità, della maturità nell’uomo contemporaneo, come lo era nell’uomo medievale («Considerate la vostra semenza, / Fatti non foste per viver come bruti, / Ma per seguir virtute e canoscenza») e come lo sarebbe stato nel Rinascimento, principalmente con Leonardo da Vinci, Alessandro Pico della Mirandola e Erasmo da Rotterdam. La luce di cui parlava Giovanni nel libro sulla vita e la passione di Gesù di Nazareth: «Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς» («E gli uomini preferirono piuttosto le tenebre che la luce»). La luce è rifiutata dall’uomo perché il buio protegge mentre la luce acceca, il buio nasconde e la luce rivela, il buio è sicurezza mentre la luce è giudizio come severa sentenza.
In questa raccolta è ancora vivo il richiamo all’amore, al sesso, al possesso carnale. Sono aspetti che torneranno più tardi nella poetica di Loriga, particolarmente nel poema Lisboa antigua. Passioni che si addensano e tingono il giorno e la fantasia, le emozioni e il sentimento. Talvolta con sottile malinconia, altre volte con esplosioni di sensualità. Il tutto sempre nel contesto di una vitalità che assume la natura e il contesto in modo preciso. Qualche volta c’è l’eco dei luoghi frequentati e amati, come Bolsena dove il Poeta trascorre i mesi estivi, senza mai citare la cittadina estrusca; altre volte la realtà urbana, l’astratto firmamento e l’inafferrabile universo: tutto concorre a delineare una dimensione spirituale del momento. E la parola, dosata con grande sapienza, diventa il vettore fondamentale per condurci nel profondo del pensiero.
Sulla riva bianca del mare
le case sono pronte a salpare
portandosi dietro il tuo blu,
irritante cielo di marzo.
Nella notte bianca dell’anima
le stelle pronte a volare
in su, sempre più in su,
nel cielo che sembra un altare.
Le assonanze fonetiche non sono fine a se stesse, mera musicalità ma hanno la densità di un precipitato chimico. La rima, usata da Loriga in modo non frequente, assume valore assertivo, funge da rafforzativo del ritmo armonico. «Mare», «salpare», «volare», «altare» sono fonemi che assumono la dimensione di un grumo interiore che si disperde soltanto nell’ «irritante cielo di marzo» con «le stelle pronte a volare» in uno spazio aereo, ovvero «nel cielo che sembra un altare».
Infine, un esempio di quella severità nell’impiego della parola che è l’assioma del Poeta. Esempio che potrebbe essere una epigrafe di tutto il lungo periodo di incubazione della poesia di Loriga.
Sulla punta delle dita
si rincorrono i sospiri.
Sulla punta delle dita
il desiderio si trastulla.
Al vento piange lo scriba,
e il vento gli ruba i versi.
Nell’attesa del futuro
il vetro dell’occhio si affila.
Ancora una volta la luce per rivelare il futuro, la volontà di proseguire nonostante difficoltà e impedimenti come quel vento che ruba il versi allo scriba. Nella parola «scriba» c’è tutta la forza della scrittura, dall’inizio dei geroglifici al cuneiforme accadico e ai segni dorici ed ellenici. Fino all’ultima lirica vergata come sfida al senso comune:
Con passo felpato i morti
scalano le vette lontane e l’erba
appena se ne lamentano.
Erano scesi appiè della montagna
per ritrovare il gusto della terra,
ma il sole, dritto all’orizzonte, sferra
il suo pugno d’acciaio contro la marmaglia.
Ancora la forza della luce per aprire la strada della verità sulla marmaglia fatta da ombre che sanno di oscura caverna platonica, questa volta folgorata dal «sole, / dritto all’orizzonte». E si potrebbe continuare nella costante ricerca della coerenza nella crescita poetica di Loriga.
