Agostino Bagnato
IL MARE E LA VELA
Bagnoregio e Civita sono al centro di un robusto romanzo di Clarice Tartufari, prolifica scrittrice del primo Novecento, oggi completamente dimenticata. Personaggi creati dalla fantasia, collocati in un contesto realistico e rispondenti alla verità storica e topografica, fanno del romanzo Il mare e la vela un affresco di vita vissuta nell’arco di dieci anni a cavallo della Grande guerra, ancora oggi stimolante e per alcuni aspetti anche istruttivo. L’intreccio narrativo, la personalità dei protagonisti, il possibile riferimento a persone vissute e fatti realmente accaduti, obbligano il lettore che voglia cogliere pienamente aspetti socio-culturali a ripercorrere vicende storiche del primo Novecento italiano. Si vedano in particolare i richiami al dibattito all’interno della Chiesa tra tradizionalisti e modernisti, la prima emigrazione verso Israele da parte degli ebrei romani nel contesto sionista, lo sfondo della Prima guerra mondiale che coinvolge l’intera popolazione.
Pubblicato dall’editore fiorentino Bemporad, Il mare e la vela affronta le vicende dell’ebreo Gastone Budrio che, visitando Bagnoregio e dintorni alla ricerca di mobili antichi, arredi e oggetti di arte sacra, s’innamora di Leonora, giovane moglie del barone Giuseppe Oliver, studioso di storia della Chiesa. La donna, punta dalle spine di una rosa nell’atto di ornare l’altare in onore di Maria Liberatrice nella cattedrale di Civita, muore lasciando la figlioletta Giovannina alle cure del marito. Gastone si reca a Civita per fare visita al parroco don Oscar, ma Giuseppe intuisce che si trova in quei luoghi per un mancato appuntamento con la moglie, di cui ignorava la scomparsa fino a qualche minuto prima. In un drammatico confronto sul sentiero scosceso che porta a Bagnoregio, Giuseppe prova l’irrefrenabile istinto di scaraventare nei burroni il giovane visibilmente impaurito e sconvolto, ma lo risparmia per un ritorno subitaneo della ragione.
La scena si sposta a Roma nell’abitazione dei mercanti ebrei di antiquariato, di nome Budrio e poi del sacerdote don Giulio Serventi, divenuto celebrità per le sue rigorose ricerche religiose ma anche per la coraggiosa apertura mentale alle nuove istanze religiose che si fanno largo in numerosi strati della Chiesa. Gastone Budrio subisce il fascino intellettuale del sacerdote che svolge anche attività didattica; alla fascinazione colta si mescola quella della giovane nipote Monica, per cui si fa battezzare e sposa la fanciulla, rinnegato dai genitori ferventi israeliti osservanti e vicini al crescente movimento sionista. Ci sono pagine molto suggestive sul tormento del giovane all’atto di prendere il battesimo, a cui fanno da contrappunto le investigazioni teologiche di don Giulio sulla natura di questa conversione, non ritenuta del tutto appropriata e matura.
La vicenda torna a dipanarsi dieci anni dopo, negli ultimi mesi della Grande guerra, tra Civita e Bagnoregio e coinvolge Giovanna Oliver e Bonaventura Igelli, rampollo della più ricca famiglia bagnorese, innamorati l’una dell’altro sotto l’occhio vigile della domestica Isolina e della maestra Ida Jény.
La situazione precipita perché Giuseppe muore divorato dai rimorsi per avere maledetto la moglie sospettata di tradimento, subito dopo la celebre processione del Venerdì santo, quando l’antichissimo Crocifisso di legno custodito a Civita viene portato in processione lungo il corso del paese, per tornare la notte stessa nella sua nicchia dove è custodito da secoli. Giovanna incontra Bonaventura nei pressi della fontana in mezzo al bosco: è quella detta del Pidocchio, nota ancora oggi come meta di gitarelle e scorribande sulla strada per Orvieto. Ma la giovane decide di rinunciare al matrimonio e di dedicarsi alle missioni di carità, prendendo i voti all’interno dell’ordine belga lungamente studiato dal padre. «Vedi gli amori umani, Giovannina? Tradiscono, seminano colpe e rovine. Un solo amore non inganna e remunera. L’amore di Gesù!»: con queste parole pronunciate come in un’apparizione, il barone Giuseppe Oliver spinge la figlia ad abbandonare la strada verso la felicità di un amore sincero per dedicarsi al silenzio e alla pregiera.
Ma la giustizia divina finisce per colpire chi viola la legge e la tradizione dei padri. Nico, il bambino nato dal matrimonio tra Gastone Budrio e Monica Serventi muore precipitando dal terrazzo di casa a Roma, lasciando genitori e parenti nel dolore più atroce. Restano a mantenere viva la tradizione ebraica il centenario avo polacco Daniele, i cui discendenti si sono trasferiti in Palestina, a Tel Aviv costruita e abitata da soli ebrei, e pochi familiari, come Miriam, madre di Gastone e fervente israelita. Don Giulio Serventi è avvolto nei dubbi sulla legittimità del suo pensiero che si fa superbia e si eleva al di sopra del semplice magistero per cercare il successo e la lusinga. Sospeso a divinis in seguito ad uno studio sul gallicanesimo che ha ottenuto un largo consenso, in cui avanzano le idee del modernismo cattolico contestate dalle gerarchie vaticane, l’uomo soffre nel vedere la propria madre tormentarsi per il percorso spirituale che ha intrapreso.
Il mare e la vela è romanzo della piena maturità di questa scrittrice oggi pressoché sconosciuta, nonostante alcune pagine risultino vivaci e fresche. Lo stile è quello dell’epoca, oscillante tra la verbosità di Antonio Fogazzaro o di Matilde Serao e il realismo di Grazia Deledda. Il paesaggio di Civita e quello di Bagnoregio sono assolutamente veritieri, testimonianza della conoscenza dei luoghi e dei costumi della popolazione locale. La tragica morte della maestra Ida Jény durante una bufera di neve improvvisa mentre si reca alla festa di nozze di due contadini, suoi alunni adulti, in uno dei casali delle campagne circostanti, attesta la frequentazione dei luoghi noti successivamente come Valle dei Calanchi.
