di Agostino Bagnato
2 GIUGNO 1946: NASCE LA REPUBBLICA ITALIANA
Settant’anni fa l’Italia, sfiancata dalla guerra con le distruzioni e la fame che si era portata dietro e poi dal sanguinoso conflitto civile al centro-nord, esattamente il 2 giugno 1946 fu chiamata a scegliere l’ordinamento statuale e il sistema costituzionale. Quella data rimane memorabile nella storia del Paese perché con il referendum istituzionale, gli Italiani dovevano scegliere tra monarchia e repubblica e con il voto per l’Assemblea costituente davano mandato per scrivere la Costituzione che avrebbe dovuto sostituire lo Statuto albertino del 1848, indipendentemente dalla scelta referendaria.
Come è stata vissuta dalla popolazione è storia nota e documentata. La stampa dell’epoca e numerosi cinegiornali fanno rivivere il clima di tensione e di scontro ideale tra le forze politiche e sociali. L’esito è stato netto, nonostante qualche incertezza iniziale: vittoria della Repubblica ed elezione dell’Assemblea costituente che avrebbe dato entro l’anno successivo la nuova Costituzione, «la più bella del mondo» come è stata definita recentemente. Le donne esercitarono per la prima volta nella storia il diritto di voto e l’emozione fu enorme in ogni angolo d’Italia per quel fondamentale diritto civile conquistato. Anche in quella occasione emersero figure formidabili di dirigenti politici, a cominciare da Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, Alcide De Gasperi, Umberto Tupini, Pietro Nenni, Riccardo Lombardi, Luigi Einaudi, Cesare Merzagora, Nilde Iotti, Tina Anselmi, Lidia Ravera, Lina Merlin, Rita Montagnana cui si affiancarono uomini di cultura e giuristi di grande livello come Benedetto Croce, Giuseppe De Nicola, Piero Calamandrei.
Come viene ricordata quella data a distanza di tanto tempo dai giovani e giovanissimi di allora? Cosa ha rappresentato per quei ragazzi che da una parte e dall’altra dedicarono il loro entusiasmo spesso ingenuo e la loro passione, mentre infuriava la lotta politica e le battaglie sociali scuotevano il Paese, specie nelle campagne centro-meridionali con l’occupazione delle terre incolte e del latifondo? Riandare con la memoria a quei giorni è anche questo un modo per ricordare la Repubblica e le scelte che sono state compiute allora da tanti giovani appena affacciati alla vita civile, alla libertà e alla democrazia dopo la notte del fascismo e la tragedia della guerra. Ma è anche la rappresentazione plastica dell’Italia di allora, del clima ideale e sociale in cui si viveva, del modo di essere della popolazione. Non soltanto l’Italia eroica della lotta antifascista e partigiana, del riscatto patriottico e della voglia di ritrovare la strada per la ricostruzione e la rinascita, ma anche quella dei dubbi, delle paure, del peso della tradizione e soprattutto del ruolo che la Chiesa cattolica continuava ad esercitare tra le grandi masse contadine, rurali e della piccola e media borghesia urbana.
Attraverso le dichiarazioni di giovanissimi testimoni, molti dei quali divenuti successivamente importanti personalità della vita politica, culturale, artistica, economica e sociale, è possibile ricostruire un affresco di un Paese martoriato che ha tuttavia la volontà di ritrovare se stesso, contando sulle proprie forze e facendo leva sulle tradizioni migliori e le esperienze popolari, a cominciare da quelle risorgimentali.
LE TESTIMONIANZE DI CHI C’ERA
Può una bambina di appena nove anni sostenere oggi di avere votato, a modo suo, per la Repubblica? Può, ed è un episodio che vale la pena di raccontare, proprio per iniziare questo percorso nella memoria individuale e collettiva riferita a quella storica data.
Anna Rita Piacentini, dirigente nazionale dell’Unione Donne Italiane e della Confederazione Italiana Agricoltori, originaria di Viterbo, parla volentieri di quei giorni febbrili e rievoca con emozione il clima dentro la sua famiglia. «Ricordo nitidamente la data del 2 giugno 1946, anche se avevo appena nove anni. Così come ricordo il giubilo per la vittoria della Repubblica. Ma quello che mi è rimasta ferma nella mente è la campagna elettorale condotta da mio padre Guiscardo, socialista e antifascista militante. Egli faceva il portalettere nella zona di campagna di Viterbo compresa tra Tobia e S. Martino al Cimino. Tutti conoscevano le sue idee ed era altamente rispettato, anche da chi non le condivideva, perché era un omo onesto, generoso e leale. Di questo giudizio ho riscontri ancora oggi da parte di chi lo ha conosciuto. In quei giorni spiegava a tutti il valore del voto per la Repubblica, non mancandogli certamente gli argomenti. Insegnava come fare il segno di croce sulla scheda, soprattutto alle donne che votavano per la prima volta. La nostra casa di Tobiolo era diventata una sorta di ufficio elettorale, anche perché tutti la conoscevano nella zona per il lavoro di mio padre. Mia madre Iole era sarta e molte donne si recavano continuamente da lei. Gli abitanti del luogo venivano a chiedere consigli, per avere informazioni, per scambiare qualche parola, «fare due chiacchiere come si dice ancora oggi». Ed ecco l’episodio che voglio ricordare in questa circostanza, a distanza di settanta anni.