NON SENTIRO’ PIU’ SCARLATTI
Ed ecco nel 2008, un sorprendente nuovo concerto creativo. Un salto in avanti nella comunicazione di quel valore del linguaggio, di cui si è detto. Questa volta è la musica, appena evocata ma che permea l’intera raccolta. Disciplina amata dal Poeta come misura dell’ordine mentale e del controllo delle emozioni. Non la grande musica romantica, trascinante negli orizzonti del sogno e dell’abbandono, ma le grandi cattedrali di Johan Sebastian Bach di Das wohltemperierte Klavier, Der Kust der Fuge e le Sonate per violino e quelle per clavicembalo e strumenti a corda o fiati, le accensioni sonore e ritmiche di Domenico Scarlatti, la solarità sempre controllata di Wolfgang Amadeus Mozart, la meditata visione onirica di Fryderyk Chopin, la selvaggia irruenza di Modest Petrovič Musorgskij, la leggerezza armonica di Claude Debussy, le forsennate corse nel primitivismo o la navigazione calma nel rarefatto neoclassicismo di Igor’ Fëdorovič Stravinskij. Ma su tutti primeggia Scarlatti. Loriga ne parlava da musicologo esperto e attento, come dimostra il prediligere le esecuzioni delle Sonate da parte di Wladimir Horowitz in primo luogo e poi di Arturo Benedetti Michelangeli. Esecuzioni asciutte, con rispetto estremo dei tempi, dal ritmo sempre controllato e dalle sonorità misurate. L’esecutore, clavicembalista o pianista che sia, è soltanto il tramite del suono che deve essere quello dell’autore, così come risulta e risalta dal pentagramma. «L’arte più è controllata, misurata, levigata, più è libera»: questo pensiero di Igor’ Stravinskij si addice perfettamente alla concezione che il Poeta ha del suono e della parola.
Questa raccolta poetica è un omaggio al grande maestro napoletano del Settecento. Non è una scelta fine a se stessa, perché Scarlatti non è mai citato, ma è il corpus della sua musica che caratterizza la raccolta poetica, come una necessità di essenzialità, di concretezza estrema, di precisione chirurgica nel rappresentare situazione, sentimenti, passioni, delusioni e rinunce. Una sonata in un solo tempo, dal respiro breve, con il primo tema seguito dal secondo, talvolta dalla variazione e dalla ripresa di entrambi in fitto dialogo, fino alla coda finale. Una fantasia smisurata fa delle 555 sonate del maestro napoletano uno dei vertici della musica, non soltanto del Settecento.
Silenzio, voglio sparire,
ma senza spostarmi di qui.
Non voglio, dico, che un muscolo
Tradisca i miei sentimenti.
E il tempo, vada a ramengo,
non batta più sul cuore.
Lo voglio strozzare, il tempo,
con tutti i suoi succedanei.
Essere statua o farfalla.
Musica, sii la mia balia.
Domenico Scarlatti ha avuto un funzione importante nella musica strumentale italiana, con incursioni nella cantata e nella musica sacra. La sua scrittura risulta modernissima per il tempo che la compone e apre la strada alla grande scuola napoletana. Come poteva questa tessitura così stretta, fatta di calcoli matematici precisi, al pari di Bach, Händel e Telemann, non affascinare Vincenzo Loriga! La musica romantica non lo ha mai travolto. Ludwig van Beethoven, Car Maria von Weber, Franz Schubert, Felix Mendelsson, Robert Schumann non lo hanno fascinato con le loro tensioni sonore legate a passioni travolgenti, abbandoni melanconici, slancio civile. Preferiva la serena classicità di Mozart per la solarità e linearità inventiva, quasi sempre misurata e controllata in una rispondenza al pensiero, al sentimento e alla morale che non può che lasciare sbigottiti ancora oggi. Claude Debussy, espressione somma del simbolismo, potrebbe sembrare una contraddizione nelle scelte del Poeta, ma ascoltando i suoi brani per pianoforte, per clarinetto, oltre alle suite per orchestra ed il poema sinfonico La mer, si coglie la misura estrema del musicista nel controllare le masse sonore per renderle aderenti all’ispirazione e al pensiero che rivela l’idea tematica. Lo stesso per gli altri maestri del Novecento, principalmente impegnati nel rinnovamento del linguaggio senza furbizie sperimentali.