CLARICE GOUZY TARTUFARI
Quel territorio diventerà qualche anno dopo lo sfondo e l’oggetto della narrativa di Bonaventura Tecchi. Ma nella prosa di Clarice Tartufari ci sono momenti di intensa poesia che anticipano proprio quella dello scrittore bagnorese, insigne germanista allo stesso tempo. Nata nel 1868 a Roma in una famiglia benestante di padre francese di nome Gouzy, visse l’adolescenza e la prima giovinezza a Novilara, in provincia di Pesaro, studiando nelle locali scuole e conseguendo il diploma di maestra. A Roma conobbe e sposò un giovane toscano ed andò a vivere a Bagnore, paese sul monte Amiata. Iniziò a scrivere poesie e racconti, passando poi al teatro dove ottenne un discreto successo, tornando alla prosa negli ultimi anni di vita.
Il suo primo racconto, è Maestra, pubblicato nel 1887, molto noto all’epoca: la protagonista è Maddalena, donna semplice ma decisa ad elevare lo status della figlia Ginevra facendola a tutti i costi studiare per avviarla all’insegnamento. L’elenco delle sue opere narrative è nutrito: Roveto ardente è romanzo del 1901, cui segue L’albero della morte del 1912 che ha come epicentro Roma e la zona dei Fori non ancora investiti dallo sventramento degli anni Venti, anche se i lavori per l’erezione del Vittoriano avevano trasformato la zona, arrivando a demolire finanche la casa abitata da Michelangelo Buonarroti. IL mare e la vela risale al 1924 e l’autrice, come scrive nella prefazione, vi ha dedicato due anni d’intensissimo lavoro; nel 1925 segue Il miracolo che ha come sede degli avvenimenti la città di Orvieto, poco lontano da Bagnoregio e quindi sicuramente visitata contestualmente ai soggiorni nella zona; infine, nel 1933 vede la luce Ti porto via!, ultima opera della scrittrice. Ma altrettanto intenso è stato il percorso per il teatro, con testi come L’Eroe del 1904, La salamandra del 1906, Il marchio del 1914. L’opera teatrale più rappresentativa è sicuramente Suburra, incentrata sulla vita della piccola borghesia romana impiegatizia e mercantile, tradotta e rappresentata anche il Germania con discreto successo. Il miracolo, considerato probabilmente il suo libro migliore, vide la luce in una prima versione nel 1909 e fu tradotto in tedesco con il titolo Das Wunder (Stuttgart, 1911) il cui il contrasto tra modernismo e cattolicesimo tradizionalista è affrontato con vasta competenza, secondo alcuni critici.
La scomparsa di Clarice Tartufari, avvenuta a Bagnore nel 1933, coincide con la massima espansione del fascismo; la successiva avventura coloniale in Etiopia non lasciano spazio nel lettore medio alla narrativa impegnata sul piano sociale, né alla trattazione di temi ideali e spirituali, né tanto meno al travaglio religioso. Il successivo Manifesto sulla razza impedirà di affrontare qualsivoglia tema legato agli ebrei, se non per denigrarne le origini e denunciarli come nemici. Molti critici letterari contemporanei ne hanno apprezzato lo stile e i contenuti. Forse appare esagerato il giudizio di Benedetto Croce che considerava Clarice Tartufari superiore a Grazia Deledda: «Temperamento assai più robusto, sguardo più ampio e sentire più vigoroso e compatto» (La letteratura delle nuova Italia, VI, Bari 1940, p. 323), ma è innegabile che siamo di fronte ad una donna di talento e ad una scrittrice valida. Qualche suo libro è oggetto di ristampa, scaduti i diritti d’autore nel 2003. Qualcuno si può trovare su bancarelle e librerie antiquarie. Qualche piccola casa editrice si sta interessando a riproporre aspetti della sua narrativa. Probabilmente sarebbe opportuno condurre una rivisitazione critica dell’intera sua opera, per dare giusta collocazione al suo corpus narrativo all’interno del primo Novecento. Ma ci sarà tempo per riprendere questi proponimenti.
Oggetto di queste note è il paesaggio di Civita e di Bagnoregio all’interno di Il mare e la vela. Chi legge il romanzo rimane colpito dalla precisione con cui la scrittrice affronta la descrizione del paesaggio, i personaggi riferiti ai luoghi narrati, il contesto sociale in cui maturano gli avvenimenti e si determina il comportamento dei protagonisti. E’ il caso di seguire la narrazione con ordine.
CIVITA E BAGNOREGIO NEL ROMANZO IL MARE E LA VELA
«Da un paese all’altro le campane si chiamano e si rispondono; i campi si riposano cinti dall’ombra mobile delle siepi in fiore e solcati dalle ombre fuggevoli degli uccelli a volo; i buoi accosciati davanti alla greppia, ruminano in pace e muggiscono, a intervalli, per domandare al bifolco di essere abbeverati; le massaie rubiconde, in groppa all’asino, scendono in paese a vendere erbaggi e ad acquistare frottole dai mercanti girovaghi. Intanto la luce si diffonde e tutto allieta in vetta ai colli e nel fondo delle vallate» (pag. 26).
Può sembrare una descrizione generica, suggerita anche dall’incipit di questo capitolo II:
«L’indomani mattina le cose, nell’aria serena di maggio, avevano il particolare colore delle domeniche nei paesetti umbri adagiati tra il verde».
