I tragici avvenimenti parigini e la creazione dello Stato Islamico nella parte settentrionale della Siria e dell’Iraq, impongono una urgente riflessione che riguardi più approfonditamente la natura dell’Islam e la sua presenza in Europa, senza pregiudizi e inutili accuse

Cosa sta succedendo nel mondo islamico? Vale ancora il significato di «pace», «salvezza», «obbedienza», seconda la radice arcaica «slm» che rimanda alla parola سلام «Salam», quella più comune? E’ la stessa radice dell’ebraico שָׁלוֹם «Shalom» che vuol dire sempre «pace». In apparenza sì. Il significato teologico coranico è intatto. Ma nella realtà è proprio così? Nessuno lo sa. Nessuno ha previsto l’improvvisa ascesa di un tal Abu Bakr al-Baghdadi tra le tribù irakene e siriane di rito sunnita al ruolo addirittura di califfo, erede discendente del Profeta. Eppure è nata una nazione islamista senza che l’Europa e l’Occidente se ne accorgessero. Lo choc e l’orrore sono cominciati quando sono comparsi i video riguardanti la decapitazione di giornalisti occidentali. E qui è intervenuto il vero fattore di sorpresa che si è trasformato subito in sgomento: ad eseguire l’orrendo sgozzamento non erano feroci e selvaggi taliban e alqaidisti, ma cittadini occidentali di origine araba e mediorientale, proclamatisi jihadisti, soldati del Profeta, dalla parola جهاد «Jihad», che significa «esercitare il massimo sforzo», in questo caso per difendere ed estendere la fede musulmana, quella di coloro che hanno compiuto un viaggio alla Mecca per pregare sulla tomba del Profeta.

Non si tratta di disperati della banlieux francesi, del Londonstan, delle periferie di tante città italiane o di campi rom né di immigrati clandestini giunti su barconi e su navi carretta rimorchiati nei porti maltesi, greci e italiani dalla varie Marine militari. No, si tratta di cittadini europei di fede musulmana, le cui famiglie sono di origine araba, mediorientale, yemenita o della penisola araba, ragazzi che hanno studiato nelle scuole pubbliche dei vari paesi e spesso hanno trovato anche un lavoro, magari precario, ma pur sempre un lavoro. Perché si recano in Siria, in Iraq, nello Yemen, dove si addestrano all’uso delle armi e alla guerriglia urbana è stato spiegato ampiamente da loro stessi: servire il Profeta, diventare soldati di Allah e tornare anche in Europa per vendicare i morti provocati dalle bombe occidentali, ieri contro i fratelli musulmani e oggi contro la popolazione del Califfato islamico. Lo fanno per protesta, perché non sono riusciti e non vogliono integrarsi pienamente nella cultura occidentale, per protagonismo e riscatto sociale, culturale e identitario. Lo fanno perché emarginati, esclusi dalla comunità, privi di senso di appartenenza. E quindi sono in fuga dalla realtà, in cerca di radici e basi su cui costruire un protagonismo, scegliendo la strada più breve e semplice: il delitto e seminare morte, lutto, distruzione, terrore. La storia dell’umanità è piena di esempi di tale natura. Ma si trattava di casi isolati, analizzabili e spiegabili con il manuale della criminologia e risolvibili dai tribunali.

La discussione tra capi di stato, storici, sociologi, economisti, uomini di cultura, studiosi dell’islamismo è aperta da tempo. Ma su un punto sembra che tutti siano d’accordo: si tratta di una netta minoranza di musulmani che non accettano la cultura occidentale, il modo di concepire la vita e la società, le regole della democrazia e della convivenza e quindi della civiltà europea nata con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. Non sono soltanto dei terroristi criminali ed esaltati senza scrupoli. C’è una motivazione in più nella loro follia omicida e suicida allo stesso tempo. Si tratta di musulmani che non accettano l’emancipazione della donna e la parità dei sessi, che respingono la libertà di culto e la diversità liturgica e quindi rigettano ogni ipotesi di evoluzione delle stesse regole islamiche e l’organizzazione nella professione della fede. In definitiva, rifiutano l’educazione ricevuta in Occidente e abbracciando lo jihadismo, tradiscono lo stesso messaggio coranico. Senza dimenticare, tuttavia, che il Corano non rinnega la guerra e la conquista violenta, e soprattutto non sottovalutando la pervicace predicazione di tanti fanatici iman che invocano la شريعة, «sharja», la legge, ovvero la strada indicata dal Profeta. Se gli shiiti hanno nella figura dell’ayatollah un capo riconosciuto, i sunniti non riconoscono alcuna autorità religiosa e le singole comunità scelgono i propri sacerdoti ملا (mullah) e le autorità spirituali o capi e guida della comunità إمام (imam).