Tutto questo si ritrova nelle composizioni poetiche contenute nella raccolta Non sentirò più Scarlatti. «Silenzio, voglio sparire, / ma senza spostarmi di qui […] / Lo voglio strozzare il tempo, / con tutti i suoi succedanei. /. Essere statua o farfalla. / Musica, sii la mia balia.» La musica come veicolo di sogno e poi come fattore di risveglio e di crescita nel presente. In questo ultimo verso c’è tutta la forza creatrice della musica che invera se stessa nella densità e precisione materica, generando quel sogno di «sparire, / ma senza spostarsi di qui».
Si tratta di una ulteriore conferma del valore maggiorante del linguaggio, quando diviene scienza e perfezione di forme, come nel caso delle Sonate di Domenico Scarlatti che Loriga ascoltava e riascoltava continuamente, prediligendo la versione originaria clavicembalistica. Nella scelta del titolo c’è il segreto della costruzione poetica. Apparentemente estraneo ai temi trattati, il titolo è la sintesi estrema della creazione e nello stesso tempo la chiave di lettura dell’insieme. Brevi idilli, di leopardiana memoria, modellati e cesellati come sonate armoniche, sia che si tratti del verso libero che della rima vagamente prescelta, ma tutti controllati del meticoloso bilancino mentale del Poeta e che hanno la scansione matematica dei tempi. Una scelta che Loriga porta avanti fin dall’inizio e che costituisce una sorta di imprinting di tutta la sua poesia.
LISBOA ANTIGUA
Si giunge così al vertice della rappresentazione di un intero percorso esistenziale. Un poema grandioso, smisurato. ll Poeta vi ha lavorato per oltre vent’anni, attendendovi qualche tempo e poi riponendo nel cassetto il testo; la necessaria sedimentazione diventava un arresto della volontà creativa, come a volere fermare il tempo in quello scorrere degli accadimenti dalla sconcertante quotidianità. La scintilla del caso riaccendeva la volontà di raccontare e di scandagliare se stesso e il lavoro proseguiva, per fermarsi ancora e ancora. Fino alla conclusione, quando il Poeta ha superato la soglia dei Novanta anni. Una magia, a tutti gli effetti.
Prima ancora Vincenzo Loriga aveva dato alle stampe Regina degli inganni con la prefazione di Cesare Viviani per i tipi di Cortina editore nel 1985. Nel 2002 aveva visto la luce L’igrone, Zona editrice, innovativa raccolta di racconti che oscillano tra il fantastico e il realistico, fino ad alcuni esempi di verismo. Si tratta di un passaggio impegnativo alla prosa. Ma una prosa in cui, ancora una volta, la parola è misurata e controllata fino all’inverosimile. Sono nove racconti, il cui primo titolo, L’igrone caratterizza la narrazione.
Era un duello vero e proprio, quello che avveniva fra l’igrone e il cacciatore. Un duello coi fiocchi. Ci si squadrava, ci si annusava, come fra rivali sperimentati. L’igrone, da buon rettile, non faceva rumore. Si presentava all’improvviso, quasi fosse sorto dal nulla. Una visione? Forse. Il cacciatore vedeva davanti a sé oscillare una tonda testina e, poco dopo, spuntar fuori il corno: aguzzo, liscio, micidiale. L’occhietto della bestia, intanto, sfavillava: tra ironico e furbesco. Quasi dicesse: eccoci. Eccoci qui riuniti. Per pochi istanti forse, ma cha valgono secoli.
L’igrone, il cacciatore, il Lestofante, Malombra: quattro figure antitetiche eppure complementari nella vicenda grottesca che ricorda Franz Kafka, fino all’epilogo.