Ma si tratta proprio del territorio bagnorese: Civita, chiamata anche castello, pur non essendo stata mai una fortezza, domina la valle, circondata da Lubriano e da Vetriolo sul lato sinistro, mentre alle spalle di Bagnoregio si stagliano i boschi della Carbonara e l’abitato di Vaiano e sul lato destro i casali sorti su poderi ricchi di ulivi e di vigne che digradano nella valle. Ed ecco irrompere la figura del sacerdote di Civita, don Oscar, che secondo alcuni osservatori odierni sarebbe Oscar Righi (1891-1965), lo zio di don Enrico Righi storico parroco di Bagnoregio, recentemente scomparso.
«Don Oscar, il giovane parroco, non somigliava affatto ai parroci campagnoli delle vecchie commedie e dei vecchi romanzi per la gioventù del passato. Possedeva una fede robusta, ma disinvolta; era devoto ai parrocchiani a patto ch’essi fossero devoti alla religione; parlava di politica con larghezza di vedute e passione, fumava la pipa senza sotterfugi e qualche bicchiere di buon vino non riusciva a scandalizzarlo, neppure fuori pasto» (pag. 27).
I più anziani civitonici ricordano questo sacerdote burbero e bonario, come Vilma Catarcione nel suo volume di ricordi Civita nel cuore. Ricordi di una civiltà perduta (Viterbo sd); alla stessa maniera lo rappresenta Bonaventura Tecchi nel racconto Il paese che muore del 1947, contenuto nella raccolta Antica terra, pubblicata nel 1968, l’anno della scomparsa dello scrittore.
Ed ecco la descrizione di Civita nell’atto in cui Leonora con la figlia Giovannina e della cameriera Isolina si reca nella chiesa del borgo per portare i fiori e ornare l’altare di Maria Liberatrice.
«I secoli erano passati con una lentezza tale sopra i massi del monte ed i muri degli antichi palazzi che, massi e muri, pure corrodendosi e screpolandosi, serbavano la fisionomia dei tempi lontani, quando Civita signoreggiava su Bagnorea, allora borgo, e dall’arcata tetra uscivano uomini armati a devastare le terre sottostanti. Tempi benedetti, pieni di grazia! San Bernardo pregava nella piccola casa, tuttora in piedi sopra un masso isolato, e San Bonaventura, sin dalle fasce prometteva di diventare quel dotto santo che diventò per l’onore della Chiesa e del luogo nativo».
La prima osservazione a questa descrizione riguarda le armate che uscivano per devastare il contado: si tratta delle guerre contro i signori feudali che hanno sempre minacciato il territorio bagnorese. La seconda attiene all’arcata tetra: si tratta invece della bellissima facciata dell’austero palazzo del Governatore, su cui si staglia il becco ricurvo dell’aquila, arme del cardinale Reginald Pole che a Civita dimorò qualche tempo. La terza osservazione riguarda san Bernardo. Oggi quasi nessuno sa di chi si parla. In effetti, nell’VIII secolo è nato a Civita un giovane che prese i voti e successivamente fu nominato vescovo della diocesi natale e poi designato a quella di Castro, città in territorio dell’attuale Canino, feudo dell’antichissima famiglia Farnese. (F. Macchioni, Storia di Bagnoregio dai tempi antichi al 1503, Agnesotti, Viterbo 1956, pp. 85-89). Com’è noto, la città fu incendiata, distrutta ed eradicate le stesse fondamenta dalle armate pontificie nel 1649, al tempo di Innocenzo X Pamphilj. Di Bernardo si sono perse le memorie, se non fosse che la popolazione del suo tempo prese a considerarlo un santo per le sue opere di carità e la buona condotta delle diocesi in cui era stato nominato. Come poteva conoscere il nome e la storia di questo Santo una scrittrice lontana dalla cultura territoriale? A quali frequentazioni era dovuta la sua consuetudine bagnorese?
Ed ecco il momento cruciale della prima parte delle vicende narrate. Gastone giunge in motocicletta a Bagnoregio per incontrare Leonora, dopo il mancato appuntamento romano. La scusa è chiedere consiglio a don Oscar su alcuni arredi sacri. Il pettegolo segretario comunale, intento a bighellonare sulla piazza dove si radunano i bagnoresi attratti dal gelato di Rosa, lo informa della morte di Leonora.
«Gastone, senza una parola, riprese a camminare. Lo spasimo si ammorbidiva, mischiandosi a una tenerezza struggente verso la diletta scomparsa. Poverina! Poverina! La vedeva nella chiesa di Civita scegliere rose per offrirle al suo Gesù. Ogni gesto di lei era un gesto di gentilezza, ogni accento un accento di soavità.
Dalla chiesuola delle monache, dove si svolgeva la funzione del Mese Mariano, usciva odore di fiori campestri e il suono dell’organo.
Lentamente, rilassandosi nell’anima e nelle membra, Gastone percorse il viale attratto dall’apertura luminosa, in fondo. Comprese il comando dei ricordi e ubbidì. Uscì dal viale, scese il viottolo scarpato e ne toccò il fondo a Mercatello. Sull’orlo della fontana si era seduto spesso con Leonora l’estate scorsa. Giovanna aveva sete ed egli le porgeva da bere nel bicchiere tascabile. Leonora sorrideva pensosa, gingillandosi con la frangia della sciarpa ed egli, a capo chino, non osava guardarla e la vedeva lo stesso. Si avviò al castello, ammantato di luce, sull’ultimo masso e, salendo, cercava di non vedere gli abissi, di qua e di là. Un leggero capogiro, un piede in fallo, e sarebbe precipitato. La morte gli faceva orrore, subdola, assurda, impaziente, risparmiando, per capriccio, vecchi ed infermi, ghermendo, per malvagità, giovinezze splendenti» (pp. 50-51).
