di Claudia Sugliano
Ucraina… oggi la sua immagine è quella di un paese in guerra, con tutte le distruzioni e le tragedie che ne conseguono. Ma l’Ucraina deve essere conosciuta anche per le meraviglie della sua storia, dell’architettura e dell’arte, che si spera possano sopravvivere al conflitto. Senza dimenticare i suoi fiumi, il mare, la natura cantata da tanti scrittori e pittori. Ed è questo che voglio modestamente fare con alcuni testi che negli anni l’Ucraina mi ha ispirato dopo bellissimi viaggi, ricchi di incontri e di emozioni.
Il primo articolo, del 2009, non può che riguardare Kyiv, la capitale, da me conosciuta la prima volta in circostanze abbastanza avventurose, ancora in epoca sovietica, città ricca di storia antichissima e di un fascino unico anche per la sua posizione sul maestoso Dnepr.
Il fiume torna in primo piano nel testo dedicato alla crociera sulle sue acque, datato 2013, e dove si parla pure della Crimea, allora ancora parte dell’Ucraina, dichiaratasi poi indipendente con il referendum del 2014, un’ indipendenza mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Si tratta, comunque, in entrambi gli articoli, di pagine di storia, che possiamo aggiornare con le nostre conoscenze attuali.
A seguire, un ritratto di Odessa, e quindi degli incontri con l’arte e con il cinema. Per penetrare un po’ più a fondo in una realtà complessa e piena di sfumature. Quella dell’Ucraina che vorremmo ritrovare.
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(2009) Mistica e rivoluzionaria, Kiev (in ucraino Kyiv) è oggi la capitale dell’Ucraina, Stato relativamente giovane – si è reso indipendente nel 1991 – ma in realtà antichissimo. Leggendaria è l’origine della città, situata sulla verde e collinosa riva destra del Dnepr: a fondarla, nel 482, sarebbero stati i tre fratelli Kij, Cek, Khoriv, e la sorella Lybid’, ribattezzandola con il nome del maggiore di loro. Nell’882 Oleg, sovrano del principato vichingo di Novgorod, dà impulso alla fioritura di uno stato, la Rus’ di Kiev, che si svilupperà con i principi Igor’, Olga e Svjatoslav, grazie ad accordi strategici con Bisanzio e alla conquista di vasti territori dell’Europa orientale. Una tappa significativa nella storia del più grande stato europeo dell’alto Medioevo – tale era allora il regno di Kiev – si ebbe nel 988 sotto Vladimir Svjatoslavovic (980-115) con l‘introduzione del Cristianesimo. Secondo una leggenda il principe, dopo avere consultato i rappresentanti delle varie confessioni, ritenne più convincente quella cristiano ortodossa, impressione che i suoi emissari a Costantinopoli confermarono, dopo avere assistito a una solenne funzione religiosa. Il primo monumento cittadino (1853) raffigura appunto il principe evangelizzatore (egli ordinò il battesimo di massa dei sudditi nel Dnepr), che giganteggia sulla collina a lui dedicata. Un’affascinante descrizione pittorica di quei lontani eventi si dispiega nell’ottocentesca neobizantina cattedrale di San Vladimiro, affrescata da Vaznecov, Nesterov e Vrubel’, simbolo di una moderna arte sacra, intrisa d’influssi art nouveau. Secondo le cronache Kiev, costituita da una parte bassa in riva al fiume e al porto – il Podol, centro di commerci e artigianato – e da una parte alta fortificata con il palazzo del Principe, nell’XI secolo contava da 50mila a 100mila abitanti. Il suo periodo più prospero fu il regno di Jaroslav il Saggio (1019-1054), al quale si deve al costruzione della cattedrale di Santa Sofia e della Kievo-Pecerskaja Lavra, il Monastero delle Grotte, fra i luoghi più venerati dell’ortodossia slava. L’ingresso alla città avveniva attraverso le Porte d’Oro, i cui resti sono ancora oggi racchiusi da una struttura moderna che ne riprende le forme originali.