La mattina di domenica 2 giugno accompagnai mia nonna materna al seggio elettorale di S. Martino al Cimino che dista circa 3 chilometri da Tobiolo. Indossavo il vestito della festa e un fiocco bianco mi ornava i capelli. Ma non andavo con la nonna soltanto per farle compagnia. In effetti, si trattava di una vera e propria missione, di grande responsabilità, affidatami dai miei genitori. Se al seggio nessuno avesse sollevato obiezioni, dovevo entrare con lei in cabina e aiutarla a votare. Mia nonna, infatti, pur essendo contro il regime che le aveva portato, con l’inganno, suo figlio a morire in Spagna, era emozionatissima e temeva di sbagliare, anche se nei giorni precedenti erano state fatte molte prove sui fax-simili. Non ho mai dimenticato le parole di mio padre nell’affidarmi l’incarico: «Ricordati che questo voto cambierà la storia d’Italia». Io mi sentivo molto importante, come si può immaginare.
Il seggio era sistemato in un palazzo sulla piazza centrale del paese. Salimmo le scale e ci trovammo in una grande sala piena di gente; gli scrutatori dettero la scheda a mia nonna e nessuno fece caso alla bambina che teneva per mano. Così entrammo insieme nella cabina e le nostre mani, la mia sulla sua, tracciarono un bel segno di croce per la Repubblica. Posso dire di avere portato il contributo alla causa repubblicana e di avere compiuto la missione affidatami dai genitori. Ancora oggi mi sento fiera di quel gesto!
Ma c’è un altro episodio che mi lega a quei giorni memorabili. Mio padre aveva composto alcuni versi sulla melodia “La mia canzone al vento”, in voga in quegli anni. Ricordo che in famiglia, tra i parenti e gli amici favorevoli alla Repubblica, nel corso della campagna elettorale, quei versi erano diventati una sorta di slogan politico, scherzoso e ironico. Il verso «Vento, vento portalo via con te» riferito al re, mi divertiva moltissimo. Il testo[1] lo ricordo ancora oggi e voglio riportarlo come testimonianza di quanto i momenti salienti nella vita di una persona, ancor se bambina, restano indelebili».
Una testimonianza molto diversa è quella di Franco Ferrarotti, sociologo, scrittore, docente universitario in Italia e all’estero, una delle maggiori personalità della cultura mondiale. Sulle sue esperienze giovanili ha scritto pagine lucidissime, di grande valore morale e intellettuale, contenute in decine e decine di libri. Il suo ricordo dei giorni che hanno preceduto e seguito il voto del 2 giugno ha una nitidezza esemplare. «Avevo vent’anni. A Torino ho fatto una intensa propaganda a favore della Repubblica. Dopo un comizio particolarmente acceso in piazza S. Carlo, sono stato minacciato dai monarchici piemontesi, molto legati a casa Savoia e sensibili al destino dei suoi componenti. Ero colpevole, secondo loro, di lesa maestà, avendo apostrofato re Vittorio Emanuele come «gambitorto monarca» incapace di sentirsi sicuro sulla terra italiana, la sua terra, e s’imbarcava sul mare aperto per finire tra le braccia di re Faruk, in Egitto, uno dei peggiori despoti dell’epoca. Anche se molto giovane, avevo le idee precise, avendo già fatto il partigiano e preso parte a numerose iniziative politiche, collaborando peraltro con la casa editrice Einaudi. Facevo parte della Quarta Internazionale, mi sentivo trotzkista e manifestavo apertamente il mio disprezzo per Hitler e Mussolini che avevano pagato con la vita le tragedie di cui erano responsabili, così come ero ostile a Stalin che consideravo un dittatore. Mi definivo Socialfusionista, perché propugnavo l’intesa e l’unione tra socialisti e comunisti, la fusione tra i partiti che si richiamavano al marxismo. Nella lotta contro la monarchia eravamo tutti d’accordo e ci trovavamo bene a lavorare insieme. E’ stata una bellissima esperienza umana, politica e culturale. Pertanto, sono fiero di poter dire che ho dato un contributo alla nascita della Repubblica.
