LA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA PERMETTE DI RIQUALIFICARE L'ATTIVITA' DEL PARLAMENTO, TRASFORMANDO L'ELEMENTO RAPPRESENTANZA SENZA NECESSARIAMENTE DOVER RIDURRE IL NUMERO DEI RAPPRESENTANTI. I QUALI SI TROVEREBBERO A DOVER SVOLGERE FUNZIONI ACCRESCIUTE IN UNA DEMOCRAZIA PARLAMENTARE DA FONDARE SULLA CITTADINANZA
Di Alfonso Pascale
È indubbiamente vero che dagli anni ‘90, la “nostra“ riforma del Parlamento, per la costruzione di una vera democrazia liberale “decidente“, passava anche attraverso la riduzione del numero dei suoi membri. Già nella Commissione parlamentare per le riforme istituzionali De Mita-Iotti se ne discusse. Tant’è che nella relazione al progetto di legge costituzionale “Revisione della parte seconda della Costituzione”, comunicato formalmente alle presidenze di Camera e Senato l’11 gennaio 1994, la presidente della Commissione, Nilde Iotti, annotava: “Il progetto si presenta organico (coglie infatti i punti fondamentali della seconda parte della Costituzione) ma non compiuto, anche rispetto allo schema approvato nella prima parte del lavoro della Commissione, sotto la presidenza dell’onorevole De Mita. I motivi di questa incompiutezza sono molti. In primo luogo, per quanto riguarda la riforma del Parlamento, la difficoltà di trovare soluzioni tali da ottenere il consenso del maggior numero di forze politiche. Va comunque rilevato che si era vicini ad un accordo per quanto riguarda la diminuzione del numero dei membri della Camera da 630 a 400 e del Senato da 315 a 200 e per una certa distinzione dei compiti fra le due Camere. […] Si è preferito perciò non affrontare il tema della riforma del Parlamento se non nella sua interezza. Modifiche parziali avrebbero potuto infatti apparire monche e contraddittorie”.
Da allora e fino alla riforma Renzi del 2016, l’idea è stata sempre la stessa: riduzione dei parlamentari e superamento del bicameralismo paritario non si possono disgiungere, altrimenti si avranno ulteriori difficoltà decisionali e ulteriore discredito dell’Assise legislativa. E non solo: al rallentamento della intera attività delle Camere e alle prevedibili forzature che ne deriveranno (più decreti legge, più Dpcm, meno confronto con le opposizioni), il “taglio” dei parlamentari, privo della riforma del bicameralismo, aggiunge il rischio di una maggiore instabilità dei governi.
Quando è stata approvata la nostra Costituzione, il bicameralismo paritario è apparso immediatamente come un’anomalia italiana. Un’anomalia che già dal 1948 Adriano Olivetti e il Movimento Comunità avevano denunciato. Ma la riforma del bicameralismo paritario è stata sempre rinviata alle calende greche, facendo affondare il Paese nelle “sabbie immobili” dei vaniloqui inconcludenti.
Dagli anni ’90 è stato poi sollevato il tema della sovrabbondanza del numero dei parlamentari. L’argomento più gettonato è che l’allargamento del potere legislativo ad altre assemblee elettive (Consigli regionali e Parlamento europeo) avrebbe ridotto le funzioni dell’Assise elettiva nazionale. E che la sua ridondanza ridurrebbe il prestigio agli occhi dei cittadini e ostacolerebbe il processo legislativo e l’efficacia all’azione di sindacato sull’attività di governo. È evidente che questo argomento viene adesso utilizzato dai fautori della riduzione dei parlamentari: se il Parlamento è “pletorico”, ben venga il “taglio” dei suoi membri, indipendentemente da altri aspetti più rilevanti (differenziazione delle due Camere, Camera delle Regioni, tendenziale monocameralismo).
Ma vediamo il problema che dobbiamo affrontare oggi. La democrazia andrebbe concepita come funzione razionale collettiva e servizio alla comunità. Nella realtà italiana, invece, prevale una visione riduttiva della democrazia: pura procedura o pratica del potere di tipo personale e privato esercitato da gruppi o da partiti. Ma è proprio questa visione riduttiva della democrazia a suscitare un suo rifiuto che si manifesta nella forma della contestazione aperta, unita alla passività del disincanto, il non voto, aggiunto al voto di rivolta. Un rifiuto che non riguarda la politica e la democrazia intese come autogoverno ed esercizio della sovranità popolare, ma le forme concrete che la politica democratica ha assunto nel suo agire quotidiano.
Un simile malessere davvero pensiamo di affrontarlo senza andare alle radici delle sue cause più profonde?
Il riformismo costituzionale ha sempre ragionato guardando al Parlamento come ad un’istituzione statica, come se le sue problematicità fossero sempre e unicamente quelle individuate fin dagli albori della rivoluzione industriale. Il riformismo costituzionale non può non prendere atto che la transizione tecnologica che stiamo vivendo ha inciso profondamente nel rapporto tra sovranità popolare e rappresentanza. La giuntura tra questi due elementi, su cui si fonda la democrazia dei moderni, è sempre stata precaria. Ma se non si interviene rapidamente la democrazia rappresentativa si frantuma.
