di Ettore Ianì Ettore Ianì
Lo confesso apertamente ed esplicitamente: sono stato un dalemiano convinto. Premetto, per correttezza di analisi, che non mi persuade la parabola del “figliol prodigo”, della gioia di perdonare il penitente dopo un periodo di traviamento, di disamore e deviazione morale e politica. Massimo D’Alema torna nel Pd, sulla retta via che aveva abbandonato nel 2017 dopo una scissione, che da buon togliattiano doveva evitare. Un errore politicamente marchiano quello di aver sopravvalutato il renzismo, e ancor più grave di aver sminuito e svalutato la presenza e l’orgoglio dei progressisti e della sinistra, ammaccata ma viva e vegeta.
Ho seguito la scelta della scissione mal volentieri e solo per affezione, ma ora la mia storia mi porta alla “Società degli Apoti”, con sfumature escapiste. Caro Massimo, sono alla ricerca di una verità diversa da quella da te scodellata: stavolta non me la bevo! Paradossalmente come Renzi, nella stagione che ho sempre contestato e contrastato, che tu cataloghi come la “malattia” (spero non infantile, di leniniana memoria), vi siete dedicati più che alla politica, seppur con approcci diversi, al business, utilizzando il ruolo e il prestigio di leader politici. Ma se Renzi fosse stato davvero una malattia perché non curarla dal di dentro? E poi sei sicuro, dopo 5 anni, che la medicina giusta fosse LeU?
Una ricomposizione forse necessaria, ma senza ricorrere ai buoni sentimenti, al vogliamoci bene: è necessario mettere in moto un processo che coinvolga non solo l’establishment, ma soprattutto gli iscritti, come frutto di un percorso dal basso, coinvolgendo le organizzazione sociali e civiche e tutti i soggetti che hanno permesso, “con passione e impegno”, al Pd di essere oggi il primo partito. Il Campo Largo di Letta non può rappresentare un ricettacolo indistinto, pronto a ricevere e contenere tutto senza alcuna selezione. Purtroppo, quando parliamo di “campo largo”, ancora non sappiamo cosa è, qual è il suo perimetro di azione. Non si conosce se si tratta di una vasta distesa, qual è il progetto, la strategia e i suoi valori. Tra i soggetti il M5S è dentro? La proposta di Letta a Conte ad entrare nel gruppo dei socialisti europei va in questa direzione? E Carlo Calenda, leader di “azione”? Il Pd insegue la maggioranza che sostiene la presidente dell’Unione Europea, Ursula von der Leyen? E quali sono i partiti del centro che sono appetibili al “campo largo”? Si vuole rifare un grande Ulivo? Sono risposte che il Pd deve dare: risposte chiare e non più rinviabili.
Anno nuovo, problemi vecchi. Il partito di Letta si sveglia con l’ingombrante ombra dei baffi di D’Alema che indica, come un raggio di sole dopo la tempesta, il nuovo sol dell’avvenire. D’Alema non bussa al portone del Nazareno, ma apre con la chiave che non aveva mai buttato. Non c’era nessuno ad attenderlo: il suo gioco è stato considerato un’entrata a gamba tesa nel riavvicinamento fra Pd e Articolo Uno. Lo fa lanciando frecciate al presidente del consiglio, Mario Draghi: “L’idea che il premier si auto-elegge Capo dello Stato e nomina al suo posto un alto funzionario del ministero dell’economia mi pare non adeguata per un grande Paese democratico come l’Italia, con tutto rispetto per le persone”. E poi: “Non mi impressiona che abbiamo il governo Draghi, che è una condizione di necessità, ma il tipo di campagna culturale che accompagna questa operazione, sulla necessità di sospendere la democrazia e di affidarsi a un potere ‘altro’, che altro non è se non il potere della grande finanza internazionale”. Il governo Draghi, per D’Alema, è solo una “condizione di necessità”. Lancia i suoi strali dimenticandosi (forse) che uno dei ministri più in vista è di Articolo Uno, Roberto Speranza, e nel momento in cui la discussione politica ruota intorno al toto-Quirinale. Per Massimo D’Alema il Pd è guarito dalla “terribile malattia” renziana, e una “ricomposizione appare necessaria”: è questa una riflessione fatta nel corso del brindisi via Zoom di Articolo Uno.
Per riaprire un confronto e far pace con il Pd, non trova di meglio che rispolverare il gracile pretesto che aveva portato lui e Bersani alla scissione: il virus del renzismo è stato quindi una “deriva disastrosa, una malattia che fortunatamente è guarita da sola”. Se c’era la malattia, e il malato non è morto, è perché qualcuno l’ha curata con mezzi terapeutici, prescrizioni mediche e relative terapie. La malattia se c’era non è svanita da sola, non è evaporata per favore degli dei o per combinazioni astrali. Il Pd guarisce perché chi è rimasto dentro il partito ha saputo inoculare pazientamene gli anticorpi e, comunque, non è certo per merito di Articolo Uno, che ha preferito abbandonare la “ditta”, per una formazione politica che non è andata mai oltre il 3% dei voti con il cartello elettorale ”Liberi e Uguali”.