Dopo quella esperienza andai in Francia e poi in Inghilterra, fino a quando non ho incontrato Adriano Olivetti. La mia vita ha così preso un indirizzo ben definito, anche se ho fatto tante cose insieme e le esperienze compiute sono state decisive per il completamento della mia formazione. Ma riandare con la mente alle vicende del 2 giugno 1946 mi dà l’occasione per tornare a riflettere, come ho fatto tante volte nel passato, sul carattere dell’aristocrazia italiana. In effetti, l’aristocrazia del nostro paese è biforcuta, dividendosi tra adesione al realismo e al populismo nello stesso tempo. Questa diarchia si riflette sul carattere della stessa borghesia e del popolo. Ma l’aspetto che più addolora è che, nello stesso tempo, non ha lasciato indenne la casa regnante, una dinastia che aveva alle spalle una storia quasi millenaria e che avrebbe dovuto essere immune da queste degenerazioni. E’ un vero dispiacere constatare, come italiano e come studioso, che una grande casa regnante si sia comportata in maniera inadeguata al proprio dovere ed ai compiti dinastici, lasciando il Paese abbandonato a se stesso nei momenti cruciali della sua storia. A differenza dei Windsor che non hanno mai lasciato Londra, anche quando sembrava che le bombe tedesche potessero raderla al suolo. Il re e la moglie, in compagnia delle figlie Elisabeth e Margaret, andavano tra le macerie per incitare la popolazione alla resistenza. La differenza con il comportamento dei Savoia è davvero enorme. Bisognerà tornare a riflettere su questi temi perché sono legati al futuro dell’Italia. Non s’inventa una classe dirigente; per costruirla, bisogna rimuovere gli ostacoli culturali, comportamentali e caratteriali, rivedere la struttura di fondo, ripensare alla propria natura. Senza isolarsi in sterili nazionalismi, ma guardando al mondo esteriore. Che è molto vasto e complesso e che, a sua volta, non è facile da interpretare».
Marisa Rodano, dirigente storica dell’UDI, deputata e senatrice della Repubblica, parlamentare europeo, figura di spicco dell’organizzazione partigiana romana, ha un ricordo preciso dell’intero periodo. La sua testimonianza ha un valore più generale perché riferito al ruolo delle donne nel voto per la elezione della Costituente. «Occorre una breve premessa. In quel periodo facevo parte dell’Unione Donne Italiane, che si era fondata a Firenze, nell’ottobre del 1945, con l’obiettivo di chiamare all’attività politica e all’opera di ricostruzione del paese le donne e, in particolare, di ottenere per le donne, da subito, senza attendere una futura Assemblea Costituente, il diritto di voto. In seguito si era formato il Comitato pro voto, composto, oltre che dall' udi, dall'alleanza femminile pro suffragio e dalla federazione italiana laureate e diplomate istituti superiori, dai movimenti femminili di tutti i partiti del cln nonché di quelli della Sinistra Cristiana e del Partito Repubblicano. Il Comitato aveva lanciato una petizione popolare per rivendicare il voto alle donne[2] e aveva insistito presso il cln sull'urgenza di provvedere perché si stavano preparando le liste elettorali per le elezioni amministrative. Il decreto legislativo luogotenenziale 1/2/1945, n. 23, che invitava i Comuni a iscrivere nelle liste elettorali anche le donne era stato adottato nel Consiglio dei Ministri del 30 gennaio, giorno dell’entrata in vigore delle disposizioni date ai Comuni dell’Italia liberata per la formazione delle liste elettorali.
Da quel momento era partita la campagna per il referendum e per la elezione dell’Assemblea Costituente. Le donne votavano per la prima volta ed era importante far capire loro che, votando per la Repubblica, avrebbero contribuito in modo determinante a cambiare la loro vita futura. E che, eleggendo donne all’Assemblea Costituente, avrebbero concorso all’introduzione nella Carta costituzionale di principi favorevoli all’emancipazione femminile e alla conquista di diritti fondamentali sul terreno civile e sociale.
Così, coinvolgendo molte donne, andavamo a diffondere volantini nei mercati rionali, nelle piazze, all’uscita delle messe. Facevamo comizi volanti nei cortili dei caseggiati. Ci recavamo anche nelle abitazioni: la padrona di casa invitava le vicine e le amiche e si discuteva del voto.
C’era molto entusiasmo tra di noi e i risultati hanno premiato il nostro lavoro. In Italia ha votato l’89% delle donne aventi diritto al voto e sono state elette 21 rappresentanti nella Costituente. Un risultato veramente importante, se si tiene conto che il voto femminile era esercitato per la prima volta, l’Italia era ancora sconvolta dalla guerra e nel complesso era un paese arretrato. Io ho votato con mio marito a Roma e ricordo che c’era una lunga coda davanti al seggio. Le donne erano moltissime e questo già ripagava dalle fatiche estenuanti della campagna elettorale. I risultati ufficiali sono stati forniti dopo lunghi giorni di attesa e di incertezza, a causa delle discussioni su come dovevano essere conteggiate le schede. L’annuncio della vittoria della Repubblica fatto dal ministro dell’interno Romita ha sciolto la tensione in una grande festa anche per le donne».
