di Emilio Lastrucci
Avevo attraversato tre deserti
e le mie labbra si eran fatte secche
per quell'arsura che mi divorava,
i miei occhi annegati in nuovo pianto,
la mia pelle increspata come il mare
ogni giorno imbiancata da altro sale.
E la sera scorgevo fra le onde
i tuoi capelli sciolti sui tuoi seni
mossi dal vento caldo di El Beyda
e il tuo sorriso disegnato nella luna.
E oltre il filo vibrante della notte
dalle immense radici floride di Tuba
zampilli d'acque limpide sorgive
tra i riflessi smeraldini del fogliame.
Fuggivamo a schiere da quel mostro
vorace come una tigre di Namibia,
sempre affamato della nostra carne,
che aveva sbranato i miei vent'anni,
verso un nuovo Paese inospitale
a cui approdò il mio corpo senza vita.
E la mia lettera rimase sigillata
nella tasca ricolma di quell'acqua
che disperati volevamo bere
mentre alto il sole ci cuoceva il viso.
Amore mio adorato,
in quelle mie parole c'e la linfa
rimasta nel corpo dissanguato
dopo mille e mille colpi senza tregua.
Sognavamo di vivere una vita
dura ancora come la sete e la paura
ma il cuore riportare sempre a casa
per pulsare ogni notte accanto all'altro
in un giaciglo d'erba
sotto un tetto di paglia
impastata con il fango
che profumava della nostra Africa.
Ora scruti ogni notte
questo cielo cupo
per scoprire il tremolio
di quella stella
dove ora abito e da dove
ad ogni far dell'alba
scende una lacrima
fino alla tua mano.
A Samir, ragazzo egiziano giunto senza vita sulle coste siciliane su un barcone partito dalla Libia. Portava con sé, in una busta sigillata, una lettera per la donna che avrebbe più tardi dovuto raggiungerlo per vivere insieme felici nella nuova patria.
2 novembre 2022
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