Con l’affievolirsi del legame di fiducia, ormai clamorosa e conclamata, nei partiti e nelle istituzioni, l’affermarsi del populismo e del nazionalismo leghista e pentastellato (con atteggiamenti razzisti e tracce e sfumature fasciste), assistiamo a un fiorire di libri sulla politica e sui politici. Un fenomeno positivo che indica anche il bisogno di capire lo Zeitgeist, il clima del nostro tempo. A casaccio, senza nessun ordine e metodicità, ne riportiamo alcuni. Due ex presidenti del Consiglio Matteo Renzi con “ Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani” ed Enrico Letta, “Ho imparato”: due libri-programma e al tempo stesso autobiografici. Luciano Canfora pubblica “La scopa di don Abbondio” per ricordarci che le oscillazioni impreviste della storia, come l’esempio manzoniano della peste, “ha spazzato via certi soggetti” come don Rodrigo. Mentre Giovanni Orsina da alla stampa “La democrazia del narcisismo” per chiedersi del perché i cosiddetti “partiti del risentimento” continuano a raccogliere consensi. Paolo Pombeni, invece, con “La buona politica” ci parla dell’apologia della politica e del bene comune. Maurizio Molinari con il suo libro “Perché è successo qui”, s’inserisce sull’ascesa del populismo e la sua risposta al titolo del libro è che la classe dirigente in questi anni ha toppato. In questo scenario l’ultimo libro di Marco Revelli, “La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite”, arriva a proposito e ci avverte che ci troviamo di fronte ad una emergenza democratica. Sono libri che, pur con sensibilità e posture diverse, ruotano intorno al problema del populismo, alla crisi dei partiti e a quella socioeconomica. Sono libri che hanno la forza d’urto di alimentare il dibattito politico, di suscitare riflessioni e analisi e alla fine di informare meglio e di più dei messaggi dei network o vari talkshow.

Marco Revelli, storico, sociologo, politologo e docente all’Università del Piemonte orientale, dove insegna Scienza della politica, già nel 2017 con Einaudi pubblica Populismo 2.0, dove parla di populismi, data la molteplicità di esperienze che si nascondono sotto questo termine, ma comunque si manifesti o di “malattia infantile” o “senile” in entrambi i casi ciò porta al deficit della democrazia rappresentativa. Due anni prima con Laterza pubblica “Dentro e contro. Quando il populismo è di governo”. Un libro che esamina le dinamiche della politica di Matteo Renzi a Palazzo Ghigi, collegandola alla nascita dell’ inedita genesi del “populismo Istituzionale”. Lo fa analizzando la gracilità culturale della politica renziana, il suo pessimo e volatile carattere e la sua evanescente leadership. Con la “Politica senza politica”, Einaudi 2019, Revelli, intellettuale di riferimento della sinistra italiana, analizza con acume, ma anche con allarmante e allarmata preoccupazione, sulla “emergenza democratica”: una patologia che viene da lontano, cagionata dall’egemonia neo-liberista e dall’ errato convincimento che certe politiche non si possono mettere in discussione per il semplice motivo che è il mercato a chiederle. Ciò ha indebolito l’idea che la politica è fatta di scelte con soluzioni concrete e alternative. Termine assai abusato, di natura camaleontica e intrinsecamente ambigua, per dirla con Mattia Zulianello, ma per l’Autore il populismo, sostenuto con un voto di vendetta, non spunta fuori come un fungo, ma è semmai l’effetto di un forte deficit di rappresentanza, una patologia che viene da lontano. Le cause sono rintracciabili nell’appannamento della democrazia, nell’indebolimento dei partiti e nella frantumazione della società, sui quali il crollo economico del 2008 ha giocato un ruolo da catalizzatore. I dieci anni di crisi economica alle spalle per Ravelli hanno scosso alle fondamenta il nostro assetto sociale, alimentando frustrazione, malanimo e invidia di chi si sente abbandonato o tradito. Un periodo storico che si caratterizza di radicalità sociale, di paure, ribellioni e di antagonismi, della sottovalutata perdita identitaria del ceto medio, che si sente strizzato verso in basso, lasciato a se stesso in condizioni in cui è difficile progettare un futuro. Una piccola borghesia, che per status e risorse economiche, occupava una posizione nella gerarchia sociale capace di favorire e stimolare il tessuto economico, e che ora viene sempre più proletarizzato e reso insignificante. Una vera e propria voragine sociale “misurabile dal fatto che in venticinque advanced economies una percentuale oscillante tra il 65 e il 70% dei cittadini avrebbe visto il proprio reddito appiattirsi o diminuire. […] Disagio che appare determinato dal taglio del reddito da capitale, che ha colpito soprattutto l’ex classe media, facendola scivolare su un piano inclinato” (Pag.190/1). Il fenomeno, che ha trasformato le disuguaglianze in esclusioni, trova spazio e legittimità in una cornice internazionale. Certo è che la vittoria di Trump, quella della Brexit, le convulsioni dell’Europa di Visegrad e della Le Pen in Francia, il fascino dell’uomo forte alla Putin, l’affermazione di Matteo Salvini e di Luigi Di Mao e il movimento caldeggiato del poco raffinato e nazionalista americano Steve Bannon, rappresentano la linea che unisce questo fenomeno declinato ovunque nel populismo. All’ Europa populista l’Autore dedica tutto il terzo capitolo, con puntuale e intrigante excursus, con una impietosa analisi sul caso Italia, partendo dal “dirompente voto del 4 di marzo”. Data nevralgica che la cataloga come “un terremoto della massima magnitudo […] di quelli che creano fosse oceaniche e catene montuose” (Pag.66). Sotto queste macerie resta schiacciata la sinistra, “di cui le sagre annuali della Leopolda non sono che una tarda caricatura provinciale, (Pag. 83), sparisce “la sua identità costruita nel Novecento, il suo progressismo, il suo produttivismo, la sua autorappresentazione come forza votata all’innovazione, alla velocità, alla tecnologia, al governo del dinamismo sociale. Sotto le macerie ha lasciato un vuoto, l’incapacità “di intercettare la protesta e la rabbia nuova delle classi medie impoverite o declassate, [. . .] di conservare la rappresentanza dei vecchi insediamenti sociali: del lavoro salariato, di quella classe operaria in nome della quale il suo nucleo duro si era costituito quando la Storia è sembrata andare oltre”.