Si consideri che al tempo degli avvenimenti, attorno al 1908, Civita era collegata a Bagnoregio da un viottolo sterrato ai cui lati crescevano scarne acacie, come si vede da fotografie d’epoca. Le frane successive hanno obbligato la costruzione del primo ponte che ha retto, con alterne vicende, fino ai crolli del 1941 e alla quasi totale distruzione nel 1944 da parte dei tedeschi in ritirata dall’Italia centrale verso il Nord. La fontana di Mercatello è ancora al suo posto, ricavata dall’antico fontanile che fungeva da abbeveratoio per gli animali da lavoro di ritorno dai campi: oggi costituisce un presidio indispensabile di ristoro e di frescura per i visitatori.
«Sulla Piazza del Castello non c’era nessuno; gli uomini ancora pei campi, le donne nelle case a preparare il pasto. Spinse la porta socchiusa della cattedrale e, dietro di lui, la piazza sembrava un lago di sangue e le grandi nuvole, in alto, ardevano simili a roghi. Entrò nella chiesa, né pensò a togliersi il cappello. Le pareti gli si stringevano intorno, il soffitto della navata gli calava sopra il capo sacrilegamente coperto, i banchi allineati somigliavano ai banchi di giudici per una condanna. Gelo, ombra ineffabile! Maria Liberatrice, elevata sul piedistallo, circondata di mistero; e, nascosto dalla tendina, il Crocifisso, che egli aveva tante volte ammirato con occhio d’artista e che adesso, quantunque non visibile, empiva di sé, formidabilmente, la silenziosità scura del luogo» (p.51).
La precisione con cui è descritta l’attuale chiesa di San Donato dimostra la frequentazione non occasionale dei luoghi da parte della scrittrice. Indubbiamente prevale l’abilità nella narrazione, la capacità di incrociare elementi veri con l’invenzione, ma in questo caso i luoghi sono autentici, mentre risultano opera di fantasia la storia narrata e i personaggi. Il contesto dimostra l’attitudine di Clarice Tartufari a sapere mescolare bene, in modo credibile, realtà e invenzione. Ma per farlo bene, come nel caso di Il mare e la vela, occorre conoscere perfettamente la realtà.
«Sentiva alla nuca il respiro ardente dell’uomo tradito, ne calcagni la punta dei piedi incalzanti e il ribrezzo gli agghiacciava le vene. Si fermò sull’orlo del precipizio, a braccia spalancate. Giacché la fine era inevitabile, la fine arrivasse subito.
– Cammina! – gl’impose all’orecchio una voce rauca. – Cammina!
Gastone chiuse gli occhi e si buttò in avanti.
Cammina! Cammina! Questo per lui e per la sua stirpe errante fino alla consumazione del tempo! Ma all’improvviso, prima che la mente intuisse, il sangue gli si ghiacciò, trasfondendogli calore e una gioia istintiva. C’era il morbido dell’erba sotto le sue piante e una frescura intorno alla sua fronte. Avevano toccato il piano, era salvo. Non cedé all’impeto di fuggire. Più che il suo orgoglio di uomo, lo vincolava il senso di una giustizia astiosa, ma profonda. Era del colore della cenere, i denti gli battevano, eppure attendeva il destino con coraggio passivo.
– Vattene! – gli disse Giuseppe, e allungò la mano per respingerlo; poi
la ritrasse per la ripugnanza di toccarlo. – Il Dio dei cristiani è stato sopra di me e non ti ho ucciso. Vattene tu!» (pag. 53).
Scacciato da Civita, Gastone Budrio torna a Roma nel suo ambiente d’origine, ugualmente descritto con grande precisione e cura nei dettagli. La scrittrice deve per forza di cose avere frequentato gli ambienti della comunità ebraica romana, perché in alcuni casi ricorre alle formule di rito dell’ortodossia rabbinica. Gli anni trascorrono e la figura del giovane sacerdote Giulio Serventi, docente nella locale Università lateranense, assume un rilievo di primo piano sullo sfondo della discussione in atto nella Chiesa, tra posizioni tradizionaliste e quelle moderniste. Egli si cimenta inconsapevolmente nel dedalo delle speculazioni legate alla lotta al gallicanismo, ma resta travolto dal suo stesso successo e dal compiacimento che ne deriva. La crisi è inevitabile, ma don Giulio non sa esattamente come venirne fuori e alla fine è costretto a subire il processo dottrinario, cui segue la sospensione a divinis e la scomunica semplice. Anche per Gastone, convertitosi al cristianesimo, è un brutto colpo. Così, dopo dieci anni circa, la vicenda si sposta da Roma nuovamente a Bagnoregio, coinvolgendo Giovannina e il giovane tenente Bonaventura Igelli, promessi sposi. Don Oscar, il prete di Civita, è sempre al suo posto e svolge le sue funzioni con umanità. Il suo attaccamento alla parrocchia locale è fortissimo. Il richiamo con don Oscar Righi è immediato, anche se il sacerdote civitonico nella realtà inizia il suo mandato proprio nei primi anni Venti. Gli seguirà don Francesco Cori che resterà per moltissimo tempo a capo della parrocchia locale ed ha tramandato immagini bellissime di Civita, essendo un bravissimo fotografo.
«Civita! Quante volte se l’era richiamata al pensiero con tenerezza! Quante volte aveva sospirato la casona immensa, dove ogni notte i sorci facevano festa, e il bell’orto che gli dava legna per l’inverno, uva e fichi d’autunno, per le saporose merende! E aveva ripensato le femmine pei vicoli, ciarliere e pacifiche; ed i bimbi – quanti Signore Iddio ̶ turbolenti, coi visi sudici di broda e gli occhi chiari, splendenti, come stelle di un cielo estivo. Li pigliava a scapaccioni quei piccoli cristiani; insegnando loro il catechismo, li chiamava pagani, figli di pagani, ma, trovandoseli fra i piedi, allorché percorreva a gambate da montanaro le viuzze del castello, gli pareva di camminare fra nidiate di uccelletti e benediva in cuor suo la fecondità delle tonde parrocchiane! Quante volte, esercitando al fronte l’ufficio di cappellano militare, aveva ripensato con amore al suo castello, alla sua chiesa, all’immagine di Maria Liberatrice, al Cristo prezioso e miracoloso, mentre si aggirava pei camminamenti, fra uomini ammassati» (pag. 166).