Cosa c’entra tutto questo con l’immigrazione e i clandestini, di cui farneticano Marine Le Pen in Francia, Matteo Salvini e Giorgia Meloni in Italia e qualche altro sciagurato nell’Europa unita. Nulla e probabilmente questi sgangherati aedi della paura lo sanno. Comunque, è opportuno che qualcuno lo spieghi e lo ricordi.

Ma c’è un problema a monte che soltanto pochi tengono a mente e riguarda la responsabilità dell’Occidente nelle terribili vicende del Medio Oriente e del Nord-Africa. E non sono colpe recenti. La più grave, probabilmente, è quella di avere dissolto la vastissima distesa territoriale abitata da popolazioni convertite all’Islam dall’avanzata degli Ottomani, organizzate in tribù e rette da emiri e califfi di varia estrazione. Crollato il potere ottomano, il progetto originario dell’Inghilterra era di costituire uno stato arabo unitario sotto il controllo di una unica autorità, quella saudita. Si è preferito, secondo la regola «dividi e impera», spezzettare l’immenso territorio in tanti stati sovrani, affidati a capi tribù proclamati re ed emiri. Diversità d’interessi, alleanze contrapposte, punti di vista differenti, liturgia coranica hanno subito messo l’un contro l’altro i diversi paesi, soffocati da una corruzione devastante. Poi è venuto lo stato d’Israele, imposto con le armi dagli ebrei sionisti e dai sopravvissuti della Shoa, all’Inghilterra che deteneva il controllo della Palestina come dominion.  Il resto è noto. A cominciare dal fallimento del tentativo di costruire un socialismo arabo impersonato da figure laiche di notevole valore.

Ma quello che non è ancora sufficientemente noto e comunque ben chiaro agli stessi storici e studiosi del mondo islamico, è che dal XVIII secolo è in atto una lenta e costante pervicace predicazione nelle moschee e nelle madrasa per la riconquista delle terre le cui popolazioni sono state convertite all’Islam. Queste correnti teologiche si richiamano alla cultura wahabita e salafita. In Occidente, molti commentatori si stracciano le vesti accusando l’America, la Francia e l’Inghilterra di avere portato avanti la politica del neocolonialismo che sarebbe alla base dell’offensiva alqaidista e jiadista, per le sciagurate conseguenze che ha avuto, magari finanziando gruppi armati contro governi non amici e allineati. Ma le ragioni sono molto più profonde e radicate nel mondo musulmano. Il terrorismo è la punta dell’iceberg. La proclamazione dello Stato islamico retto dal califfo al-Baghdadi, l’uomo nero, è una parte emersa del corpo in movimento. Probabilmente gli attacchi di Parigi sono cellule impazzite. La risposta energica e decisa del popolo francese è encomiabile. «Je suis Charlie» è il nuovo motto della Francia migliore, come al tempo di «C’est ne pas qu’un debut, continuons le combat!» Ma la minaccia di un salto di qualità compiuto dalla presenza di una realtà statuale qual è a tutti gli effetti il Califfato non deve essere sottovalutata. Chi può negare che alla base di questi pochi terroristi o combattenti di Allah come qualcuno li chiama, non ci siano disegni eversivi più ampi? E’ presto per dirlo.

Le analisi socio-politiche e umanitarie non bastano più. Anche perché occorrono risposte nuove. Se la strategia di jiadisti, alqaidista e di al-Baghdadi è quella di scatenare una guerra santa contro l’Occidente e il suo stile di vita per riprendersi lo spazio perduto, la battaglia dell’Occidente sarà sicuramente difficile e molto impegnativa. Il momento di espansione massima dell’Islam si è avuto con la conquista di Costantinopoli nel 1453. Poi c’è stata la perdita del sultanato di Granada nel 1492, l’avanzata nei Balcani fino alle porte di Vienna con l’assedio del 1529 e la battaglia successiva del 1683. Nel Mediterraneo il dominio turco era stato intaccato nel 1571 con la distruzione della flotta della Sublime Porta a Lepanto. Poi fu un lento sgretolarsi del sultanato sotto i colpi delle conquiste zariste da una parte e della guerra d’indipendenza della Grecia, di alcuni territori nei Balcani e dell’Egitto. La dissoluzione è intervenuta nel 1918, al termine della disastrosa guerra della Turchia a fianco dell’Austria e della Germania.

La riconquista dello spazio perduto è un sogno folle che nessuno, oggi, apparentemente, coltiva. Ma il sogno di destabilizzare la civiltà occidentale, fondata sulla liberta, l’uguaglianza, la democrazia e la tolleranza può avere una suggestione in menti fertili di follia e di impotenza civile. Intanto partendo dalla ritorsione e dalla vendetta per i subiti torti da parte dell’Occidente. E poi per affermare i valori dell’Islam, sul piano simbolico, nelle comunità laiche, di fede cristiana ed ebraica. Questa lotta ha un fascino straordinario per milioni di musulmani che sentono di essere chiamati ad una missione, anche se omicida e suicida allo stesso tempo, in quanto soldati di Allah, pronti a immolarsi per il Profeta. Come si spiegano diversamente i criminali fratelli parigini che si fanno abbattere dalla Gendarmerie e dalla polizia?