Corrado Barberis, sociologo, storico, scrittore, fondatore dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale insieme a Giuseppe Medici, docente universitario stimato dalle cui aule sono passati migliaia di studenti, all’epoca aveva 17 anni. Studente liceale a Bologna, sua città natale, si era avvicinato alla Democrazia Cristiana subito dopo la fondazione. Ha un ricordo preciso e netto del periodo che ha preceduto il voto e soprattutto di come sono maturate le sue convinzioni. «Sono tra i fondatori della Repubblica, almeno a parole. Qualche giorno prima del voto, sono stato mandato da Comitato bolognese a fare un comizio a favore della Repubblica a Cavignano, un paese vicino Bologna. Accompagnavo un noto avvocato che lasciò il compito tutto per me, limitandosi a poche considerazioni, peraltro molto caute. Io provenivo da una famiglia di militari che ha vissuto la fuga del re a Brindisi come un tradimento e una tragedia. Pertanto, la mia fede repubblicana era caratterizzata da un forte sentimento antisabaudo maturato nella famiglia. Inoltre, c’era il convincimento che, sul piano della difesa della proprietà, tema allora molto sentito per lo scontro sociale in atto, la repubblica avrebbe potuto fare molto di più della monarchia, compromessa con le forze più conservatrici e reazionarie. Pertanto, la mia adesione alla causa repubblicana è stata una scelta conservatrice, se si vuole, ma convinta e decisa. A quei principi non sono mai venuto meno. L’ho fatto allora perché mi pareva giusto e continuo a farlo.»
Nando Agostinelli, contadino dei Castelli Romani, dirigente giovanissimo della Federterra, dei comunisti romani negli anni Sessanta e negli anni Settanta e Ottanta presidente dell’Associazione della cooperative agricole laziali aderenti a Lega Coop, ha un ricordo preciso. «Avevo 18 anni. L’anno precedente avevo aderito al Partito Comunista e mi ero subito impegnato nell’occupazione delle terre nella zona a nord di Roma, compresa nel triangolo tra la via Cassia e il fiume Tevere. I centri agricoli interessati erano Campagnano, Mazzano, Rignano Flaminio, Magliano Romano, Riano e Fiano, località dove erano presenti aziende agrarie di notevole dimensione, in parte abbandonate e mal coltivate. Il tema della scelta referendaria non era molto sentito tra i contadini e tra gli abitanti dei centri rurali in tutta Italia e noi cercavamo di sensibilizzare le popolazioni a votare per la Repubblica, anche perché quella scelta avrebbe favorito il successo delle lotte per la terra. A Roma e nel Lazio, dove cera una forte tradizione di lotte agrarie dalla fine dell’Ottocento in poi e una ferma opposizione al fascismo, la scelta a favore della Repubblica, in effetti, era più semplice. Nei Castelli Romani e in particolare a Genzano di Roma, dove abitavo pur essendo nato ad Albano Laziale, l’antifascismo era molto radicato. I martiri delle Fosse Ardeatine annoverano sei abitanti di Genzano, tra cui i braccianti Sebastiano Silvestri e Ivano Scarioli. Dal confino erano tornate figure importanti che esercitavano una grande influenza sulla popolazione e che si battevano contro la monarchia. Tra questi c’era anche Riccardo Iacoangeli, confinato a Ventotene e a Manfredonia, di cui ho sposato la figlia Marisa. La mia famiglia era schiarata su posizioni repubblicane da sempre e per me è stato facile dedicarmi al lavoro politico sin da giovanissimo. Non ho mai smesso. Nei momenti difficili della vita personale e di quella politica le scelte compiute allora sono state un preciso riferimento morale dal quale non mi sono mai discostato. Ora che sono vecchio sento di avere fatto il mio dovere, unitamente a Marisa che mi è stata sempre vicina e ancora oggi insieme ci battiamo per la dignità umana e la giustizia sociale. Anche se non abbiamo votato per ragioni anagrafiche, quella scelta è stata decisiva.»
Un esempio diverso è quello di Luigi Lambertini, giornalista, scrittore, critico d’arte di origine trentina. «Non ho un ricordo preciso di quel periodo. La mia famiglia attraversava un momento molto difficile e causa della guerra e non c’era proprio il tempo per impegnarsi nella vita politica. La mia origine cattolica e liberale avrebbe dovuto spingermi a riflettere sul momento che il Paese stava attraversando, ma ero molto giovane. Mi ricordo, tuttavia, che Ferruccio Pergolesi, professore di diritto costituzionale all’Università di Bologna, dove mi ero iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, sosteneva che l’Italia era una repubblica di fatto ma non di diritto. Evidentemente le accuse di brogli che erano piovute da più parti, avevano lasciato il segno anche in costituzionalisti importanti. Ma, ripeto, non ho una memoria precisa di quel periodo e parlarne sulla base delle letture successive non mi sembra risponda al quesito che mi è stato posto.»