Il Lestofante usava muoversi il meno possibile, una volta seduto; solo la sua testa girava, insensibilmente, sul collo, da sinistra verso destra, come la lancetta di un orologio. A un tratto, mentre ultimava la rotazione, gli mancò l’aria e annaspò. Morì di morte dolce, come se gli avessero tagliato le vene. Lo ritrovarono bocconi, sul soffice terreno paludoso, in un caldo mezzogiorno di fine luglio. Una grande nuvola bianca si era addormentata sui sassi dello stagno, e un filo di sangue usciva dalle labbra sottili e ferme del Lestofante (che sembrava dormire, anche lui, con la guancia appoggiata a un gomito.
I nove racconti contenuti nella raccolta portano la stessa cifra e costituiscono un ulteriore passo avanti nella definizione di quel linguaggio proprio cui aspira Vincenzo Loriga fin dalla sua prima epifania. Si ritrova interamente nella natura poetica di Lisboa antigua.
Venti anni separano i due volumi di poesia che condensano la sedimentazione poetica di Loriga e ne esprimono la profonda ricerca, da Lisboa antigua. Sono appuntamenti importanti che cadenzano lo sforzo creativo del Poeta dopo il trasferimento a Roma, conclusa l’esperienza professionale a Milano.
Questo vastissimo affresco, scritto in prosa poetica, si configura come un vero e proprio poema. Non ci sono molti precedenti nel Novecento, se si esclude La camera da letto di Attilio Bertolucci che, tuttavia, si colloca su un piano temporale circoscritto, principalmente l’infanzia e la giovinezza dell’autore. Anche la narrativa presenta casi isolati, come I Vicerè di Giuseppe De Roberto, Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, I fratelli Rupe di Leonida Repaci, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Inconsapevolmente, l’autore si addentra in un Poema che ha respiro temporale vastissimo e soprattutto capace di cogliere gli aspetti più significativi del proprio tempo. Una sorta di Recherche du temps perdu non dichiarata.
Già l’incipit precipita il lettore in un vortice che si fa gorgo nello spazio e nel tempo.
A Lisboa lui non era mai stato, né
ci sarebbe mai stato. Ma l’aveva sognata,
come il non luogo per eccellenza. Sarebbe
scomparsa con lui, e con lui
si sarebbe inabissata, punta estrema
dell’Occidente,
staccandosi dalla terra madre…
E di continuo nel testo il richiamo della canzone che è il simbolo e l’inno del fado, cantata da Amalia Rodrigues che non viene mai nominata, figura quasi numinosa del racconto.
Lisboa, velha cidade
Cheia de encanto e beleza!
Sembra a sorrir tão formosa,
e no vestir sempre airosa.
O branco véu da saudade
Cobre o teu rosto linda princesa! [...]
Chiara e Melisenda sono le figure centrali della lunga narrazione. Accompagnano il Poeta nella sua esistenza umana e professionale, si avvicinano e tornano indietro, si dividono e si adombrano, ma sono sempre lì, come un sostegno insopprimibile o se si vuole, un bisogno dell’anima come aria purificata. Tanto che si è parlato di un romanzo autobiografico. Vincenzo Loriga ha sempre negato il carattere autobiografico dell’opera, ma ha dovuto ammettere che il flusso della sua esistenza e il mondo femminile che lo ha accompagnato costituiscono la linfa della creazione, una sorta di pneuma vitale.
Campeggia la natia Sardegna con i suoi panorami e le spiagge dove si consumano i primi approcci amorosi; e poi Roma con la sua offerta didattica e culturale in cui è possibile immergersi per formare la propria dimensione e dare corpo alla coscienza. Lo studio e la ricerca universitaria, il colloquio continuo con Luigi Dionisotti, mai nominato, che contribuisce a dare al giovane una coscienza democratica molto forte, la scoperta della psicanalisi attraverso Ernst Bernhard. Poi Milano e l’inizio dell’attività professionale, cui segue la frequentazione del «Jung Institut» a Zurigo, le lezioni di Carl Gustav Jung che viene continuamente evocato come «il Maestro». L’attività professionale, i giorni dell’impegno culturale e politico con il gruppo che ruota attorno a quello che sarà successivamente il Partito radicale, costituiscono una costante di quei lunghi anni. Roma, dove vive in perfetta intesa con Paola, che suggerisce i pensieri più alti, che si collegano a quelli di Materia di cinquanta anni prima e di Non sentirò più Scarlatti.