La prima domanda che si pongono osservatori e commentatori riguarda l’eventuale fallimento dell’integrazione nelle grandi città europee. Ma se fosse fallita, come sostiene la maggior parte dell’opinione pubblica, perché centinaia di migliaia di musulmani sarebbero scesi in piazza a Parigi domenica 11 gennaio 2015, contro il terrorismo? E perché tutte le comunità islamiche hanno preso le distanze dai terroristi? Lo hanno fatto per opportunismo, convenienza, ipocrisia?

Ma la vera novità del dibattito internazionale sull’Islam è rappresentata dal messaggio del presidente egiziano, generale Abdel Fattah Al Sisi. «L'Islam ha bisogno di una rivoluzione per estirpare la Jihad (...) Dovremmo forse uccidere sette miliardi di persone? Idee fossilizzate [...] L'islam non può odiare tutti [...] Come è possibile che la religione islamica sia percepita come fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione dal resto del mondo?». Si tratta di un discorso pronunciato non in una sede qualsiasi, ma in una sede d'eccezione, l'Università Al Azhar del Cairo, la più importante sede teologica sunnita fondata nel 970, in una ricorrenza d'eccezione, l'anniversario della nascita di Maometto, e davanti ad un pubblico anch'esso d'eccezione: gli Ulema e gli Imam.

E’ presto, troppo presto per parlare di una consapevolezza nuova affacciatasi nel mondo islamico che, un osservatore attento come Romano Prodi saluta in quanto novità assoluta su cui fare leva per nuove politiche e nuovi rapporti con l’Islam. Da dove cominciare? Chi avrà il coraggio e la forza di aprire una tale discussione? Quale autorità religiosa si potrà ergere a protagonista del cambiamento? Nella immensa sterminata galassia islamica, chi sarà in grado di parlare di riforme, cambiamenti, modernizzazione, laicità dello Stato? Non bisogna farsi molte illusioni, purtroppo. Soltanto Mustafa Kemal è riuscito a portare avanti questa rivoluzione in Turchia, alla caduta dell’Impero ottomano, e per questo è stato chiamato Atatürk, padre della Turchia. Ma erano circostanze storiche eccezionali. Oggi un simile compito appare molto più difficile. Forse un’illusione. Anche perché la stessa Turchia sta correndo il rischio di arretrare e di perdere conquiste importanti. La rivoluzione resiste perché l’esercito è garante della costituzione.

Chi ha investito Al Baghdadi dell’autorità di califfo, erede discendente dal Profeta? Dove sono gli imam e i mullah che lo hanno sconfessato? A chi spetta farlo, se le fondamenta della fede sono custodite proprio dalle autorità religiose? E’ bastato, purtroppo, un proclama contro l’Occidente, l’ebraismo, il cristianesimo e i crociati per mobilitare centinaia di migliaia di miliziani, uomini e donne a quanto pare, potendo contare su sostegni finanziari provenienti dall’Arabia Saudita, dagli Emirati del Golfo Persico e di chi non si conosce ancora. Ma la vera sconvolgente novità di questa ondata aggressiva è rappresentata dalla presenza di molti combattenti provenienti dall’Europa libera e democratica, tollerante e inclusiva e dagli Stati Uniti.

Povera Europa, se pensa di difendersi soltanto con le allegre e coraggiose, necessarie, matite di «Charlie Hebdo» e con l’appello alla fratellanza interreligiosa di Jorge Bergoglio. Eppure queste sono condizioni essenziali di civiltà, a cui l’Europa e il mondo civile non possono rinunciare. Libertà di pensiero, opinione, culto religioso, stampa, organizzazione sono conquiste che non possono essere scambiate. Tutte le dittature sono crollate sotto questi bastioni. Se manca la consapevolezza della gravità del fenomeno e la presenza della politica organizzata nell’espressione degli Stati liberi e democratici, si lascia che l’esercito di Allah, strumentalizzato da folli criminali, possa colpire ovunque e non ci sarà intelligence che tenga.

La risposta non è semplice. Se così fosse, sarebbe già stata data. Ma chi sarà in grado di mettersi sulle spalle un fardello così pesante? Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, ha rifiutato la proposta di Romano Prodi perché fosse proclamata una giornata di mobilitazione comune contro il terrorismo e di solidarietà con la Francia da parte dell’Unione Europea. Non è un buon segnale. Eppure bisognerà farlo, se non si vuole correre il rischio di trovarsi nel mezzo di una guerra infinita e del terrore permanente.

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