Aldo Masullo è figura a tutti nota per il suo impegno culturale e politico. E’ uno dei maggiori filosofi italiani del secondo Novecento, autore di fondamentali studi sulle principali correnti di pensiero contemporaneo, trasferiti in numerose pubblicazioni e nell’insegnamento universitario, in particolare a Napoli. Il suo impegno politico lo ha portato a ricoprire la carica di deputato nelle file del PCI e successivamente di senatore in quelle del PDS. Questa testimonianza è preziosa per ricostruire il quadro politico ed ideale a Napoli e nel Mezzogiorno d’Italia in un momento cruciale della sua storia. «L’Italia era appena uscita dalla tragedia della guerra. Io ero molto giovane, ma avvertivo la drammatica conflittualità che c’era nel Paese, soprattutto nel Mezzogiorno. A Napoli c’era una passione storica per la monarchia, anche se i Savoia non hanno fatto molto per alimentarla e rafforzarla. Voglio ricordare che la decapitazione della Rivoluzione partenopea nel 1799 aveva creato una profonda depressione culturale e ideale, in quanto la tragica reazione borbonica aveva distrutto le forze migliori dell’illuminismo settecentesco. Da quella tragedia la cultura napoletana non era riuscita a risollevarsi. La borghesia non aveva idee chiare sul processo socio-economico ed era poco sensibile ad una politica di sviluppo. Di conseguenza, Napoli era molto disorientata e sbandata. Soltanto pochi elementi minoritari guardavano con attenzione alla possibilità e opportunità della trasformazione istituzionale e proponevano misure e soluzioni di politica economica e sociale che avrebbero dovuto seguirne. Ma erano una netta minoranza. Anche i partiti politici che erano favorevole alla Repubblica erano in minoranza tra la popolazione. Tra gli intellettuali c’erano atteggiamenti diversi. Benedetto Croce, per esempio, non ha svolto un ruolo preponderante nel dibattito politico di allora, anche se i suoi interlocutori erano in gran parte favorevoli alla Repubblica. In quella situazione erano di facile presa proposte e parole d’ardine semplicistiche. Infatti, c’era una forte sacca di popolo minuto che andava dietro a chi proponeva soluzioni semplici, di tipo populista come si sarebbe detto successivamente. Il laurismo sarebbe stata la dimostrazione evidente di questo atteggiamento e avrebbe comportato danni gravissimi per la città negli anni successivi.
In quel clima si sono svolte le elezioni del 2 giugno 1946. Ero ragazzo, ma avevo maturato il mio orientamento a favore della Repubblica. Ero in minoranza, ovviamente, ed ho dovuto anche polemizzare con qualche familiare. L’esito del voto è apparso subito incerto, ma quando è giunta la notizia della vittoria della Repubblica, la tensione non terminò subito negli ambienti più politicizzati. Infatti, le polemiche sui brogli hanno alimentato lo scontro politico, in quanto quelle polemiche erano state inventate dai fautori della monarchia per consolarsi della sconfitta».
Angiolo Marroni aveva 14 anni e la rievocazione che traccia della Napoli di quei giorni risente dell’ambiente popolare e della tragedia della guerra appena passata. Avvocato, dirigente dell’Alleanza Nazionale dei Contadini, amministratore pubblico per lunghi anni ed impegnato nella difesa dei diritti umani con particolare riferimento alle politiche carcerarie tanto da essere nominato Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, traccia un affresco preciso della vita napoletana del tempo. «Tra il 1942 e il 1945 Napoli ha vissuto giorni terribili. Prima i bombardamenti anglo-americani, poi l’occupazione nazista cui ha fatto subito riscontro l’insurrezione popolare che ha portato alla liberazione della città alla fine di settembre del 1943. La mia famiglia è stata costretta a lasciare la casa di Mergellina sotto i mitra dei soldati tedeschi che obbligavano a sfollare la zona entro 200 metri dal mare. La gente lasciava le case trasportando quello che poteva su carri e sulle carrozzelle dei bambini, nascondendo come poteva qualcosa che poteva essere razziata. Io frequentavo il ginnasio Vittorio Emanuele II; successivamente mi sarei iscritto al liceo Umberto I, dove studiava anche Giorgio Napolitano, più grande di me di qualche anno. Mio padre era socialista. Fu licenziato dalle Ferrovie dello Stato dove prestava servizio come fuochista sui treni ed aveva ottenuto un portierato in un caseggiato a Mergellina. Nella mia famiglia paterna erano tutti repubblicani convinti, pur sapendo di essere minoranza nella Napoli dove la tradizione monarchica era molto forte. In quella materna non c’era un preciso orientamento. Mia madre era una donna di casa semplice, devota alla famiglia e non aveva una formazione politica. Il nonno materno che faceva il calafataro ero il punto d riferimento per tutto ciò che riguardava il mio rapporto con il mare, la pesca, i pescatori. Ma era mio padre che dettava le regole di vita.