Appartengono dunque a questo lontano e glorioso passato, in seguito messo in ombra dall’assoggettamento, prima al gioco mongolo-tartaro(1240-1362), e poi al Grande Principato Lituano e ai Polacchi, i monumenti più straordinari e noti della “città dalla cento chiese” e dalle infinite cupole dorate. Più che fra le mura rivestite di affreschi e di sfolgoranti mosaici di Santa Sofia, la religione popolare si respira nelle grotte della Lavra, nelle chiese sotterranee dove i corpi mummificati di monaci e santi riposano in cunicoli scavati nei boscosi pendii affacciati sul fiume. Il monastero al centro del complesso fu soprannominato San Michele dalle Cupole d’oro: fondato nell’XI secolo, più volte ricostruito, demolito dai Sovietici nel 1937 (l’unico architetto che si oppose alla distruzione, Nikolaj Makarenko, morì in un carcere siberiano) e rinato nel 2000. Dopo avere subito la stessa sorte nel 1941, questa volta per mano dei nazisti durante l’ultima guerra, sta tornando all’antico splendore anche la cattedrale della Dormizione, il principale monumento della Lavra, eretta in stile barocco ucraino e coronata da sette cupole dorate.
Fu l’ataman (capo cosacco) Bogdan Chmelnitzkij, la cui statua equestre di fronte a Santa Sofia è un simbolo cittadino, a guidare la lotta contro i Polacchi, promuovendo nel 1654 l’unificazione alla Russia. Kiev conosce allora un nuovo sviluppo; fiorisce il Barocco dalle ricercate decorazioni e dalle tinte pastello, arricchito da motivi architettonici locali (uno dei migliori esempi ne è la chiesa di Tutti i Santi nel Monastero delle Grotte), mentre nella città vecchia, in cima alla discesa di Sant’Andrea, l’italiano Bartolomeo Rastrelli progetta l’elegante chiesa bianco-turchese dedicata al Santo, nello stile di quelle pietroburghesi.
Il Monumento a Bogdan Chmelnitzkij
La Kiev di oggi, con gl’imponenti palazzi ottocenteschi di quando era il centro della parte sud-occidentale dell’impero zarista, e i pomposi edifici d’epoca sovietica (in stile staliniano è tutta la via Krescatik, bordata dagli alberi tipici di Kiev, gl’ippocastani, che nella tarda primavera regalano meravigliose, odorose fioriture), ha in Maidan Nezaleznosti, piazza dell’Indipendenza, un simbolo che ha fatto il giro del mondo. Non è la bellezza architettonica a contraddistinguerla, ma il ricordo della pacifica “Rivoluzione arancione” del 2004, che portò all’annullamento delle elezioni presidenziali e all’elezione del presidente Yushenko, mettendo fine ai legami con Mosca. Da quel giorno la piazza è l’icona della democrazia ucraina e il centro pulsante di Kiev, una capitale che continua a reinventarsi e a crescere, pur conservando con tenacia il suo “cuore antico”.
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(2013) “Stupendo è il Dnepr quando è bel tempo... anche nelle tiepidi notti d’estate...“ così lo cantava Gogol in un suo racconto, e dunque percorrerlo, navigando sulle sue maestose acque fino quasi a raggiungere Odessa, è un’esperienza indimenticabile.
Sempre il celebre scrittore di origine ucraina scriveva: ”pochi sono gli uccelli che riescono a raggiungere il centro del Dnepr”, un fiume la cui ampiezza si può paragonare solo a quella del Volga. Anche se nasce in Russia, esso è intimamente legato all’Ucraina, dove scorrono i suoi tratti più spettacolari, e di cui è considerato un simbolo. Il Dnepr bagna la capitale e, proprio da Kiev, inizia il percorso che, lungo la maestosa via fluviale, conduce al Mar Nero e alla Crimea, con tappa conclusiva ad Odessa. La crociera,oltre a percorrere paesaggi affascinanti, steppe dalla sterminata ampiezza, mostra le diverse anime di una nazione complessa come l’Ucraina: profondamente slava nell’antichissima Kiev, culla della religione ortodossa, selvaggia nella terra dei Cosacchi, mediterranea e orientale in Crimea, rivolta all’Occidente nella cosmopolita Odessa.