Ed ecco irrompere nelle vicende la figura di Bonaventura Igelli. Si tratta di un calco dei tanti giovani di buona famiglia, ancora ricchi per possedimenti di terreni e poderi condotti in prevalenza a mezzadria. E’ appena uscito da una lunga convalescenza per una ferita al fronte e si reca a Civita per confidare proprio a don Oscar il suo amore per Giovannina Oliver.
«Il vento scendeva furioso dalla roccia a investirlo per respingerlo; Bonaventura curvava la schiena per resistergli e farsi largo. Il berretto gli ruzzolò tra vortici di polvere ed egli, dopo una rincorsa a zig zag, arrivò a ghermirlo e se lo lo piantò in testa, tirandolo per la visiera. Avanti, avanti! Avanti, perché? verso dove? Avanti per camminare ed esercitare il vigore riconquistato! Avanti verso la vita che lo richiamava con impazienza!
In una mattina riarsa era caduto supino, precedendo i suoi soldati, e il globo del sole si era schiantato in globi rossi, poi gialli.
̶ I fuochi! I mortaretti! ̶ egli aveva pensato, e un suono di campane gli era corso dentro il cervello a portargli via le idee. Le vene gli si vuotavano, i ricordi dileguavano; sapeva di stare immoto e sapeva anche di sprofondare interminabilmente nelle acque di uno stagno. E, tornato in sé in una piccola stanza bianca, adagiato, bendato, gli era rimasta l’impressione di calare interminabilmente.
Provava una fatica enorme nel non poter sostare eppure non avrebbe voluto fermarsi. Immaginava che, toccato il fondo, sarebbe rimasto supino e si sarebbe quietata la voce che gli piangeva nella cavità del petto. Chi gli piangeva dentro? Forse sua madre, morta da anni, da anni? Piangeva per l’angoscia di riaverlo così presto?
Guarito, mandato in licenza, gli perdurava il senso di ondeggiare in una massa liquida e, parlando, ascoltando parlare, udiva, a tratti, sorgere dalle cavità del petto la eco affievolita di un pianto» (pgg. 167-168).
Si tratta di pagine toccanti per sincerità e umanità, dove la qualità letteraria conserva interamente la sua validità nella rievocazione della caduta di fronte al fuoco austriaco uscendo dalle trincee per lanciarsi all’attacco, alla testa dei propri soldati. La guerra era passata da poco e la scrittrice avrà ascoltato centinaia di volte i racconti dei reduci. Eppure in poche righe Clarice Tartufari è riuscita a raccontare non l’episodio nel suo svolgersi, ma le sensazioni provate dal giovane ufficiale ferito gravemente. Molto suggestiva l’immagine dello stagno e poi quel richiamo alla madre defunta che «piangeva per l’angoscia di riaverlo così presto», degne di Stendhal, di Victor Hugo, di Lev Tolstoj.
«Ed ecco che quella mattina, mentre spalancava la finestra, il vento lo aveva scosso ed egli aveva tenute ferme le persiane con la sola forza delle braccia, diritto nel vano tutto si muoveva! Le foglie sui rami e, quelle staccate, tra la polvere; le nuvole sul turchino; tra gli alberi i raggi a matasse, che, coi fili di luce sottili, tessevano intorno ai tronchi una veste leggera, a ricami argentati. Il manto dei coli s’increspava, si spostava la linea dell’orizzonte, tutto era moto, e Bonaventura, battendo il piede, aveva sentito la stabilità. Dentro la cavità del petto il pianto taceva; una voce cantava, fresca come uno zampillo, il ritornello della speranza» (pag. 168).
La descrizione della città di Bagnoregio, a dieci anni di distanza dall’inizio degli accadimenti, risulta complessivamente sommaria, bozzettistica, ma ha il dono della brevità. Tuttavia, i caratteri salienti sono precisi e dimostrano ancora una volta la conoscenza dei luoghi.
«Apparentemente Bagnorea non era cambiata in dieci anni. Dieci primavere, al solito, erano passate sui giardini e sugli orti a ornare le aiuole di umidi colori e le siepi del lieve biancospino; poi dieci estati, avide e peccaminose, erano sopraggiunte a ubbriacarsi di sole, satollarsi di frutta; e gli autunni, stracchi, sornioni, si erano presentati vestiti di nebbia, finché gl’inverni, che a Bagnorea si trovano in famiglia, erano arrivati per le loro visite interminabili. Così dai tempi dei tempi, così in quegli ultimi dieci anni. Nulla era dunque cambiato apparentemente, ma, in sostanza, erano avvenuti cambiamenti radicali. I ragazzetti di dieci anni avanti ne avevano venti e facevano all’amore; quelli che dieci anni prima, stavano aspettando chissà dove il loro turno di venire al mondo, erano venuti e facevano un chiasso d’inferno; intanto nei cervelli maturi il modo di pensare si era capovolto e ad ognuno pareva che l’umanità avesse cambiato rotta» (pag. 173).
Ed ecco una notazione di colore che risponde perfettamente alla verità storica: Villa Agosti è stato proprio l’asilo del tempo e successivamente con al nome Agosti è stato intitolato l’Istituto Tecnico Agrario, diventato noto in tutta la Tuscia.
«Il viale dell’ultimo incontro fra Leonora e Gastone somigliava, in quel pomeriggio mutevole, alla navata di una cattedrale, coi tronchi ai due lati, dalla scorza d’argento, simili a massicci candelabri, ed i rami, radi, spogli, di varia altezza, con lingue di luce in cima, simili a torce. In fondo il globo del sole fiammeggiante di raggi, splendeva come un ostensorio sopra un altare, e le orfanelle dell’ospizio di Villa Agosti, tornando dalla solita passeggiata, cantavano un devota canzoncina, che le suore sorveglianti intonavano, battendo le palme» (pag. 174).