Se si esclude la Francia, tutti i principali Paesi europei hanno regimi parlamentari in profonda crisi che non sono in grado di garantire quelle prestazioni minime di unità e di governo che le nazioni hanno diritto di attendersi. Non è il parlamentarismo in sé che ha prodotto questa situazione. Ma la mutata realtà sociale, i nuovi comportamenti e atteggiamenti da parte dei cittadini. Una forma di governo è buona o cattiva a seconda di come si combina con la società che essa dovrebbe servire. E se le nostre società sono fortemente atomizzate, con divisioni che attraversano la pluralità non solo degli interessi, ma anche delle identità, degli stili di vita e delle culture, è impossibile che singole forze politiche o coalizioni più o meno omogenee possano esprimere governi forti e durevoli.
L’unica strada che si può percorrere per avere democrazie efficienti dal punto di vista della governabilità e della capacità di decisione è quella di dare ai cittadini il potere di esprimere con il loro voto direttamente l’esecutivo. Si potrà discutere se eleggere contestualmente un primo ministro oltre che un Parlamento, oppure un presidente della Repubblica e un Parlamento, e con quale misura di coordinamento fra i due voti. Ma solo se si affronta il nodo della forma di governo si potrà dare alla democrazia un carattere decidente e così tagliare l’erba sotto i piedi dei suoi avversari: sovranisti, nazionalisti e populisti.
Il referendum del 20 e 21 settembre riguarda esclusivamente la riduzione dei parlamentari e con questo tema dobbiamo fare i conti. Per fare una scelta ponderata, le domande che dovremmo porci sono le seguenti: nella società digitale in cui viviamo ha ancora senso considerare “pletorico” il Parlamento come ci è apparso nella società industriale? non è forse più onesto dire che nella società digitale il Parlamento così com'è più che "pletorico" è "inutile"? la tecnica permetterebbe oggi alle Camere di rendere più efficiente il processo legislativo e più efficace il controllo sull’attività dell’esecutivo senza ridurre la rappresentatività numerica dell’istituzione parlamentare? la fine dei partiti di massa ha modificato e in che modo la funzione dei parlamentari e del loro rapporto con gli elettori? la tecnica potrebbe rendere efficiente il rapporto tra eletto ed elettori se concepissimo la democrazia come un intreccio tra rappresentanza e partecipazione?
L’individualismo tecnologico di massa non si lascia più rinchiudere entro i vecchi sistemi della rappresentanza. Li scavalca, nella richiesta confusa ma forte di legami più duttili e fluidi, di un nuovo rapporto tra sovranità e autogoverno.
Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo hanno costruito sulla crisi della rappresentanza una loro idea di “democrazia digitale” che si è rivelata nel tempo una pericolosa illusione e un inganno.

Dire che la democrazia rappresentativa è in una crisi irreversibile di rappresentatività, non significa affatto credere che se ne possa fare a meno. Essa va rivista in profondità, nei suoi contenuti e nelle sue forme. E va rigenerata integrando al suo interno, nel suo funzionamento, le tecniche di comunicazione e di verifica del consenso di cui disponiamo. Non si tratta di sostituire la democrazia rappresentativa con la “democrazia digitale”, ma di introdurre nella rappresentatività le forme di democrazia diretta a distanza, il voto elettronico, il rapporto diretto tra rappresentante e rappresentati, forme di consultazione periodica della cittadinanza su un arco di temi predefiniti. Si tratta di dare un profilo e un rilievo formali alle nuove tecnologie, fino a mutare il rapporto tra sfera pubblica e sovranità e costruire un modello più articolato, coinvolgente e diretto di produzione legislativa.
Se si introducessero queste innovazioni, apparirebbe chiaro che la riduzione dell’elemento “rappresentanza” non si traduce necessariamente in una riduzione numerica dei “rappresentanti”. Essenziale diventa, invece, la ricostituzione di un rapporto fra il cittadino e il “suo” parlamentare, riempendolo di molti doveri e scadenze: occasioni di incontro, di verifica, di discussione – anche attraverso i social – nel segno della trasparenza e della visibilità nella gestione del mandato. Una maniera in più di accorciare la filiera della rappresentanza, ma rendendo più densa la relazione tra rappresentante e rappresentato.
Se si riduce il numero dei parlamentari, l’esito inevitabile sarà una democrazia che si riduce alla concorrenza tra politici di professione sul mercato della rappresentanza, filtrato da lobby che si interporranno necessariamente tra elettori ed eletti. Già oggi è in parte così. Il fenomeno sarebbe destinato a degenerare ulteriormente.
Se invece si rigenerassero le funzioni dei parlamentari, puntando ad esaltare la “Repubblica fondata sui cittadini”, si riqualificherebbe il processo legislativo, rendendolo più trasparente e partecipato.
Digitalizzando le funzioni parlamentari per ricostruire la relazione tra il rappresentante e il rappresentato, si potrebbe finalmente rivoluzionare l’insieme delle attività del Parlamento, riducendo quelle in presenza e utilizzando la videoconferenza e il voto a distanza. Questo sì che sarebbe un modo efficace per sveltire il processo legislativo e l’azione di sindacato sull’attività di governo, riducendone anche i costi.