Non si può certo negare che la fase di Renzi, come segretario del Pd, ha generato tra i democratici disagio e malessere, a cominciare dalla scelta di Letta di partire per Parigi per dedicarsi all’insegnamento universitario, a seguito del famoso “Stai sereno”, con l’immediato cambio della guardia alla Presidenza del Consiglio. Per non parlare della operazione, da parte di Renzi, della cosiddetta “rottamazione”, termine insopportabile del vecchio “da liquidare”. Un valore discriminatorio e spartano che tra vecchio e nuovo nega confronto e reciprocità. Rottamare le persone non solo non è politically correct, ma manda in soffitta esperienze, storie e passioni, attraverso una generalizzata e morbosa attenzione al dato anagrafico, assunto come discrimine eponimo di tutte le negatività del sistema. Sta di fatto che la prima vittima illustre fu proprio Massimo D’Alema, che pure corteggiava Renzi per andare a Brussells per ricoprire l’incarico di Alta rappresentanza dell’Unione per gli affari esteri. Ruolo ricoperto da Federica Mogherini. Poi lo stesso Renzi esce dal Partito democratico per fondare Italia Viva, un partito, che come LeU, non supera mai il 3% del consenso.
Massimo D'Alema
Prima di aprire un franco confronto col Pd, D’Alema dovrebbe fare outing e un po’ di autocritica per spiegare prima di tutto perché la scissione e perché LeU sono stati una clamorosa e sonora sconfitta. La vittoria del No al referendum costituzionale promosso da Renzi, la nascita del movimento ConSenso e il germogliare di LeU avevano riacceso le speranze, per chi aveva fatto la scelta di scommettere su questa spericolata scelta, di una riappropriazione dell’eredità civica e storico-politica della sinistra, del riformismo della seconda metà del Novecento, senza per questo cadere nella nostalgia del passato. Dopo l’impietoso risultato di LeU, alle lezioni politiche del 2018, più che fare il tentativo di capire le ragioni profonde del flop si è preferito assolvere il gruppo dirigente scegliendo la scorciatoia della consolazione e dell’autoassoluzione, scotomizzando così la penosa e sgradevole realtà. Il gruppo dirigente, percepito dall’elettorato forse come “malattia” e quindi non in grado di produrre una alternativa credibile, avvia la fase Costituente senza aver compiuto preventivamente una seria analisi del voto, senza riflettere da quale identità politico-culturale ripartire, senza ammettere che eravamo stati anonimi, privi di carattere distintivo e identitario. Ci eravamo adagiati su una storia che simboleggiava un vissuto con radici profonde e gloriose. Una sconfitta politica cocente nonostante in prima linea c’erano un ex premier, un ex segretario del Pd, i presidenti di Camera e Senato, un ex segretario della Cgil, un ex capogruppo e un ex presidente di Regione: un partito leaderistico senza leadership riconosciuta. Avete dato spazio ad ex mille cose, ma non ai presidi sul territorio, a giovani e donne, con scarso confronto diretto con gli elettori, organizzazioni di categoria e corpi intermedi dotati di specifiche conoscenze, con i soggetti più deboli presenti in ogni aggregato sociale, sottovalutando la competenza, la gavetta e i portatori d’acqua.
Si è perso anche perché si è sottovalutato la nuova realtà sociale tra Nord e Sud, l’invecchiamento demografico, il radicamento delle destre e dei populisti, il degrado delle periferie e dei nuovi diseredati, l’entrata a gambe tese della democrazia digitale. Avete ignorato che qualcosa si era spezzato nell’anima del nostro Paese, non più a fronte di un travaso di voti o di una crescita smisurata di astensionismo, ma per qualcosa di più e di diverso, un mutamento che interrompe una fase, un ciclo che tocca i fondamentali stessi della civiltà non solo europea, ma che coinvolge la cornice internazionale. Dal gruppo di Visegrad a Putin, da Erdogan a Trump. Articolo Uno, in questa fase di transizione, scomposizione e ricomposizione di tutte le forze politiche, non doveva nascere e la fuoriuscita dal Pd fu una scelta ”malata”, gestita poi anche peggio, poiché nei fatti incapace di costruire un’autosufficienza sul piano elettorale. Su questo sfondo, quale esperienza, quale concreto contributo si vuole dare per difendere e aggiornare il pensiero socialista e riformista del Pd? Adesso si vuole rientrare nel Pd perché aveva ragione chi era uscito sbattendo la porta? L’occasione propizia per ricucire i rapporti potrebbe arrivare con le Agorà democratiche attivate da Enrico Letta per rilanciare il Pd. Una opportunità per una possibile ricomposizione. Una strada sdrucciolevole, un lavoro politico di cucitura sartoriale, ma è da percorre, partendo però dagli errori commessi!
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Da ex dalemiano dico: questa volta non me la bevo!
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