Francesco Narduzzi: Luna sole, 2010, terracotta, 25x25

UN PITTORE PUO’ PENETRARE IL MISTERO DELL’EROE?

Francesco Narduzzi, pittore

Ho sentito parlare di Ernesto Che Guevara al tempo della mia giovinezza a Monteromano, nella campagna viterbese. Facevo il contadino e il muratore, ma mi dedicavo alla pittura suggestionato dall’arte etrusca e romana. Non mi occupavo solitamente di politica, anche se non restavo estraneo ai fatti del mondo. Tra questi alla fine degli anni Cinquanta mi appassionò la guerra per bande sulla Sierra cubana e ho ascoltato per la prima volta i nomi di Fidel Castro e di Ernesto Che Guevara. La lotta di liberazione condotta dai campesinos mi ha sempre appassionato, perché la collegavo all’occupazione delle terre nel Lazio e in Italia, iniziata alla fine dell’Ottocento e culminata con la riforma fondiaria del 1950. Poca cosa, rispetto a quello che erano riusciti a fare i campesinos cubani, guidati dai barbudos di Castro e Guevara.

Negli anni Cinquanta era anche cominciata la lotta anticoloniale, per cui l’avventura rivoluzionaria in molti paesi veniva seguita con il cuore sospeso. Quelle vicende riuscivano a coinvolgermi, alimentando i miei ideali socialisti e umanitari. Così quando ho saputo che Ernesto Che Guevara aveva lasciato Cuba per andare a combattere in Congo e poi in Bolivia, mi sono chiesto se non fosse giunto davvero il momento di una sollevazione generale contro l’oppressione imperialista e neocolonialista. Naturalmente, il mio entusiasmo è stato smorzato dai fatti. L’uccisione di Ernesto Che Guevara è stata una doccia fredda, ma non inaspettata. Ho sempre temuto la risposta delle forze conservatrici e reazionarie a ogni tentativo di cambiamento e le rivoluzioni hanno potuto trionfare soltanto in situazioni favorevoli, come quella francese, quella russa e poi quella cinese. Ma c’era stata la guerra di Liberazione in Algeria, con le sue devastanti conseguenze nella stessa Francia, che lasciavano uno spiraglio per futuri successi. In ogni caso, lo sfaldamento del colonialismo era la dimostrazione della incessante avanzata del movimento di liberazione dei popoli. La vittoria dei vietcong contro lo strapotere militare americano è stato il completamento della autodeterminazione di ogni popolo per vivere in libertà e contando sulle proprie forze. I blocchi militari contrapposti, ovvero la guerra fredda tra USA e URSS perpetuava una sorta di equilibrio internazionale, all’interno del quale era difficile introdurre sostanziali cambiamenti.

Così, Ernesto Che Guevara è rimasto sullo sfondo della mia memoria. Ma quando il suo volto è apparso sui manifesti, sui cartelloni e sui muri delle città di tutta Europa alla fine degli anni Sessanta, raggiungendo l’acme della sua diffusione negli anni Settanta e Ottanta, ho compreso che il sacrificio del medico argentino era improvvisamente diventato un simbolo di lotta per la liberazione dei popoli dall’oppressione economica e militarista, oltre che per l’emancipazione sociale nel mondo capitalistico e industrializzato. Ma ho soprattutto percepito che quegli occhi che guardavano lontano erano la bandiera per la dignità e la libertà individuali, in qualsiasi latitudine si fosse e in qualsiasi epoca si vivesse. Una bandiera universale, una sorta di vessillo come la bandiera rossa che veniva agitata di milioni di persone in tutto il mondo, non tanto per rivendicare una società socialista o comunista, per nuovi diritti civili e sindacali, ma per invocare giustizia e libertà, uguaglianza e dignità. In una parola, la passione del colore rosso che si sposa con la felicità espressa dallo stesso colore.

Come rappresentare Ernesto he Guevara, mi sono chiesto più di una volta? Come fissare sulla tela o sulla terracotta quel messaggio che scaturiva dalle sue gesta e soprattutto dal suo corpo martoriato sul lavatoio di Vallegrande? Come farne un segno artistico, partendo dalla mia sensibilità ed esperienza umane? Ho sempre avuto il timore di accostarmi alla figura di Che Guevara come fonte d’ispirazione artistica. Il mio rapporto con la natura e in particolare con la terra, i solchi dell’aratro, le ferite del fuoco sulle piante mi frenava inesorabilmente, perché mi sembrava di operare una sorta di profanazione di quelle carni che già appartenevano alla terra universale, dove era ritornato.

A Parigi, molti anni dopo, un pittore cubano mio amico, Roberto Díaz York, oggi scomparso, mi ha parlato vagamente di Guevara. Roberto aveva lasciato Cuba perché non condivideva il programma politico di Castro. In Francia conduceva vita appartata, ma il ricordo dell’isola caraibica era una ferita lancinante. La bellezza delle foreste, le spiagge lussureggianti di palme e di mangrovie, l’oceano scintillante nel suo azzurro accecante rappresentavano per lui una perdita irreparabile, aggravata da un incendio che aveva distrutto la sua casa e lo studio parigini, portandosi via le testimonianze del proprio passato. Aveva perso tutto e il ricordo era l’unica cosa che legava alla sua terra. Nelle sue parole c’era il risentimento per coloro che lo avevano costretto a lasciare la sua patria, ma per Ernesto Che Guevara provava rispetto e per certi aspetti ammirazione. Ciò era legato al fatto che si trattava di un argentino e l’aspetto internazionalista della sua scelta di combattente per un popolo diverso dal suo ne faceva un vero eroe, anche se aveva vissuto sulla sua pelle le conseguenze negative.

Ma un pittore può penetrare il mistero dell’eroe nel tempo presente? Non è impresa semplice. Molto dipende dal contesto storico, dalle circostanze, dall’empatia dei fatti. L’eroe resta tuttavia una figura irraggiungibile e soltanto un lampo di genialità può consentire di cogliere il gesto che fa l’eroe e rappresentarlo nella maniera più giusta. Per quello che penso io, la maniera più opportuna è quella meno retorica e monumentalistica.

Per concludere, a me piace ricordare Ernesto Che Guevara come un uomo del Novecento che ha sacrificato la sua professione di medico e la sua stessa vita per gli altri. In una parola, una figura d’altri tempi.

 

Monteromano, 11 ottobre 2017

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