di Agostino Bagnato
Domenica 4 marzo 2018 sarà ricordata probabilmente per le elezioni più strambe del dopoguerra. M5S è il primo partito con il 32% dei voti: un risultato eclatante e inequivocabile. Era annunciato un successo di questo movimento senza strutture organizzative, sedi, organi dirigenti visibili e riconoscibili all’esterno, le cui proposte nascono sulla rete telematica e sui socialnetwork, ma il risultato è andato oltre ogni aspettativa. Segue il PD, ma la coalizione che lo comprende non raggiunge il secondo posto né avrebbe potuto ottenerlo, vista l’inconsistenza degli alleati. Fallita l’ipotesi della coalizione tipo ULIVO, il destino era segnato anche per gli effetti distruttivi della nuova legge elettorale. La Destra, ovvero Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia e qualche cespuglietto che vive di ricordi parrocchiali, raggiunge il primo posto, ma non ottiene la maggioranza parlamentare per governare. Gli altri non esistono.
Nessuno ha vinto. Come formare il nuovo governo?
M5S rivendica il legittimo diritto di ottenere l’incarico dal Presidente della Repubblica per formare un esecutivo, magari di minoranza. In questo caso si presenterebbe alle Camere per ottenere la fiducia; sapendo di non ottenerla, resterebbe in carica per l’ordinaria amministrazione. Paolo Gentiloni dovrebbe lasciare Palazzo Chigi, anche se il suo ruolo è di pura nominalità. Ma Luigi Di Maio avrebbe il tempo di assaggiare l’ebrezza della vittoria completa. Su ogni provvedimento si presenterà in Parlamento chiedendo ai gruppi politici di votarlo. La Costituzione prevede che il governo entra in carica se ottiene il voto di fiducia delle Camere. Procedere ignorando questo passaggio non porta da nessuna parte; anzi, è un gioco pericoloso, anticostituzionale e antidemocratico. A cominciare dalla modifica delle legge elettorale che porta il nome di “Rosatellum”, come auspicano in molti. Sergio Mattarella dovrebbe impedirlo fin dal primo momento. Anzi, evitare che possa succedere!
Matteo Salvini a nome del centro-destra chiede la stessa cosa per sé, in quanto Lega Nord è il primo partito della coalizione; anche se la Costituzione non parla di coalizioni, il suo ragionamento ha un fondamento politico e il Presidente della Repubblica dovrà tenerne conto. Il problema riguarda semmai la stessa coalizione, dove non c’è accordo su chi dovrà essere il leader.
Il PD non può rivendicare nulla che riguardi questo scenario. Il suo ruolo è di controllo, in quanto forza di opposizione. Non si tratta di un gruppi politici residuali all’interno del Parlamento, oltre che nel Paese. Quindi ha tutte le carte in regola per svolgere una funzione fondamentale, come la storia insegna. Matteo Renzi, presentando le dimissioni da segretario, ha ragione nel sostenere che il PD resta l’ago della bilancia, ma il suo ruolo deve essere l’opposizione, dura e intransigente. Le sirene istituzionali per un grande accordo nell’interesse del Paese, l’appello al senso di responsabilità del presidente Mattarella e l’invito della Chiesa all’intesa tra le parti sono utili per tentare di svelenire il clima di tensione, ma non possono prescindere dalla realtà. Il PD non può partecipare a nessuna maggioranza né tanto meno a un governo M5S o Lega Nord, attraverso presunti sostegni esterni. Coloro che hanno vinto le elezioni formino il governo che gli Italiani hanno scelto, giusto o sbagliato che sia. Pare che stiano per delinearsi possibili intese per un esecutivo M5S e Lega Nord, perché sono forze affini, i cui programmi sono sovrapponibili, pur con qualche ritocco, per quanto riguarda euro, Europa, sicurezza, immigrazione, stato sociale, occupazione fisco. Nessuno parla di politica internazionale. Eppure l’Italia è parte integrante di un sistema politico-economico-militare che deve essere governato con l’apporto di ogni membro, per non lasciare tutto a Donald Trump e sugli altri versanti a Vladimir Putin e alla Cina.