Si parte dalla “madre delle città russe”, sorta tra colline e valloni boscosi, sulla riva destra del Dnepr. Lungo il fiume si stendono lussureggianti parchi, come quello della Collina di Vladimir, dove giganteggia la statua del Principe evangelizzatore (980-1015), che nel 988 ordinò il battesimo di massa dei sudditi proprio nelle sue acque. Fra le fronde brillano le cupole dorate di monasteri e chiese. La cattedrale di Santa Sofia, il Monastero delle Grotte, sono autentici capolavori dell’architettura religiosa; nella prima, costruita ad imitazione dell’omonima basilica di Costantinopoli, rimangono pregevoli affreschi e mosaici, nel vastissimo territorio del secondo, cinto da mura, si susseguono chiese, edifici civili come la Stamperia e il Refettorio, vari musei, e un dedalo di grotte con i templi sotterranei.
La prima tappa della navigazione, 160 km più a sud, è Kaniv, dove gli irti pendii del Dnepr (raggiungono i 14,05 m) e il meraviglioso paesaggio spinsero il poeta nazionale Taras Shevchenko (1814-1861) a sceglierlo per l’ultimo riposo:
“Se muoio mi sotterrino/ sull’alta collina fra le steppe della mia/bella Ucraina/che si vedano i campi/il Dnepr con le sue rive/Che si oda il muggire/del fiume stizzito..”
Il monumento e il museo a lui dedicati si raggiungono salendo un’ampia scalinata, dalla quale ammiriamo uno dei panorami fluviali più pittoreschi.
Superata la città-giardino di Kremencuk, ci si inoltra nel territorio dei Cosacchi, guerrieri al servizio di vari signori, che avevano i loro insediamenti vicino ai grandi fiumi e nelle steppe.
Proprio Zaporizzja era la sede dell’atamano, il capo con potere esecutivo. Caterina II, sconfitta la rivolta dei contadini e dei cosacchi, con a capo Pugacjov, nel 1775 liquidò l’autogoverno di Zaporizzja. Sulla grande isola di Chortitsa, rocciosa e ricca di vegetazione, si trova il Museo della Storia Cosacca, ed è stata ricostruita la tipica fortezza (sich), cinta di pali di legno, scenario ideale per agli spettacoli equestri. I cosacchi, si dice, nascono a cavallo, e la loro fama di cavalieri continua ancora oggi, grazie a tali acrobazie.
I più bei paesaggi del Dnepr, dipinti dal pittore Ajvazovskij, si incontrano nella navigazione verso Cherson, già una città del sud, in bianco calcare, fondata come fortezza nel 1778. Qui il fiume termina la sua lunga corsa (2290 km) in un delta, che si visita a bordo di piccole imbarcazioni. Siamo ora nel Mar Nero, dove la navigazione continua verso la penisola di Crimea, oggi Repubblica Autonoma dell’Ucraina. Avvicinandosi a Sebastopoli, si rimane senza fiato di fronte al vasto porto, dove già approdarono gli antichi Greci, con le 38 baie, che ospitano le navi delle flotte militari Ucraina e Russa. Distesa su colline, la città, che nel 1942 subì l’assedio nazista, fu poi ricostruita dai migliori architetti sovietici. A pochi km dal mare, in un paesaggio montagnoso molto suggestivo, eccoci in pieno Oriente, a Bachcysaraj, nel XVI secolo capitale dei Tatari di Crimea. Il Palazzo dei Khan, un complesso architettonico affascinante, riccamente decorato, si sviluppa in vari cortili e giardini. Fra gli edifici più belli, la moschea, i bagni, l’harem e la “fontana delle lacrime”, che ispirò a Puskin il poema La fontana di Bachcysarai. Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, La nona onda, 1850
Un’altra escursione in pullman, lungo una delle strade più suggestive della penisola, permette di ammirarne la frastagliata, scoscesa costa meridionale, ammantata di vegetazione subtropicale, dove nella seconda metà del XIX secolo sorsero le ville e i palazzi estivi della nobiltà russa. Jalta, il maggiore centro turistico dell’Ucraina, protetto da una corona di montagne, venne definito da Cechov, che vi abitò, “un miscuglio di atmosfere europee, riecheggianti i panorami di Nizza, di atmosfere borghesi e da bazar”. Nei dintorni della città fioriscono i palazzi: a Livadia lo zar Nicola II fece costruire il più famoso, bianco in stile neorinascimentale, dove nel 1945 si tenne la Conferenza di Jalta, a cui parteciparono Stalin, Roosvelt e Churchill. Nella vicina Alupka sorge il palazzo Vorontzov, in stile tardo-gotico inglese, mentre uno fra i monumenti più celebri della costa è, a Gaspra, l’eclettico castello, detto Nido di rondine, perché domina il mare dall’alto della scogliera di Capo Ay-Todor.