Revelli dedica tre sezioni del libro a questo tema cruciale. Nella prima parte si occupa della fenomenologia del populismo e del populismo 2.0, ovvero come “un male profondo, troppo spesso taciuto, […] affermatesi nella modernità sulle rovine delle utopie partecipative, che è la democrazia rappresentativa” (Pag. 8); nella seconda si sofferma sul destino della forma partito e della sua crisi; nella terza, e ultima parte, affronta la questione del contesto sociale ed economico per scavare nelle “ mutazioni antropologico-culturali che ha trainato con sé”. Il tema lo colloca nella società post industriale e, fin dalle primissime pagine, scrive che viviamo una crisi politica profonda e prolungata. E aggiunge : “E’ la politica del nostro tempo, impotente eppure pervasiva, volgare eppure astrusa, distante dalla vita degli uomini eppure presente nel loro spazio quotidiano”. Una crisi i cui segni visibili sono nel diffuso sentimento di delusione e disincanto dei cittadini nei confronti della classe politica e verso le istituzioni. Un’epoca storica che segna il trionfo di una politica senza politica, ovvero una politica non più capace di cambiare davvero la società.

Sulle ragioni del tracollo di fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni politiche per l’A. , dopo aver tratteggiato le varie scuole di pensiero, spesso contrapposte, coglie un dato comune: il tema dell’oligarchia, della scarsa capacità di identificarsi con i sentimenti, i bisogni e persino gli interessi dei rispettivi rappresentati. Le oligarchie politiche diventano insopportabili perché i leader peggiorano “tanto che l’unica rivendicazione unanime che si leva dal basso, ogniqualvolta si parli di riforma elettorale, è quella di sottrarre alle segreterie di partito il potere di decidere assolutisticamente le candidature” (Pag 108). Scelta che tradisce e ostenta il vizio del privilegio e rafforza lo spirito di casta, “oltre che da un diffuso servilismo”. Ravelli tuttavia non è un intellettuale che tende a prevedere il peggio, né si atteggia a profeta di sventura, tanto che non si iscrive alla scuola di pensiero secondo la quale oggi c’è il reale rischio di una dittatura politica o un di ritorno al fascismo. Dietro il fascismo sostiene c’era un’immagine del mondo, un’idea, una weltanschauung, un passato, un popolo delle trincee, il demone di una politica forte. Dietro Salvini c’è solo un grande vuoto, un’arrogante retorica e un populismo senza popolo.

                                                                                                                                                                                                 Ettore Ianì

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