La campagna elettorale si svolse in un clima acceso, ma quando giunse il risultato della vittoria della Repubblica, non ci furono molti festeggiamenti. Ricordo che i giornali uscirono in anticipo, annunciando la vittoria, rispetto all’annuncio ufficiale che fece il ministro Romita. Si è trattato di una mossa abilissima, quasi un mettere il governo e il Paese di fronte al fatto compiuto, alla presa d’atto di uno stato di fatto. Qualcuno parla ancora di brogli, ma non si saprà mai come sono andate realmente le cose.
Debbo dire che quelle giornate mi hanno lasciato un ricordo preciso di passone civile e politica, ma più ancora mi ha impressionato la fuga da Napoli dei nazisti. Vedere le lunghe file di carri armati, di autoblindo e di camion stracolmi di soldati tedeschi dava il senso della vittoria popolare, dell’insurrezione spontanea guidata da antifascisti e militari badogliani sbandati, con gli scugnizzi in mezzo alle barricate e le donne che gettavano dalle finestre quello che potevano sui soldati della Wermacht. Una testimonianza precisa è il film di Nanny Loi Le quattro giornate di Napoli, dedicato a Gennarino Capuozzo, il ragazzino fuggito dal riformatorio e ucciso dopo avere bloccato un carro armato tedesco, medaglia d’oro. Tra gli intellettuali che incitavano alla rivolta, credo ci fosse il matematico Renato Caccioppoli. Per me si tratta di giorni indimenticabili, tremendi ed eroici allo stesso tempo».
Giovanni Mastroianni, docente di filosofia in Calabria fin dalla giovinezza e autore di molti studi sul marxismo, più che della campagna elettorale ha un ricordo preciso dell’entusiasmo seguito all’annuncio della vittoria della Repubblica in una importante città come Catanzaro, dove la tradizione monarchica era molto forte. «Quando fu noto il risultato del Referendum istituzionale, decidemmo di manifestare per le strade il nostro entusiasmo. Era un modo che avevamo imparato sotto il fascismo nelle adunate del regime.
La manifestazione ebbe un preciso destinatario, nella persona del direttore della biblioteca comunale, don Pippo De Nobili[3]. Andammo sotto la sua finestra a salutarlo: si affacciò e ci salutò agitando la papalina. Egli era rimasto molto scontento del risultato, localmente favorevole alla monarchia e aveva scritto versi terribili a proposito.
Nel corteo vidi con mia sorpresa un marchese, uno degli ultimi rappresentanti in titolo della nobiltà catanzarese. Era chiaro che non era venuto per festeggiare ma per partecipare alla presa d'atto della fine di un mondo e della nascita di un altro mondo in cui si fosse nobili solo d'animo.»
Sua Eminenza il cardinale Velasio de Paolis, teologo e autore di studi filosofici molto importanti, docente universitario molto apprezzato, nel 1942 aveva appena undici anni. Non si sottrae a fare emergere dalla memoria lontana alcuni frammenti di cose vissute. «La mia famiglia era monarchica, come la maggior parte delle famiglie dell’Italia centro-meridionale. Sono nato a Sonnino, un borgo tra le montagne subito a ridosso della pianura pontina, e a quell’epoca conducevo vita molto riservata, come tutti nella mia famiglia. Le popolazioni della zona soffrivano ancora le pesanti conseguenze della guerra, compreso i contadini che hanno subito pesanti danni in seguito all’avanzata anglo-americana dopo la battaglia di Cassino. L’orientamento della popolazione era favorevole al re, come si diceva in famiglia. L’anno successivo sono entrato in seminario dove ho proseguito i miei studi, ho preso i voti e sono stato ordinato sacerdote. Ero lontano dalla vita politica, ma ricordo che mio padre diceva che la vittoria della Repubblica era il risultato di brogli che si erano verificati nel corso dello spoglio dei voti. Nessuno è ancora oggi in grado di dire cosa realmente sia successo, ma a distanza di tanti anni ha poca importanza sapere come siano andate le cose. Il sentimento monarchico era molto forte nel Mezzogiorno e proprio per questo il risultato elettorale è stato favorevole alla monarchia in quelle regioni. Quello che è avvenuto successivamente è noto».