Come degna conclusione di un viaggio sorprendente, abbandonata la penisola, si volge ad ovest per approdare ad Odessa, la “perla del Mar Nero”, famosa anche per le sue spiagge. Al di sopra del grande, moderno porto, fra il verde di parchi e viali, appaiono le architetture ottocentesche di una città, costruita da architetti italiani e ticinesi in stile neoclassico e barocco. Al centro, vivace, dai tanti caffè all’aperto, ricco di musei, con un Teatro dell’Opera, che rivaleggia con quello di Vienna, ci conduce la famosa scala, icona del film di Eizenstein “La corazzata Potemkin”.
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(2016) E proprio Odessa, città gemellata con Genova, più volte visitata anche grazie a questi forti legami tra i due porti marittimi di primaria importanza, è ora al centro del mio racconto, da cui credo si colga il forte legame che ad essa mi unisce. Legame cementato anche dall’amicizia con due artisti odessiti di talento, coppia nella vita e nella creazione, Nina Fedorova e Stanislav Zaitzev.
Odessa, affacciata sul Mar Nero con il grande porto e le vicine spiagge di Lanzeron, Otrada, Arkadia e Bolsoj Fontan, fa pensare a dolcezza, spensieratezza e indolenza, di solito associate al Sud. “Odessa – una parola solare che ha creato se stessa”, scriveva Isaac Babel’, uno dei suoi celebri figli. E non a caso è soprattutto l’estate la stagione in cui la più grande città dell’Ucraina meridionale esprime appieno la sua natura. Vie (fra tutte la Deribasovskaja, strada dello shopping), piazze e giardini, come quello romantico del Palais Royal, a ridosso dell’Opera, o il vivace Giardino Municipale, mettono in riga, quasi fossero soldatini, gli ombrelloni che proteggono i tavolini di caffè e ristoranti alla moda. Le ragazze, famose per la loro bellezza da modelle, ai primi tepori mostrano già abbronzature perfette e gambe superlunghe, piantate su tacchi altissimi, sfoggiando con graziosa impudenza minigonne e short mozzafiato.
Ragazze di Odessa, dalla minigonna alla divisa militare
Fondato da Caterina II nel 1794, questo porto, nato in mezzo alla steppe praticamente dal nulla, in un grande corridoio fra Oriente e Occidente, accolse subito numerosi gruppi della popolazione, poco accetti in altre regioni dell’Impero: i servi della gleba fuggiaschi, gli stranieri, fra cui nobili risparmiati dalle rivoluzioni, ebrei, greci, commercianti e contrabbandieri di ogni nazionalità. Divenuta una della più grandi città russe, “straordinaria e incantevole città dell’Impero”, come poi scrisse Babel’, Odessa, vero cocktail di nazionalità, era la più tollerante e cosmopolita, al punto che fra i suoi governatori nel XIX secolo ebbe il duca francese Armand de Richelieu, la cui statua, in veste di patrizio romano, si erge alla sommità della scalinata Potemkin, inizialmente a lui dedicata, e resa celebre dal film “La Corazzata Potemkin” di Sergej Eisentein. La carrozzella che, al rallentatore, rotola giù dalla scalinata è una sequenza che ha segnato la storia del cinema. Il film riprende l’episodio dell’ammutinamento della più grande nave da guerra della flotta del Mar Nero nel 1905 quando, dopo l’uccisione di un marinaio, il cui corpo rimane ai piedi della scalinata, che dal viale Primorskij porta al mare, gli operai del porto si uniscono alla rivolta. La notte del 30 giugno i soldati zaristi fanno fuoco provocando decine di vittime, la corazzata lascia Odessa e a Costanza, in Romania, si arrende. La scena del massacro di civili innocenti sulla scalinata non esisteva nella sceneggiatura preliminare e fu proprio l’”incontro” con la scalinata e con il suo irresistibile slancio ad ispirare il regista. La carrozzella, invece, potrebbe essere la rivisitazione dell’ exploit sportivo di un certo Sergej Utockin, che all’inizio del secolo scese in bicicletta la spettacolare scala dell’architetto ticinese Francesco Boffo, con la sua fuga di 192 gradini.