Comincia così il percorso che porterà Vincenzo Lorica alla grande esperienza di vita che si riversa nel Poema con tutta la sua forza rievocatrice. E la musica e il sogno di terre lontane, mai raggiunte. Significativo il passo dell’ascolto del fado nella canzone Lisboa antigua e il pianto liberatorio sulle salite di Radicofani verso Firenze per la grande emozione provata. La vita nel capoluogo lombardo scorre e lascia continue tracce che sedimentano in un sincretismo che si farà solida base per il Poema, fino all’arrivo a Roma, la scelta dei tetti dominati dalle cupole di S. Andrea della Valle e di S. Carlo ai Catinari, il ritorno alla poesia come scelta irreversibile. E l’evasione estiva sul lago di Bolsena, città mai nominata e che si coglie dalle descrizioni del territorio attorno a Castello, la località dove abita nella parte alta del borgo medievale della Tuscia. Una vita urbanocentrica, quella di Loriga, ma con resa poetica e onirica di ogni aspetto, visione o manifestazione naturale, come muri scrostati e affocati nei caldi tramonti autunnali, fino alla rievocazione delle persone frequentate, comprese la sarta che gli adatta i pantaloni.
Era nato da corpo il loro amore, e da un corpo
arricchito dalla mente…
E ancora, con il dipanarsi degli accadimenti in un crescendo di sensazioni, emozioni, riflessioni e anche dolore. Al centro c’è la figura narrante, ma non è mai soffocante rispetto al contesto, semmai costituisce il punto di aggregazione di contesto umano e naturale.
Era come la Donna
Immaginaria dei poeti di Provenza,
fatta di tante diverse donne, che un
giorno o l’altro si sarebbero incarnate.
Ma non ci sono soltanto le donne, al centro del suo narrare. Si può parlare della quotidianità intesa come esigenza esistenziale, fatta di tante piccole osservazioni che suscitano emozioni e danno senso al giorno.
Lo confortò il rumore della pioggia.
Non era solo. L’Universo gli era vicino.
E lo accompagnava con la sua luce.
Ecco, la luce. Uno degli elementi che si legano alla psicanalisi, alla ricerca di senso di ogni cosa. Una terzina potente e soprattutto ricca di suggestioni profonde sulle ragioni del panteismo primigenio del Poeta, anche se è stata negata questa lettura del rapporto con la Natura intesa come originante dell’esistere e dello stesso pensiero. Il Loriga che si richiama alla filosofia è in una citazione di Georg Friedrich Hegel, riportata per sostanziare il giudizio su quella quotidianità che è la carta vincente del racconto esistenziale: «Le abitudini sono le migliori custodi dello Spirito».
Ancora una volta è il linguaggio lo strumento della rievocazione precisa, netta, talvolta aspra e finanche sgradevole, ma sempre riferita alla oggettività dell’esistenza e di ciò che circondo il divenire. La parola dominata in maniera assoluta e con padronanza formidabile. Ci si rende meglio conto delle radici di queste qualità scorrendo le riviste che Loriga ha diretto e soprattutto i Quaderni de «La Ginestra», anche se trattano prevalentemente argomenti legati alla psicanalisi. Ma il dominio della parola consente a Loriga di trovare sempre la giusta misura, proprio come in una sonata di Scarlatti. Non ci sono sbavature, cadute di stile, abbandoni sentimentali. Tutto è controllato e misurato. E’ il grande insegnamento della psicanalisi che in un uomo di profonda cultura come Loriga si tramuta in poesia.