Matteo Renzi ha compreso subito l’esito del voto ed ha lasciato l’arena. Non è lui il solo responsabile della Waterloo PD, ma il comandante della nave che affonda si deve assumere la responsabilità del disastro. Il PD non è stato affondato né sta affondando, ma le difficoltà sono molteplici e i pericoli di una deriva non sono scongiurati. Il gesto di Renzi di lasciare la guida del partito gli fa onore. Adesso è il momento della ripartenza, nella chiarezza e nell’onesta politica e intellettuale, avendo a cuore la sorte di centinaia di migliaia di iscritti e di milioni di elettori. Se si vuole essere credibili per riconquistare la fiducia degli Italiani bisogna dimostrare di sapere reagire. Il che vuol dire cambiare strategia e anche i dirigenti, senza stravolgere quanto è stato programmato e proposto nel recente passato. Solo dimostrando di essere diversi rispetto a prima si può tornare a vincere. Non sarebbe mai possibile sostenendo un governo M5S o Destra. Tutti continuerebbero a dire che il PD è quello di prima, il partito delle banche, dei poteri forti, della borghesia industriale e mercantile. Per questo sarebbe stato abbandonato dagli operai, da parte del ceto medio produttivo, dai dipendenti della pubblica amministrazione, dai giovani, dai poveri, dagli emarginati. Molti sanno che non è questa la ragione di fondo, perché in questo caso gli scontenti avrebbero votato LeU. Al contrario, hanno votato Lega Nord e M5S. La causa dello smottamento del centro-sinistra risiede nel mancato adeguamento dell’offerta politica ai cambiamenti epocali in Europa e nel mondo, guardando avanti e non arretrando verso interpretazioni novecentesche della società che non esiste più. Ci sono però gli omini e le donne, carne e sangue di questo tempo, a cui bisogna dare risposte concrete e non indicare apocalissi palingenetiche.
Come sta reagendo la base del PD? Come si comportano i suoi elettori? Preso atto del risultato elettorale, a cominciare dal Sud, l’interrogativo è come andare avanti. Nei circoli è iniziata una severa analisi del voto, non trascurando gli aspetti locali che come sempre hanno un certo peso nell’esito del voto. Come dimostra il caso del Lazio, dove il buon lavoro di Nicola Zingaretti ha dato buoni frutti elettorali, tuttavia non sufficienti per ottenere la maggioranza assoluta. La risposta di dirigenti, militanti, cittadini che partecipano alle assemblee è: facendo politica, tornando tra la gente, parlare dei propri errori e delle inadempienze a ogni livello, con umiltà e rispetto per gli altri, rilanciare il programma per affrontare le emergenze sociali e dello sviluppo economico, per combattere la povertà, l’emarginazione sociale, per controllare l’immigrazione e favorire l’integrazione sociale con realismo e rispetto delle compatibilità ambientali, per garantire maggiore sicurezza ai cittadini. Le reazioni sono composte, responsabili, positive. Nessun abbandono di campo, nessuno scoramento, niente pessimismo. Tutti manifestano la consistenza delle difficoltà per riconquistare la fiducia della maggioranza degli Italiani dopo le deludenti prove degli ultimi due anni e ritornare attrattivi, ma tutti riconoscono che non esiste alternativa all’esigenza di proseguire sulla strada del rinnovamento dei gruppi dirigenti e sulla necessità di formare quadri rispondenti al cambiamento epocale del Paese, dell’Europa e del mondo.
L’Italia ha bisogno del PD, dell’esperienza dei suoi dirigenti, del senso dello Stato, del respiro europeo e internazionale del suo orizzonte. Più Europa non è uno slogan, ma il programma futuro per salvare l’Italia. Più dialogo globale per superare egoismi nazionali che portano alla disintegrazione dei valori universali nel nome del sovranismo che è nazionalismo ed egoismo.
Dove porterà questa riflessione in atto in ogni circolo è difficile dirlo, ma il PD ha gli anticorpi necessari per non tornare indietro, per respingere le sirene del bel tempo che fu, per ricercare l’araba fenice di un riferimento sociale che è stato stravolto dalla globalizzazione.
La deriva plebea che sembra avere compromesso la politica italiana non deve travolgere il PD. Molti sostengono che questa identità che il PD si è dato in questi anni non è di sinistra. Se essere di sinistra vuol dire essere minoritari per sostenere ad ogni costo categorie marginali ed emarginati nel nome di ideali che furono l’asse portante dei partiti marxisti, vuol dire condannare il partito all’isolamento e destinarlo all’estinzione. Il PD non lo vuole. Né lo chiede la maggioranza degli Italiani. Essere inclusivi e attrattivi non vuol dire tornare al passato. Per questo il PD riuscirà a superare lo smarrimento momentaneo e affrontare il futuro con rinnovato slancio e sicurezza negli obiettivi.
Chi ha vinto le elezioni ha il dovere e l’obbligo di governare, trovando formule adeguate nel rispetto della Costituzione. Se non sarà capace, sarà il Paese a trarre le conseguenze, a cominciare dal domandarsi perché non ne sono capaci.
Agostino Bagnato
Roma, 15 marzo 2018