Si giunge così ad un appuntamento importante nella vita di Civita e di Bagnoregio: la processione del Venerdì Santo. Si tratta di una data che nessuno può dimenticare, perché la sua nascita si perde nei lunghi secoli medievali e rappresenta il massimo della tradizione religiosa e della distintività tra Civita e Bagnoregio. Si tratta di un appuntamento al quale nessuno vuole e deve mancare. Così è per Giuseppe Oliver, gravemente ammalato.
«La malattia, che aveva serpeggiato per anni, lenta e subdola, si aggravò rapidamente durante la settimana santa e il venerdì, giorno della passione di Cristo, egli sentì che le sue ore erano contate, ma cercò di dissimulare il suo stato perché Giovanna potesse prendere parte alla processione tradizionale da secoli a Bagnorea.
Sebbene piovesse a scrosci dalla mattina, in tutte era la certezza che sull’imbrunire l pioggia sarebbe cessata. Non esisteva ricordo, a memoria d’uomo, che il tempo, per quanto malvagio, non si fosse rasserenato allorché il Crocifisso, portato a Civita non si sapeva da chi, né in quale anno, doveva alare dal castello per essere deposto sopra un cataletto e percorrere processionalmente la sottostante Bagnorea» (pag 184-185).
La processione de Venerdì Santo è entrata magistralmente nel cinema, all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo: Federico Fellini ha inserito la cerimonia nel film La strada, girato prevalentemente a Bagnoregio e utilizzando tanta parte della popolazione locale, compreso i bambini, come comparse.
« – Nessuna paura – diceva don Oscar, andando e venendo dalla cattedrale di Civita alla piazza. – Abbiate fede nel buon tempo e il buon tempo verrà al momento giusto. La fede fa muovere le montagne; immaginate se non fa muovere le nuvole.
Gli incappati, a braccia conserte, al riparo sotto gli androni dei foschi palazzi disabitati, aspettavano interminabilmente con la fede irata di chi vuol credere a ogni costo, non credendo; le ragazze, esaltate al pensiero di sfilare con le vesti bianche a ricami, tendevano l’orecchio alle finestrelle, schernendo la pioggia, con la fede gioiosa di chi desidera con tale ardore che il desiderio assume già forma di realtà.
Una clarissa in adorazione davanti al Cristo deposto sopra una coltre di velluto, sotto un velo cosparso di stelle, fu la prima a ricevere l’annuncio che il buon tempo arrivava. L’annunzio glielo portò, dal finestrone della chiesa, il grido isolato di una rondine.
L’adorante, prona, non si sollevò dalla polvere, ma implorò ad alta voce:
- Gesù, per la gloria della vostra passione, fermate la pioggia.
La rondine ripassò con uno strido più acuto ed il suono fu come una lama, tagliò le nuvole e la pioggia si rifugiò nella pianura, lasciandosi dietro qualche goccia rara» (pgg 185-186).
La scrittrice tratteggia con abilità il comportamento dei fedeli e riesce a mettere in rilievo il sentimento di certezza nel miracolo della pioggia che cessa, annunciato dal volo della rondine. Un topos della narrativa, ma qui reso con partecipazione sentita.
«A Bagnorea porte e finestre si spalancarono, s’illuminarono, e lungo la strada fiorì in un attimo la doppia siepe dei cuori devoti e degli occhi ansiosi di mirare e ammirare.
Giovanna, che si era appartata nella sua stanza per assorbirsi nella rievocazione del sacrificio, scese in giardino e uscì dal cancello, raccolta in sé, schiva di preoccupazioni esteriori. Non aveva dubitato del sereno, mentre più imperversava la pioggia, non si meravigliava che le nubi, blocchi di pece mezz’ora prima, si screziassero di tenuti colori. Anch’ella era vestita di bianco, velata di nero, cinta la fronte di cipresso; l’accompagnava Isolina, drappeggiata di uno scialle a ricca frangia e, in pugno, una torcia di buon peso» (pag. 186).
Ed ecco la processione, descritta a larghe pennellate ma precisa nel suo svolgersi, secondo un modulo immutabile nel tempo. Mote altre Sacre rappresentazioni sono ancora oggi in vigore in molte città e numerosi borghi rurali, ma quella di Bagnoregio presenta una sua fascinazione legata al trasporto del Crocifisso che, al termine della cerimonia, deve essere riportato a Civita e ricollocato nella nicchia storica. Il Crocifisso è una pregevole scultura in legno, probabilmente di scuola fiorentina. Qualche studioso locale sostiene che si tratti di opera della bottega di Donatello, ma qualche altro sostiene la provenienza fiamminga per i tratti massimamente realistici del volto e del corpo di Gesù. In ogni caso, si tratta di una scultura che merita la massima attenzione da parte degli storici dell’arte, in quanto è perfettamente conservata.
«Preceduta dal tamburo, che faceva echeggiare colpi funerei, la processione iniziò la sua sfilata con lentezza solenne. A intervalli, il tamburo sospendeva i suoi colpi e allora il concerto intonava melodie piene di gemiti. Gli ottoni mandavano gridi di strazio, la grancassa rombi sotterranei, i piatti stridevano ed i flauti esalavano lamenti; era la natura stessa che plorava, le stesse viscere della terra che si commuovevano, le cose minute e umili che doloravano per la morte di Gesù.
La folla, inginocchiata, si batteva il petto, qualche donna singhiozzava e i cuori, con le parole o in silenzio, si rivolgevano al Redentore, che, per la sua corona di spine, per gli sputi e le battiture, si movesse a pietà del mondo travagliato» (pag. 186).
Giuseppe Oliver assiste dalla balconata del proprio palazzo alla processione e avverte prepotentemente dentro di sé l’errore di non avere saputo perdonare Gastone Budrio per l’amore portato alla moglie Leonora e soprattutto per avere maledetto la sua povera donne.