Mario Mioni, dirigente della Federazione Nazionale Coltivatori Diretti e della Federconsorzi, all’epoca aveva 13 anni. «Non ho un ricordo preciso dei giorni che hanno preceduto il referendum. La mia famiglia era originaria di Umbertide, in Umbria. Mio padre era agricoltore di solida formazione cattolica, di sentimenti antifascisti e si era avvicinato alla Democrazia Cristiana appena fondata. Nella sua azienda aveva dato ospitalità e assistenza a numerosi militari sbandati dopo l’8 settembre e ai partigiani della zona. A Roma vivevo e studiavo presso il Collegio Nazionale Vittorio Emanuele II, proprio perché la mia famiglia era in Umbria. Ero orgoglioso di avere come professore di storia e filosofia Eugenio Paladini, un giovane militare che era stato arrestato dalla Gestapo e torturato nel carcere di Via Tasso. Ogni volta che mi reco nel Museo della Liberazione, di cui il professor Paladini è stato successivamente direttore, provo una grande emozione a pensare a quello che ha vissuto Roma in quegli anni. Ma sono anche orgoglioso che la mia famiglia abbia dato un contributo, con il proprio voto, alla causa della Repubblica. Questo dimostra che i contadini non erano tutti favorevoli alla monarchia, come ancora qualcuno sostiene, e che il mondo rurale ha saputo compiere le proprie scelte in base alla consapevolezza civile e politica che era riuscito a formarsi dopo anni di dittatura e mancanza di democrazia».
Vincenzo Loriga, poeta e psicoterapeuta junghiano, originario di Cagliari, dopo gli studi romani, si era trasferito a Milano per proseguire la propria formazione che gli avrebbe consentito d’intraprendere l’attività di psicoterapeuta negli anni successivi. «Avevo rotto con i comunisti e mi ero avvicinato al movimento di Giustizia e Libertà dove ho conosciuto Ugo La Malfa e Leo Valiani. Mi erano stati presentati da Giorgio Candeloro, mio professore di storia e filosofia a Milano. La mia formazione culturale e l’orientamento politico mi portavano ad essere chiaramente a favore della Repubblica. Tuttavia, mi turbarono alcune voci che circolavano in quei giorni, riguardanti il fatto che alcuni monarchici sarebbero stati gettati nei Navigli. Quelle voci non sono state mai confermate, né ci sono riscontri di tipo giudiziario al riguardo. Io ho votato per la Repubblica. Ero giovanissimo, ma avevo raggiunto l’età che mi consentiva di votare, per cui andavo fiero di potere contribuire ad fare voltare pagina al Paese. Non ricordo manifestazioni particolari di giubilo e di festa dopo i risultati. Certo, i giornali e la radio hanno dato grande risalto alla notizia della vittoria della Repubblica.
Molti anni dopo ho conosciuto Marco Pannella a Roma, in occasione del processo ad Aldo Braibanti, accusato di plagio, che si stava consumando a Firenze. Quel giovane mi fece una impressione enorme per il suo coraggio nel contrastare il comportamento dei magistrati che avevano posto sotto accusa il filosofo, scrittore e scienziato. Braibanti era un uomo mite, ma era una figura scomoda e bisognava infliggergli una condanna esemplare. Marco era amico della mia compagna Paola Mazzetti e gli ho sempre riconosciuto un coraggio da leone. Se l’Italia ha compiuto dei sostanziali passi in avanti sulla strada dei diritti civili lo si deve in gran parte a lui. Ma se il 2 giugno la Repubblica non avesse vinto, probabilmente sarebbe stato tutto molto più difficile”.
Tina Costa, staffetta partigiana riminese, ricorda quei giorni con straordinaria lucidità. «Ero arrabbiata, arrabbiatissima perché non potevo votare. Avevo appena sedici anni, ma la mia scelta per la Repubblica era netta. Come sarebbe stato possibile diversamente! Mi ero iscritta al Partito Comunista Italiano nel 1944, praticamente da ragazzina, facendo la staffetta tra gruppi di partigiani nella zona di Rimini. Ero ribelle per natura, mi piaceva affrontare i pericoli, non avevo nessuna paura. Del resto, il mio primo atto di ribellione l’ho manifestato a sette anni, contro la maestra elementare nella mia scuola a Rimini, perché era di Predappio, il paese di Benito Mussolini. Per me era troppo! Sono stata sempre contro il potere costituito, quando lo percepivo come un sopruso e una violenza. La mia famiglia del resto era un esempio di resistenza al potere, sia politico che padronale. Mio padre era socialista, lavorava come operaio nelle fornaci per la produzione della calce. Un lavoro molto duro. Mia madre si era iscritta al partito nel 1935, in piena clandestinità, rischiando sempre l’arresto. Con quella scuola quotidiana, cosa poteva nascere e crescere se non una donna combattiva e tenace come credo di essere stata per tutta la vita e di essere ancora? Mio figlio mi rimprovera di non fermarmi mai. E io gli rispondo che questa è la mia natura e che non intendo mutarla, né potrei, per il tempo che mi resta da vivere! Però, un aspetto della vita a Rimini che ricordo di quei giorni con qualche tristezza è che all’annuncio della vittoria della Repubblica non seguirono scene di giubilo e festeggiamenti. Probabilmente, l’esito del referendum era dato per scontato dalla popolazione».