La storia breve, ma intensa di Odessa, traspare dalla sua architettura, dove con gusto nuovo si sono mescolate infinite influenze europee, lasciando spazio alla fantasia di architetti italiani, ticinesi, francesi, austriaci. E proprio a Ferdinand Fellner ed Herman Helmer, che lavorarono all’Opera di Stato di Vienna, si deve la meraviglia di Odessa, il Teatro dell’Opera e del Balletto, inaugurato nel 1887: pilastri classici, statuaria barocca, medaglioni rinascimentali ed una cupola immensa, che al di sopra della cortina d’alberi del Primorskij Bulvar (gli Champs-Elysées di Odessa) dà il primo saluto a chi giunge dal mare. Per comprendere l’importanza di questo teatro nell’Impero russo, basti dire che Petr Cajkovskij venne ad assistere alla prima della sua “Dama di picche” nel 1893, mentre a dirigere l’orchestra furono chiamati Nikolaj Rimski-Korsakov e Alexandr Glazunov. A Odessa gli artisti più amati sono da sempre gli italiani: sulla scena del sontuoso teatro, un tempo aperto anche alla prosa (il soffitto è decorato con scene shakespeariane), la Duse nel 1881 e Caruso nel 1900, riportarono un successo senza pari.
Il Teatro dell'Opera di Odessa
Se lo stile di tale edificio porta echi di Mitteleuropa, a predominare nei viali alberati e nelle strade diritte, è l’aria italiana, con suggestioni neoclassiche, romantiche, barocche, spesso spinte all’eccesso. Capitelli, colonne, cariatidi un po’ appesantite, muscolosi Atlanti, come nell’omonima casa, balconi in ferro battuto su cui si arrampica la vite, ed intonaci color pastello, ocra, terra di Siena, azzurro cielo… passeggiare in questa città è una continua scoperta. Paradossalmente, l’incuria dell’epoca sovietica, che ha preferito costruire palazzoni in stile Chruscev in periferia, ha risparmiato tale patrimonio architettonico, a cui ora cominciano a dare smalto (talvolta anche troppo) fortune economiche nuove, spesso di indubbia provenienza, le stesse che prediligono le spocchiose limousine parcheggiate in piazza dell’Opera, con la cui fastosa facciata sembrano volere rivaleggiare. Eppure una parte del fascino di Odessa sta anche nel suo aspetto un po’ fané, nei famosi cortili, dove i gatti, coccolati da tutti, sono sovrani, nei palazzetti neoclassici bisognosi di restauro, negli intonaci scrostati, nei pensionati che giocano a dama o a scacchi nei giardini, dove, oltre agli ippocastani fiorisce l’acacia, l’albero odessita per eccellenza. Anche le chiese ortodosse, a parte quella di San Pantelimone, e poche altre, qui hanno un’aria diversa: simbolo ne è l’ ottocentesca Cattedrale della Trasfigurazione, distrutta nel 1936 e ricostruita nella neoclassica “grandeur”.
Per chi alla storia preferisce il presente e le sue sirene, Odessa offre infiniti divertimenti e, la notte, risplende con le accecanti luci al neon delle insegne di casino, night club e , in riva al mare, di faraoniche discoteche. Del resto, anche il sommo poeta Aleksandr Puskin, qui esiliato dal 1823 al 1824, non dovette trovarsi così male: oltre a sedurre la moglie del governatore Voroncov (che ci ha lasciato. in fondo al Primorskij Bulvar, l’ omonimo palazzo neoclassico, con lo scenografico colonnato affacciato sul porto), egli nell’”Evgenij Onegin” esaltò la bellezza della città, “dove si sente cantare il Mar Nero”, e nella cui vie risuona “la lingua dell’Italia dorata”.
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E, raccontando di Odessa, mi viene naturale scrivere di un incontro più recente, avvenuto nel 2018, con Oksana Mas, un’artista di livello internazionale, incontrata non sul mar Nero, ma in Spagna, dove ora abitualmente risiede. Oksana,però, ha forti legami con Odessa e la cultura e l’arte popolari ucraine hanno ispirato il suo lavoro ed una grandiosa installazione esposta nel Padiglione ucraino alla Biennale di Venezia del 2011.