«Ecco la bara, circondata dal vescovo e dal Capitolo e, dietro, giovinette in vesti bianche e veli neri, cinte le fronti di cipresso e rievocanti in nenie dolorose, lo strazio di Maria Addolorata […]
Gesù crocifisso, giacente sul cataletto passò, tra l’oscillante luminoso delle torce e le onde canore delle preci.
Allora Giuseppe pianse di dolcezza, mirandogli dall’alto, sul viso riverso, lo stanco abbandono della morte, misto al guizzare della imminente vita, quando le membra si sarebbero svincolate dalla immobilità e dalle bende e Cristo risorto sarebbe salito alla destra del Padre, nella gloria dei cieli» (pag. 188).
La narrazione di Clarice Tartufari ha il pregio di intrecciare un evento religioso memorabile con il privato dei personaggi del racconto. Ma è in particolare con uno dei protagonisti che ha un impatto che si rivelerà fatale: infatti, come si è visto, Giuseppe Oliver resta profondamente commosso dallo spettacolo, ricevendone un effetto catartico. Consapevole ormai del grave torto per il mancato perdono della moglie, l’uomo si lascia andare inesorabilmente verso la morte che sopraggiunge qualche giorno dopo.
La figlia Giovanna accetta con rassegnata umiltà la nuova condizione e decide di prendere i voti, entrando nell’ordine belga dei Congressi eucaristici, fondato da una tale Tamisier, la cui attività il padre aveva sostenuto con i suoi studi di teologia. Rinuncia così all’amore per Bonaventura Igelli e glielo comunica in un drammatico incontro.
«Uscì dal paese e volse a destra, per il viale tortuoso. Le acacie agitavano appena il volume disciolto delle chiome adorne e, in pioggia lenta, i petali scendevano sui margini erbosi. A coppia, in fila, a schiera girevole, le farfalle si dilettavano della loro vita fuggevole. Un palpito delle ali screziate, il gaudio di un attimo e poi disperdersi, polvere d’oro, nella cetra d’oro dei raggi.
Giovanna, sotto la pioggia dei petali e tra il volteggiare delle farfalle, ristette con sensi di gioia per la bellezza delle cose e di sgomento per la loro caducità.
Frattanto Bonaventura l’aveva riconosciuta di tra gli alberi. Seduto sopra un muricciolo, presso una fontanella, la vedeva scomparire, nascosta da una svolta della strada a pendio, poscia ricomparire nel sole, in una radura e avanzarsi leggera, svelta, quasi alata» (pag. 192-193).
Sono frasi certamente ad effetto, ma contengono un messaggio di poesia innegabile, come quel richiamo alla cetra le cui corde sono rappresentate dai raggi del sole tra i rami delle acacie. La fontanella è sicuramente quella che si trova sulla strada per Orvieto, conosciuta come “Fontana del Pidocchio”.
Si avvicina così l’epilogo per i personaggi bagnoresi e civitonici contenuti nel romanzo. L’epilogo è tragico, perché la maestra Ida Jéni muore precipitando in un burrone durante una bufera di neve. Smarrita la strada che avrebbe dovuta condurla al casale degli sposi, suoi alunni adulti, per prendere parte alla festa nuziale, viene aggredita da Remigio, il rozzo e violento monco che la importunava da tempo. Nello sforzo di divincolarsi, nonostante i colpi alla testa inferti dall’uomo, riesce a respingerlo, ma Remigio mette un piede in fallo e precipita trascinando con sé la maestra.
«Dal castello di Civita, avvolto di tenebre. Guizzarono due lumi e la campana della cattedrale mandò la sua voce solenne, che Isolina accolse come una promessa di speranza, mentre Giovanna, in preghiera nella propria stanza, ci udì la conferma del messaggio. S’inginocchiò, implorò pace per l’anima della fida compagna e, lucidamente, pregò pace anche per un’anima greve, affaticata, in quel punto, a divellersi dal corpo mutilato e sanguinolento» (pag. 205).
QUALE GIUDIZIO?
Il romanzo oggi si presenta del tutto datato, nei contenuti certamente e nello stile. Ma il suo intreccio narrativo contiene suggestioni utili per riflettere sul clima culturale del periodo in cui è stato scritto e che avvia alla stagione del fascismo, della chiusura culturale, nel nome del Novecentismo prima e poi dell’autarchia del regime.
Romanzo sulla colpa e l’espiazione, secondo un filone molto in voga alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Per quanto riguarda i richiami più immediati sul piano ideale e religioso viene in mente Antonio Fogazzaro, mentre sul terreno più generalmente sociale il rimando non può che essere alla prosa di Matilde Serao, Ada Negri, Grazie Deledda. L’autrice si concentra sul filone della colpa da espiare: colpa per il tradimento della fiducia e dell’amore che colpisce Leonora; colpa per il mancato perdono e della maledizione della vittima che investe Giuseppe; colpa per avere mutato fede religiosa, anche se in questo caso la punizione del dio di Israele si abbatte sull’innocente figlio dello spergiuro Gastone Budrio; colpa per il delirio di superbia e di compiacimento dei successi nel trattare materie che appartengono alla speculazione filosofica piuttosto che alla predicazione ed all’insegnamento evangelici, riguardanti don Giulio Serventi, su cui si abbatte la riprovazione delle autorità religiose superiori. E poi le vittime innocenti, come la maestra Ida Jéni, colpevole del suo rigore d’insegnante e di donna responsabile, morta per sfuggire al suo persecutore. E anche Giovanna, la giovane che decide di prendere i voti, è vittima delle colpe degli altri, e a sua volta, rifiutando l’amore di Bonaventura Igelli, si rende responsabile dell’enorme strazio che procura al giovane.