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Due modi differenti di vivere giornate ed eventi memorabili nella storia di una nazione. La bambina orgogliosa di avere accompagnato la nonna, votando idealmente con lei; la ragazza che non ha l’età per votare e si duole con se stessa, anche perché non c’è stata la festa. Due facce della stessa medaglia, ovvero di una data che resta nel passato vissuto di ciascuna. E nello stesso tempo, l’esempio di milioni di altri testimoni, ognuno con la propria sensibilità, la storia della famiglia e del territorio di appartenenza, il peso del passato che ciascuno avverte.
La storia si scrive basandosi sui fatti documentati, ma si racconta anche sulle memorie di tanti protagonisti e testimoni, anche di chi su determinati fatti non ha avuto un ruolo e non ha esercitato alcuna influenza. E’ importante raccogliere gli umori e il sentimento di chi «c’era», di chi ha visto, ha sentito, ha potuto parlare magari senza piena consapevolezza. Intere biblioteche sono state scritte sugli avvenimenti che hanno portato al referendum e alla scelta della Repubblica, ad appena ottantacinque anni dall’unità d’Italia, seguita allo sbarco dei Mille e a settantacinque anni dalla celebrazione di Roma capitale del Regno d’Italia. Carlo Levi ha scritto che la Resistenza e la guerra di Liberazione sono stati il completamento del Risorgimento, che a sua volta è stato istituzionalizzato con la scelta della Repubblica nello spirito del suo principale animatore, Giuseppe Mazzini.
Ma dare risalto ai ricordi di coloro che nel 1946 erano giovanissimi, alcuni ancora bambini, come si è visto, è importante per dare dimensione umana e familiare, accanto a quella etica e civile. Molti di quei testimoni sono diventati protagonisti della vita dell’Italia repubblicana e hanno contribuito a fare e a scrivere la storia del Paese, ognuno per la sua parte. Ancora oggi continuano a farlo. Ed è a loro che vanno la riconoscenza e il ringraziamento di tutti nel giorno che celebra la Repubblica, da cui è nata «la Costituzione più bella del mondo».
Roma, 20 maggio 2016
NB. Le illustrazioni sono opere grafiche di Nunzio Bibbò, appartenenti al ciclo L’ITALIA E IL RISORGIMENTO, 2011.
[1] Il “Re di maggio”, Re dei lazzaroni / con tutti i mezzi, nessuno buoni, / ha cercato di conservare la corona / senza pensar che storia non perdona… /Dopo il 2 giugno, dato il risultato / il cittadino può cantar così: / Vento, vento, portalo via con te / Laggiù in esilio, quando farà sera / nei sogni suoi, l’immensa schiera / vedrà risorger l’ombra di Mazzini / col grande Eroe ed i garibaldini / son tutti in piedi, in testa la bandiera / tutta la schiera che canta così… / Vento, vento portalo via con te / noi siamo i figli del Risorgimento / ed ora tutto il popolo è contento. / Il mondo savoiardo, mai più l’Italia avrà. / Vento, vento, non lo far più tornar. (Testo di Guiscardo Piacentini, parole originali e musica di Bixio Cherubini, 1942).
[2] Le esponenti dei partiti erano, salvo errore, Rita Montagnana, Egle Gualdi e Maria Baroncini per il Partito Comunista Italiano; Angelina Cingolani per la Democrazia Cristiana, Giuliana Nenni e Maria Romita per il Partito Socialista; Bastianina Musu per il Partito d’azione (PDA); Emilia Siracusa Cabrini per la Democrazia del Lavoro; Josette Lupinacci per il partito liberale; Marisa Rodano e Luigia Cobau per la Sinistra Cristiana. Vi era anche una esponente del partito repubblicano (PRI). Rappresentava la fildis Bice Crova, una delle prime donne laureate in ingegneria. La presidente dell'alleanza femminile era una femminista di antica data, una donna medico, Teresita Sandesky Scelba, che aveva già lottato per il voto alle donne prima del fascismo. Il cif non esisteva ancora e, pertanto, le donne dell'associazionismo cattolico non fecero parte del Comitato. Dopo la sua costituzione, nella primavera del 1945, anche il CIF fece pressioni sul governo per il diritto delle donne al voto.
[3] Filippo De Nobili, mazziniano, repubblicano, uomo di grande cultura, è stato un punto di riferimento per gli intellettuali e gli uomini di cultura calabresi.