Bionda e solare, con la cascata di capelli ricci e pagliuzze d’oro negli occhi ridenti, Oksana Mas pare una visione botticelliana. Ci accoglie nella casa “dei suoi sogni” o meglio nel luogo a cui, quasi senza rendersene conto, si è sentita vicina fin da giovanissima. Siamo in Catalogna, a circa due ore da Barcellona, dove si è di recente stabilita quest’artista ucraina di fama internazionale, che lo scorso anno ha presentato la personale, “Spiritual cities” al MAGA di Gallarate, con opere al terminal di Malpensa 1, insieme ad un’esposizione nella sede milanese di Sotheby’s,.
La sua è una storia di grande passione e di non comune talento, non a caso radicata in una città speciale, come Odessa, da sempre aperta alla cultura e all’arte (basti fare i nomi di Babel, Altman, Kandinsky). Oksana, nata in un’altra vicina città portuale sul Mar Nero, Illicivsk, oggi Cernomors’k, diplomatasi in storia dell’arte a Odessa, si è poi laureata in filosofia, prima di intraprendere, all’inizio quasi per caso, la sua brillante carriera. Sognando di diventare regista, dopo il matrimonio, fece con il marito un viaggio di sette mesi intorno al mondo su una nave mercantile, e fu proprio in questo inconsueto atelier, utilizzando i materiali che aveva a disposizione, e correndo a procurarsi i colori nei vari porti, che Oksana scoprì la sua vera vocazione. I 40 quadri realizzati in quel periodo furono tutti venduti. Era nata un’artista.
Da allora la Mas ha percorso tanta strada, creato un suo linguaggio, anzi vari linguaggi – una fusione tra arte antica e moderna, ricorrendo anche alle tradizioni della sua terra, in lavori monumentali e divenuti iconici, come quello della Biennale, “Post-vs-Proto-Renaissance”, installazione alta 92 m e lunga 134 m., composta da 3.640.000 uova di legno dipinte, e il cui riferimento storico è l’opera dei fratelli proto-rinascimentali Van Eyck.
L'opera di Oksana Mas alla Biennale di Venezia nel padiglione ucraino
Ma questo è solo un aspetto di un percorso creativo infaticabile, alla base del quale sta, senza dubbio, la formazione filosofica e il motto “studiare sempre”. È stato il padre inventore per la Marina sovietica, a inculcarle tale filosofia, e ora, infaticabile, Oksana sta per sostenere l’ esame per il master in Storia dell’Arte.
Incontrarla in questa grande casa – atelier, oltre a fare capire molte cose della sua personalità, è una full immersion in opere sorprendenti, a cominciare dal giardino, dove sul prato , disseminato di olivi, bordato di palme ed alberi esotici, spiccano due sfere della serie “Sphere of God”, con un mosaico di uova colorate. Si tratta di alcuni dei lavori, legati al progetto Art Together, ideato dalla Mas, che mira ad unire la gente e le sue energie creative attraverso l’arte. Sin dal 2009, infatti, ben 380.000 uova sono state dipinte da persone diverse nel mondo intero, entrando a far parte del grandioso altare di Gand.
Ma una domanda si pone: perché, malgrado l’attaccamento alla sua città, la scelta di vivere proprio qui, insieme alle sue incantevoli gemelline (la figlia maggiore è rimasta ad Odessa, dove studia)?