Questo intreccio di temi è trattato con linguaggio appropriato e agevole per il lettore, non scade quasi mai nella banalità, anche quando aspetti complessi vengono affrontati con pochi tratti di penna. Il paesaggio di Civita e di Bagnoregio, gli usi e i costumi degli abitanti sono descritti con tinte veritiere, come si è visto dalle citazioni riportate, testimonianza ancora una volta delle qualità narrative della scrittrice. Non si assiste a sdolcinate narrazioni di albe e tramonti, a sentimentalismi frustri, ma gli accenti sono in generale sinceri e denotano l’amore per il territorio e la gente che lo affolla. Questa constatazione vale anche per le descrizioni riferite a Roma: si veda al riguardo la descrizione del dedalo di strade e sentieri attorno alla via Nomentana subito dopo Porta Pia, oppure la trattazione di via Nazionale con i suoi palazzoni da poco edificati, le botteghe e i negozi, fino alla presentazione minuziosa dell’interno delle abitazioni con figure di secondo piano ben delineate.
Si può parlare di un romanzo che meriterebbe una rilettura a quasi un secolo della sua pubblicazione. Ma questo è argomento che dovrebbe essere affrontato nel contesto dell’intera produzione letteraria e teatrale di Clarice Tartufari e quindi oggetto di uno studio ben più approfondito e motivato.
Questo studio sarebbe auspicabile per tentare di individuare le figure autentiche su cui sono modellati alcuni protagonisti. La prima constatazione riguarda don Giulio Serventi. Non credo che all’autrice fosse sconosciuto il nome di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), sacerdote e teologo, storico del cristianesimo, protagonista di appassionate battaglie culturali e di numerose iniziative all’interno della Chiesa cattolica per favorirne il mutamento e l’adeguamento della dottrina rispetto ai rapidi cambiamenti della società del tempo. Proprio nell’immediato dopoguerra si accentua il contrasto tra le gerarchie vaticane e il brillante sacerdote, docente con largo seguito di giovani seminaristi. L’epilogo della vicenda umana e religiosa di Ernesto Buonaiuti sarà la scomunica e il rifiuto della ritrattazione sul letto di morte nel 1946, a Roma. Al contrario, don Giulio Serventi accetta la ritrattazione, su sollecitazione anche della madre, per tornare nel seno della madre Chiesa. Dapprima rifiuta di rinnegare le proprie tesi sulla chiesa gallicana, ma viene tagliato fuori dalla comunità dei fedeli, è sfuggito da amici che aveva creduto sicuri, si accorge di essere circuito da nuovi amici. Si trova in uno stato di grave disagio e confusione. La visita di don Oscar lo turba profondamente, soprattutto di fronte alla fermezza del rude parroco che guida la comunità locale con fermezza di fede e di carattere, così come l’incontro con un benedettino sulla gradinata di S. Francesca Romana lo fa cadere in uno stato di profonda prostrazione. Ma è la madre Emilia che invoca il suo pentimento a convincerlo a tornare indietro. Il dolore provocato nella donna, a cui il sacerdote è molto legato, per la riprovazione apostolica, lo spinge a rivedere la propria originaria e motivata intransigenza.
«– Povera donna – pensò don Giulio con senso involontario di compatimento e, raccogliendosi per prepararsi a redigere la lettera di ritrattazione, non sospettava che, in parte, era stato il silenzio di sua madre, grido incessante, ad avere ragione sopra la pertinacia dell’orgoglio» (pag. 276).
Sono pagine molto intense e dense di riflessioni psicologiche sulla natura dei personaggi. Il travaglio di don Giulio è identico a quello che vive contemporaneamente Ernesto Buonaiuti, ma la conclusione è opposta, perché lo storico e il teologo romano, pur restando profondamente legato alla madre che invoca moderazione e prudenza nel suo insegnamento e nelle sue pubblicazioni, rifiuta la ritrattazione poco prima di morire. Allontanato dall’insegnamento universitario perché si rifiuta di aderire formalmente al fascismo, continuamente osteggiato da padre Agostino Gemelli, Buonaiuti vive l’amarezza dell’isolamento e il cuore non regge. Sarà proprio il cuore a tradirlo e a condurlo alla morte.
L’altro richiamo riguarda lo scrittore Bonaventura Tecchi (1896-1968), nel 1924 ancora alle prime armi come narratore. A Milano pubblica la prima raccolta di racconti con il titolo Il nome sulla sabbia. Il giovane appartiene a una ricca famiglia di possidenti bagnorese, giovane ufficiale ferito durante la disfatta di Caporetto, curato in un ospedale tedesco e poi tornato a casa al termine del conflitto. La sua vicenda è stata oggetto di una drammatica testimonianza narrativa, dal titolo Baracca 15C, pubblicata nel 1961. Si dedica all’insegnamento e si reca in Germania e in Moravia dove resterà diversi anni. La Tartufari potrebbe averlo conosciuto in qualche circostanza e frequentato dopo la guerra, magari ospite del giovane proprio a Bagnorea, come si chiamava a quel tempo la cittadina della Tuscia. Una cartolina, probabilmente coeva del libro, riproduce Civita e ricorda che la foto è stata ripresa proprio «per la presentazione del romanzo Il Mare e la Vela». Ma si tratta di supposizioni. In ogni caso, bisogna ricordare che dopo qualche mese vide la luce Il miracolo, un altro romanzo di Clarice Tartufari, ambientato a Orvieto, non lontano da Bagnoregio. Questa è l’ulteriore conferma dell’assidua frequentazione del luogo da parte della scrittrice.
Come si vede, dalla lettura del romanzo si ricavano molti spunti per una ricerca più approfondita che vada oltre gli aspetti e gli interessi bagnoresi e civitonici, affrontando il contesto culturale e letterario in cui si manifesta il talento di Clarice Tartufari e si rivela quello ben più corposo di Bonaventura Tecchi.
Agostino Bagnato
Roma, 2 agosto 2017
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