Versi come quelli che seguono, indicativamente, non è facile trovarli nell’antologia del secondo Novecento. A cominciare da un semplice rigo: «E tornano all’assalto le paure». E ancora, quasi a sfidare l’impossibile: «Il vento era più forte del mio stare». Quanta leggerezza in questi versi, quanta ariosità e musicalità! Un miracolo nel tempo della velocità degli scambi e dell’impalpabile comunicazione elettronica ed informatica!
NON ARRENDERTI ALLA LUCE
Erano i mari a renderci più lievi,
i mari a traghettarci in nuove terre,
poco importa che fossero abitate,
poco che il giorno le sfiorasse appena.
Cadendo il sole le benediceva
tanto per dare un senso al nostro addio…
«Rapida, essenziale, sicura, fra memoria e rievocazione di luoghi, esperienze, riflessioni e pensieri lungo il tempo e la vita, la poesia di Vincenzo Loriga racconta visioni, vicende e apparizioni al di fuori del temo, in una sospensione che sa di eterno». Questa considerazione che Giorgio Barberi Squarotti ha voluto tracciare come presentazione di Non arrenderti alla luce, è la conclusione del vissuto di un uomo che ha segnato il proprio tempo. In effetti, Non arrenderti alla luce è un concentrato perfetto dell’intera esistenza di Vincenzo Loriga, condotto con lucidità scientifica, senza nostalgia o rimpianti, ma una lucida visione del tempo trascorso e dell’umanità che è ruotato attorno al Poeta, a cominciare dalle donne, meravigliose figure femminili come Chiara e Melisenda che hanno intrecciato e attraversato la sua vita. Non c’è bisogno di conoscere a fondo la biografia del Poeta per capire i riferimenti al vissuto. Già l’inizio è un groviglio di sensazioni e di meditazioni notturne, possibili se la luce non li disperde. Ma sono effimere, perché sono nel sogno.
Non arrenderti alla luce. Sai
Cos’è il timore? Conosci la grazia
della cose? Perché non impari
da loro l’arte di sopravvivere?
Come, nella loro immobilità, resistono
alle tentazioni.
Magiche stanze dove il tempo vive
una vita minore. Gli hanno tolto
il vento che avvelena. E adesso
ti s’impongono. Guardale nel giorno
che nasce. Paiono più salde
che mai.
Muraglie altere
contro la distruzione.
La luce che rivela, il buio che nasconde. Una lotta impari che dura l’intera esistenza e che si scioglie sulla soglia del nulla eterno. Queste sono le «Muraglie altere / contro la distruzione».
Un richiamo doloroso vissuto con serena lucidità dell’inevitabilità degli eventi, contro cui non si riesce a dominare la ragione.
Per una donna strampalata
perso ho metà della mia vita,
la sua figura spiritata
tremar ancora mi fa le dita.
Ah! Questa donna mi ha diviso
da me stesso col suo sorriso.
Ha sorriso una volta,
e la terra si è capovolta.
Ha sorriso per non parlare,
e la terra si è messa a tremare.
Il recupero della rima, oltre a imprimere ritmo e musicalità alla composizione, obbliga a riflettere con più rapidità sull’accaduto, come a volere allontanare gli accadimenti passati.
Il mio corpo è geloso, possessivo,
si lamenta della distanza.
Io lo voglio, il mio corpo, intatto, avulso
dalla realtà, che brilli come marmo.
Voglio che gli anni scorrano a rilento
per scavarlo, per renderlo più vero.
L’abitudine, un corvo appollaiato
Nella mia mente, un mangiatore nato.
Questa potente figurazione dell’abitudine come divoratrice del tempo perché non consente che gli anni scorrano a rilento per scavare il corpo del Poeta, renderlo più vero, racchiude la volontà di vivere esperienze continua, formatrici e verificatrici dell’Essere. Le sensazioni, le paure, le angosce si fanno alta poesia.