Due erano i sogni di Oksana, viaggiare per il mondo e avere il proprio studio in Spagna, il paese di Picasso, Dali, Miro; racconta che da bambina il suo quadro preferito era quello, trovato su una rivista, di una rosa rossa sullo sfondo di un cielo incredibilmente azzurro. Solo molti anni dopo, quando studiava arte, scoprì che si trattava di un lavoro di Dalì, “Rosa Meditativa”. Ed oggi , il luogo in cui la Mas vive e lavora, è la dolce campagna vicino a Cadaques e a Port Llgat, in una villa appartenuta ad una famiglia di amici, a lungo frequentata , ora divenuta sua. A parte la prossimità con il luoghi di uno degli artisti da lei prediletti, di cui spesso visita il museo, Oksana sente in questo territorio, che si stende sopra un vulcano spento, una grande energia, da cui si alimenta la sua creatività. “Questa casa, poi, riflette il mio amore e il mio rispetto per tutte le religioni del mondo, un mondo che insieme ai suoi abitanti io, come artista, studio ”. E infatti nel vasto salone affacciato sul giardino, due dorate, ieratiche statue di Budda, si inseriscono alla perfezione tra suoi lavori, appartenenti a due diverse serie. Uno, sul maestoso camino in pietra locale, utilizza un pneumatico come supporto per una cornice di pisanki “le uova in legno dipinte”, l’altro fa parte della serie “Biomorfhic realism”, dove la tecnica dell’artista, che intreccia strati di pittura e di lacca, sottolinea sulla superficie del quadro la fluidità delle forme.
A Oksana appartengono oltre 30 progetti, fra quelli realizzati e gli altri in corso. Comunque, è solo una piccola parte del materiale in fieri, che questa instancabile giovane donna tiene nelle sue cartelle. “Un artista non deve porsi limiti – dice – né nelle idee, né nei materiali, altrimenti diventa un artigiano. Bisogna realizzare alcune idee perché ne nascano altre. All’inizio c’è l’idea, poi la scelta del linguaggio adatto, nel quale si concretizzerà. Inoltre i progetti si alternano: pittura e disegno, da una parte, scultura, istallazione, architettura dall’altra ”.
Oksana Mas, Istallazioni
Si riesce ad immaginare il suo fervore creativo attraverso le stanze, dove più che mobili od oggetti decorativi, si susseguono quadri, come quelli della serie “Mandala Dance”, dove il tema dell’uovo assume un altro linguaggio, creando volatili particelle e motivi, che ricordano, appunto, i mandala. Del resto l’idea dell’uovo dipinto, qui in una una nuova incarnazione, le nacque nei monti Carpati, quando nella bianca atmosfera del gelo invernale, malgrado non fosse Pasqua, ne vide un enorme cestino colmo al mercato. Trascorse un anno prima di trovare il linguaggio e la tecnica per creare i mosaici con questo magico elemento, presente in tutte le culture del mondo.
L'Altare della Nazione, gigantesca opera di Oksana Mas nel centro di Kiev e alcuni aspetti interessanti del complicato montaggio della struttura
Oksana Mas viaggia molto, ma in questa casa, immersa nel verde e a pochi chilometri dal mare così amato, che tanto spesso compare nelle sue opere, oltre a lavorare intensamente nel suo studio accanto alla grande piscina, sul cui fondo guizza un mosaico di pesci, trascorre il tempo con le sue bambine; legge molto, si occupa poi del giardino, e adora cucinare. Ma, secondo la sua filosofia perfezionista, anche qui Oksana non si accontenta di risultati modesti: studia le cucine del mondo e fa pratica nei ristoranti stellati. Per la gioia dei suoi numerosi ospiti.
Se Oksana Mas nel 2011 aveva rappresentato l’Ucraina alla Biennale veneziana, con un’opera profondamente radicata in quella cultura, completamente diversa è stata la proposta dell’edizione 2016 a cura del commissario Peter Doroshenko, che ha privilegiato un linguaggio internazionale volto ad interpretare il paese. È stato dunque interessante visitare anche quest’esposizione ospitata nella splendida cornice di Palazzo Papadopoli.
