di Agostino Bagnato
Nel mese di agosto del 1980, il rappresentante del governo austriaco presso la FAO mi invitò a visitare la Fiera di Wells. Si trattava di una manifestazione agricola importante e accettai volentieri. Il viaggio fu molto utile per conoscere l’agricoltura e la zootecnia dell’Austria, da poco aderente al Mercato Comune Europeo. Ma il mio interesse maggiore era potermi recare in Cecoslovacchia, a Bratislava, Brno e Praga.
Avevo richiesto il visto a Roma e l’avevo ottenuto senza difficoltà.
Terminate le visite formali, a Vienna presi il treno per Bratislava, che dista poche decine di chilometri dalla frontiera. Mi fermai una notte per visitare il giorno dopo il Museo Nazionale Slovacco, la sede del Parlamento e i giardini lungo il Danubio. La sera presi il treno per Brno con l’unico scopo di mettere piede nel Castello di Spielberg, la celebre prigione asburgica di Silvio Pellico, Piero Maroncelli e altri patrioti italiani del Risorgimento. L’impressione che ne ricevetti rispondeva alle suggestioni che avevo riportato dalla lettura delle Mie prigioni. Ripresi il treno per Praga nel primo pomeriggio. Il paesaggio era bellissimo, tra boschi e laghetti, campi ordinati e villaggi graziosi, casette ben tenute, dalla facciate quasi sempre di un arancione chiaro e il tetto di ardesia. I campanili delle chiese svettavano tra la vegetazione e le colline della mitica Boemia.
Sferragliando, il treno entrò nella stazione di Praga e lo spettacolo che si aprì davanti ai miei occhi era davvero folgorante. Al di sotto della ferrovia si trovava il grande edificio del Museo storico e la spianata della piazza di S. Venceslao; in fondo tra lo sfolgorio delle luci del tramonto la parte vecchia della città e in lontananza la collina di Višegrad. Tutto era tranquillo, sereno, addormentato.
Praga centro
Mi misi alla ricerca di un albergo e non fu semplice trovare una sistemazione attorno a Piazza S. Venceslao. La statua del leggendario condottiero boemo dominava l’intero centro storico. Il mio pensiero corse subito alla musica di Bedrich Smetana, Antonín Dvořak, Jozef Suk, Leoš Janáček. Ma nell’aria della sera mi venne incontro un fragore di ferraglia, di motori a scoppio e di urla per protesta della folla. No, non l’avevo dimenticato. Ero a Praga per ricordare la Primavera del 1968, le speranze che Alexander Dubček e Josef Svoboda avevano fatte nascere in tanti comunisti italiani, il sogno del socialismo riformato, la certezza di un processo democratico non più rinviabile per i Paesi del socialismo reale. Tornai in albergo per riposare qualche minuto, prima di andare a cena in una delle tante kavarna dove il cibo autentico e la birra avrebbero attenuato la stanchezza e l’amarezza.
una delle famose "kavarne" della città
Ricordavo l’impeto di mio padre contro gli aggressori. Mio padre, stalinista di formazione, si ribellava a tanto sopruso, a quella violenza fratricida. “Sono dei pazzi! I Russi sono diventati irresponsabili. Tutto il vantaggio della vittoria nella Seconda guerra mondiale se lo sono giocato a Budapest e a Praga! Com’è possibile?”
La domanda che mi ponevo anch’io, mentre osservavo la gente tranquilla ai tavoli della Kavarna U Tomaš. Eppure era successo. La notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, circa 250.000 soldati del Patto di Varsavia varcarono la frontiera della Cecoslovacchia e occuparono le principali città e i punti strategici del grande Paese alleato. Soltanto Romania e Albania avevano rifiutato di partecipare all’avventura criminale.
Immagini storiche dell'epoca nei primi giorni dell'invasione
Perché era successo per meritare un dispiego di forze militari così ingenti? Nulla, assolutamente nulla! Alla morte di Antonín Novotnij, il successore Alexander Dubček, tecnico forestale slovacco e poi dirigente del Partito comunista cecoslovacco, aveva ritenuto giunto il tempo di avviare un processo di allentamento del severo controllo poliziesco sulla vita dei cittadini e di aprire un vasto dibattito tra tutte le forze del Paese per avviare una profonda riforma del sistema interno. Non la rinuncia al socialismo, né la rottura con i fratelli sovietici con i quali i rapporti erano stati ottimi, ma creare le condizioni per rafforzare il legame con i lavoratori e gli intellettuali. In primo luogo, allentando le maglie della censura. L’entusiasmo della società ceca è stato commovente. Il partito tornò subito all’attenzione di centinaia di migliaia di lavoratori e di cittadini.
Alexander Dubček (1921-1992)
Tutto questo spaventò il PCUS. Leonid Brežnev era esterrefatto. Come poteva succedere una cosa simile? E se l’esempio ceco si fosse propagato negli altri Paesi socialisti e avesse animato un dibattito al limite della rottura tra la base e i gruppi dirigenti? I comunisti sovietici ricordavano il dibattito seguito alla pubblicazione del Memoriale di Jalta, ultimo contributo di Palmiro Togliatti, prima di morire, al movimento comunista internazionale, quattordici anni prima. Soltanto che la rottura e la separatezza tra base e gruppi dirigenti era avvenuta da molto tempo e gli unici a non volere rendersene conto erano proprio loro, i dirigenti, i vertici dei partiti al potere. Sarebbe stato Michail Gorbačëv a mettere in evidenza lo stato delle cose con la politica della Perestrojka e della Glasnost’, nel 1986, ma era troppo tardi. Il muro di Berlino sarebbe franato due anni dopo, il 9 novembre 1989, travolgendo tutti e condannando storicamente, oltre che politicamente, gli errori di arroganza, presunzione, autoritarismo, burocratismo, mancanza di visione democratica.
Tutto questo non potevo immaginarlo lontanamente nella notte di Praga di fine agosto 1980. Tutte le volte che sono tornato a Praga, dove successivamente ha frequentato artisti, pittori, scultori, musicisti, ho sempre pensato a quella notte di profondo scoramento e di impotenza.
Tornato a Roma, ho cercato subito di stabilire qualche legame con le istituzioni ceche, continuando a svolgere le funzioni di responsabile dell’agricoltura della Regione Lazio. Ma i risultati sono stati scarsi. Quando Vaclav Havel divenne leader della nuova Cecoslovacchia e si apprestava a separare le due entità nazionali, Boemia e Moravia da una parte e Slovacchia dall’altra, compresi che la storia non può essere ignorata. Le sue lezioni sono sempre severe.
Vaclav Havel (1936-2011)
Che senso ha ricordare tutto questo, a distanza di 55 anni? La guerra tra Russia e Ucraina è soltanto un tragico esempio di quanto non abbiamo sufficientemente appreso dalla storia. Speriamo che ricordare il passato, in questo caso, non sia troppo tardi. Nel frattempo, gli atomi stanno preparandosi per qualcosa che non vorrebbero che accadesse.
Roma, 21 agosto 2023