Il tempo sulla mia pelle.
Il tempo, che nulla sa.
Questo lungo animale
sdraiato sulla terra.
E l’occhio si fa beante.
Adesso, stringere adesso
il cappio,
e contare fino a cento.
Gli Eterni
sono in agguato.
Il Poeta sente che l’orizzonte non è poi tanto lontano e vuole che il cappio sia stretto, così il tempo, «lungo animale / sdraiato sulla terra», avrà la sua vittima. Ed emerge con rara potenza la concezione panteista di Vincenzo Loriga, racchiusa in quelle cinque parole: «Gli Eterni / sono in agguato», in cui l’ineluttabilità del divenire si colora di fatalismo che si fa volontà.
La conclusione non può che essere degna di tutto il vissuto del Poeta:
“Amai la vita. Amai ciò che ribolle
in superficie.
Amai il fiore d’ibisco.
Amai ciò che non dura”.
Le virgolette richiamano come una citazione che si trova racchiusa in tutto il corpo della poesia di Vincenzo Loriga che, posta alla conclusione della sua ultima raccolta, suono davvero come un addio.
Addio che si è verificato a Roma, tra le pietre, i muri scrostati, i tetti e le cupole della sua per sempre amata città, alla fine del 2019. Un vegliardo che continuerà a guardare il mondo e a goderne nell’universo le sue asperità e dolcezze.
PER UNA CONCLUSIONE POSSIBILE AL TEMPO DI CORONAVIRUS
Cosa resterà di questo nostro tempo non lo sapremo ancora. Un colpo terribile di randello lo ha inferto la pandemia di Coronavirus che ha colpito il Pianeta. L’umanità ha le risorse per sconfiggere questo mostro emerso dalle scaturigini della materia, anche se resta ancora misterioso perché è sfuggito al controllo dell’uomo. Ma a quale prezzo? Le guerre sono state volute dagli uomini e hanno procurato tragedie a chi le ha ordite e combattute. Ma questa pandemia, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, che prezzo richiederà? Covid-19 è il segno della rivolta della Natura contro le seduzioni dell’uomo e della sua arroganza. Al pari dei cambiamenti climatici. Per cui nulla sarà più come prima. Nulla. Ma la poesia di Vincenzo Loriga, fatta di versi così mirabili per fattezza e intensità, non potrà essere cancellata. Resterà a lungo nella memoria e nella coscienza dell’uomo contemporaneo. Perché il Poeta è figlio di questa Natura altera e vendicativa, come un dio biblico. E a suo modo sarà un risarcimento per queste piaghe inferte all’Uomo per i suoi peccati di Essere pensante e dotato di volontà, «dalla cruda matrigna».
A conclusione di questa rievocazione, probabilmente ancora insufficiente, l’auspicio che si può fare è che i versi di Vincenzo Loriga vengano raccolti in due volumi, le poesia da un lato e il Poema dall’altro, perché possano essere custoditi, studiati e perpetuati nel tempo. Come è avvenuto per i papiri di Ossirinco o i rotoli di Pompei, questi ultimi scampati alla furia devastatrice dell’«arido monte / sterminator Vesevo» e ancora non decifrati. Potrebbe essere la Sardegna ad avere il privilegio di elevare un monumento bibliografico ad uno dei suoi figli che non l’hanno dimenticata e tradita. Come attestano questi versi della poesia «La città» dalla raccolta Non sentirò più Scarlatti:
Amai da giovane una città,
la più bella di tutte.
Ne amai i colori,
le mura scalcinate e la lussuria…
E vidi lì la chiesa diroccata,
il fico che cresceva
nella pietraia, vidi
dalla cupola in pezzi
l’azzurro entrare.
Lì mi tenne a battesimo l’amore
per la vita, la sua strana avventura.
La città «la più bella di tutte», è Cagliari. n
Roma, 15 giugno 2020
L’autore ringrazia Marzia Loriga e Pietro Andujar
per la preziosa collaborazione