L’aristocratica dimora accoglie “A poem about an inland sea”, il padiglione Ucraino. Il commissario Peter Doroshenko, presidente del Pinchuk Art Center di Kiev, che rappresenta l’Ucraina alla Biennale, ha scelto 8 artisti internazionali per esprimere il concetto di “transculturalismo”, alla base del progetto. Il loro riferimento al paese è stato quello di adeguarsi al tema, ognuno con i propri mezzi espressivi e la propria sensibilità. L’inglese Mark Titcher, candidato 2006 al Turner Prize, astrattista a cui piace giocare con le parole, utilizzando la strategia delle agenzie pubblicitarie, ha creato per i giardini lo striscione “Siamo ucraini, cos’altro conta?” con uno sfondo ispirato alle architetture di Kiev e una scultura dal titolo MAMA, a forma di tridente ucraino,che mette in discussione il concetto di paese – madre/patria. Dzine, artista di Chicago, di origine portoricana, influenzato dalla street culture, da design e musica da DJ, ha affrontato il problema delle radici nazionali con l’installazione Music Boat – Dnipro, una barca funzionante dipinta con i colori dell’Ucraina. Alla fotografia si sono rivolti, con gli ucraini Serhij Bratkov,Boris Michailov e il tedesco Juergen Teller. Bratkov, che da vent’anni registra realisticamente l’assurdità della vita quotidiana nel suo paese, ha creato in due ridondanti stanze del palazzo ritratti di ucraini al lavoro nelle acciaierie di Dnipropetrovsk, con light box appoggiati su bidoni di prodotti chimici e un video che mostrano il flusso dell’acciaio fuso. Michailov, già fotografo concettuale e che ora definisce la sua opera “realismo critico”, racconta storie, episodi di vita di alcune città di provincia e la sequenza che rappresenta un neonato simboleggia la grande aspettativa dell’uomo – la continuazione delle generazioni. Ben noto nel mondo della moda Teller presenta una sua interpretazione dell’attuale società ucraina, cogliendo a Kiev l’ossessione del capitalismo, del bene di lusso e del sesso, in una passerella dove predomina l’esso. Il duo ucraino Alexander Hnilitsky/Lesja Zaiats, autore di interventi come “Meditazioni cinematografiche” mostra in una stanza, amalgamandosi con gli storici interni del palazzo, come la realtà più consueta possa all’improvviso rivelare un aspetto psichedelico, Sono luci che trasformano un comune sofà, ma anche “il lato patetico della muffa e dei funghi che decorano una parete umida”.
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Nel 2016 il Festival di Taormina porta alla ribalta, con un film del regista Igor Lopatonok , presentato da Oliver Stone, la Russia e l’Ucraina, in un confronto estremamente interessante e discusso. E con tematiche e riflessioni più che mai attuali in questo nostro drammatico momento storico.
La Russia e l’Ucraina, due magnifici paesi dalla storia strettamente legata, negli ultimi anni hanno avuto rapporti conflittuali causati, fra l’altro, dalla rivoluzione ucraina del febbraio 2014 e dal referendum, che ha portato all’autonomia della Crimea. Questi fatti, di cui sono state date letture discordanti, sono al centro di un interessante documentario, presentato nei giorni scorsi al Festival di Taormina.
Ad “accompagnare” “Ukraine on fire” (Ucraina a fuoco) del regista Igor Lopatonok, ucraino, che vive negli USA, è stato Oliver Stone. Il celebre regista americano, ospite d’onore della manifestazione cinematografica, in questa occasione era nelle vesti di produttore esecutivo del docu-film e di intervistatore di alcuni suoi protagonisti, come i presidenti dei due paesi, Vladimir Putin e Viktor Janukovic. La locandina del film
Secondo Stone, l’Occidente ha una visione distorta della questione ucraina: lasciando parlare Putin sul referendum della Crimea, in cui il 90% della popolazione è stato a favore della Russia, egli riflette sul fatto che esistessero presupposti storici e strategici per l’annessione. Questo lo porta a dire, nell’intervista rilasciata ai media italiani, che «se Cuba è il cortile di casa dell’America, la Crimea era nella stessa situazione per Mosca».
Nel documentario, dove vengono utilizzati materiali di repertorio, ricostruzioni storiche ed interviste, non si tace neppure sul nazionalismo di destra, ben presente nelle manifestazioni “per la libertà” di piazza Maidan a Kiev, denunciando anche il coinvolgimento di organizzazioni non governative, della CIA e dei suoi vari emissari, infiltrati nelle cosiddette “rivoluzioni colorate”.
Un approccio, quello di Stone e di Lopatonok, da alcuni definito “filo russo”, ma in realtà, supportato da punti di vista diversi, animato dal desiderio verificare e magari mettere in discussione la versione ufficiale dei fatti. Perché, come dice Mark Twain “Il patriottismo è sostenere il tuo governo quando se lo merita”.
Non rimane dunque che attendere l’uscita di “Ukraine on fire” nelle sale italiane per comprendere meglio fatti drammatici e controversi della storia recente.